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Inviato

Risultano numerose le occasioni durante le quali abbiamo scritto del significato che assume la presenza di Venere sulle monete fatte coniare da Giulio Cesare. Con delle modalità che si potrebbero definire tradizionali per la Roma repubblicana, le famiglie influenti utilizzavano le monete per glorificare la propria “gens” e Cesare stesso celebra la gens Iulia facendo incidere quanto di mitologico si voleva collegato a tale nome.

La gens Iulia infatti, faceva risalire le sue origini a Iulo che era il figlio del troiano Enea che a sua volta era stato generato dall’unione di Anchise con la dea Venere.

Possiamo notare la chiara allusione a queste origini mitologiche nel denario che riporta al dritto il ritratto di Venere rivolto a destra, mentre al rovescio si trova inciso Enea che reca sulle sue spalle il padre Anchise ed in mano il palladio (Cr. 458/1; B. 10).

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Quanto si trova celebrato sul precedente denario si collocava a pieno titolo nel solco della consuetudine repubblicana e lo stesso Cesare, nel corso della sua vita, avrà modo di dimostrarsi devoto alla dea al punto che fece edificare il tempio di Venere Genitrice; esso venne consacrato a Roma nel 46 a. C.

La Pietas, per i romani, era una virtù fondamentale e la si esercitava dedicando agli dei la devozione del culto e della fede. Lo stesso Enea, mitologico capostipite della gens di Cesare, era la perfetta rappresentazione della pietas, ma qual era in realtà la devozione di Cesare?

Le fonti e gli accadimenti storici ci propongono delle considerazioni molto interessanti.

Svetonio (Suet., Caes. 6) scrive che Cesare, all’epoca ancora adolescente, pronunciò un discorso in occasione delle esequie di una zia che era moglie di Caio Mario e disse: “nella mia stirpe vi è la maestà dei re che eccellono per potenza fra gli uomini, e la sacralità degli dei che hanno la potenza dei re nelle loro mani”.

Quanto leggiamo potrebbe apparire un esempio di retorica funebre che tendeva a soffermarsi sull’immortalità di una discendente dei Giulii o un’interpretazione di Svetonio che è vissuto in un’epoca molto differente da quella dei contemporanei di Cesare, ma vedremo che il tutto appare il frutto di quelli che erano i progetti ed i più personali slanci di un uomo che si vedeva motivato e proiettato in grandi imprese per sé stesso e per la sua famiglia. Imprese, queste, che segneranno la storia di Roma e porranno conclusione alla repubblica.

Le monete fatte coniare da Cesare ci danno prova del fatto che egli seguì scrupolosamente tutto il percorso riservato ai giovani patrizi che intendevano accedere ai più elevati ranghi della vita pubblica. Questo non risultava possibile se non si accedeva anche alle più prestigiose cariche religiose ed a 17 anni divenne Flamine, ossia sacerdote di Giove (Suet., Caes. 1). Episodio, questo, che troviamo rimarcato nel denario coniato nel 49-48 a. C.

Qui Cesare viene indicato con gli attributi tipici dei Flamini e ciò indica che egli si colloca, formalmente, all’interno della religione tradizionale.

Al dritto si osserva un elefante rivolto a destra, mentre in esergo vi è CAESAR. L’elefante, da quanto riporta il Babelon, alluderebbe al nome di “Caesar” che in lingua punica sta ad indicare lo stesso animale che si vede raffigurato. Il rovescio è anepigrafo e porta raffigurati gli strumenti sacrificali: culullum, aspersorio, ascia e copricapo dei Flamini (Craw. 443/1, B. 9).

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Nel 63 a. C. poi, mentre la sua carriera politica era già ben intrapresa, riuscì ad ottenere la carica di Pontifex Maximus che lo rendeva capo della religione romana. A tal proposito, sia Tacito che Svetonio concordano nell’affermare che Cesare era sì nella condizione di poter concorrere all’ottenimento di tale carica, ma non era nella posizione migliore per assumersi tale responsabilità. A detta delle fonti, Cesare pagò profumatamente la sua elezione (Suet., Caes. 13) ed alla vigilia dell’esito della candidatura avrebbe detto a sua madre: “voi oggi vedrete vostro figlio o Pontifex Maximus o cacciato da Roma” (Plut., Caes. 7).

Il denario che segue (Craw. 467/1b, B. 16) riporta al dritto il ritratto di Cerere rivolto a destra e coronato di spighe di grano. La legenda è: COS.TERT – DICT.ITER

Al rovescio: AVGVR PONT MAX con simpulum, aspersorio, vaso sacrificale, e bastone degli auguri. Nel campo M (munus).

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Le fonti, nel narrarci dell’elezione di Cesare alla carica di Pontifex Maximus, non celano dei giudizi e dei rimproveri che sono diretti al di lui arrivismo, al suo relativismo religioso ed al fatto che abbia comprato quanto a Roma vi era di più sacro.

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Inviato

Gli autori antichi ci descrivono Cesare con modalità che, trascendendo anche le diverse fazioni, lasciano trasparire il suo relativismo religioso ed il cinismo con cui ha utilizzato la fede dei romani per proseguire nel suo progetto di affermazione della propria autorità.

Se fin da giovane egli era asceso ai più alti vertici della vita politica romana, saranno le vittorie sui campi di battaglia che gli offriranno la possibilità di risultare onnipotente e se Silla già prima di lui aveva potuto aggiungere la divinità all’onnipotenza, con non poco cinismo, ora Cesare arriverà a far scaturire la divinità dal suo potere.

Per gli antichi non era difficile accedere a quello che per noi oggi risulterebbe un concetto poco condivisibile e che potremmo definire la “teologia della vittoria”. Per la società pagana non era difficile intravedere il favore degli dei verso coloro che guidano gli uomini e riportano grandi ed onorevoli vittorie. Cesare utilizzò con grande consapevolezza proprio questa antica sensibilità.

Nel 68 a. C. aveva ostentato la propria discendenza da Venere, nel 63 si era impadronito del pontificato massimo ed aveva diffuso leggende sulla propretura di Spagna nel 60. Per le numerose vittorie riportate in Gallia aveva fatto tributare agli dei del popolo romano interminabili “supplicationes” che si celebrarono nel 57, nel 55 e nel 52 a. C. Passò poi il Rubicone affermando di ubbidire ad un richiamo celeste e fece ritardare volutamente la notizia di Munda affinchè giungesse a Roma alla vigilia delle “Palilia”.

Cesare curava così la propria apoteosi e lo faceva aderendo pienamente alle forme ed alle sensibilità della religione tradizionale, ma dietro a tutto ciò vi era una strategia, la previsione quindi di quello che era il risultato da ottenere.

L’indole che Cesare aveva in queste cose la possiamo trovare descritta da Plutarco (Plut., Caes. 21) che ci riporta un episodio della guerra contro i Germani di Ariovisto. I Germani, narra Plutarco, prima di intraprendere delle battaglie, chiedevano gli auspici delle sacerdotesse che intendevano i segni comunicati dalla natura delle acque e dei boschi traendo i segni del da farsi dai gorgoglì delle correnti. Tali segni avevano espresso la necessità di attendere la luna nuova e così i Germani si disposero all’attesa, ma Cesare approfittò dell’occasione per colpirli di sorpresa ed agì in un modo che non solo non rispettava la religione dei barbari, ma che in ciascun altro avrebbe suscitato il timore dell’ira divina. Cesare non rispettò i segni celesti e vinse.

Nel tempo, poi, si gabberà spesso di diversi altri vaticini come fece con quelli che caratterizzarono l’alba del 15 marzo del 44 a. C.

Se questo era il suo atteggiamento interiore, i suoi comportamenti esteriori aderivano alla Pietas e nell’epico trionfo del 46 a. C. mostrò un raccoglimento ed una gravità degni di una religiosità antica e fortemente sentita al punto che salì i gradini del Campidoglio in ginocchio. Sul frontone del tempio il suo nome risplendeva sotto quello della Triade e nella cella, di fronte alle divinità poliadi, erano stati posti il suo carro ed una statua di bronzo che lo raffigurava in piedi sul globo del mondo. Sullo zoccolo era incisa la dedica del senato: “ a Cesare il semidio”.

Queste erano le forme esterne che Roma gli tributava, ma insieme a queste c’erano gli atteggiamenti dei Romani come quelli di Cicerone che gli rivolse delle lodi (in: Pro Marcello) e finì per definirlo “deo simillimum”.

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Dopo Munda la realtà arriverà per Cesare all’altezza delle iperboli ed egli cominciò a collezionare gli attributi di un dio: i giochi celebrarono le sue vittorie, il suo compleanno venne festeggiato durante i giochi di Apollo, il mese in cui era nato da “Quintilis” venne rinominato “Iulius”. Ottenne poi un carro processionale, un “ferculum” che era una tavola per le offerte, un “pulvinar” che era il letto sacro, un frontone sulla propria casa, un flamine personale e due statue cultuali. Una di queste statue venne posta nel tempio di Quirino e l’altra in quello della Clemenza.

Ottenuto tutto ciò, Cesare era in possesso di tutti gli attributi di un dio e ne assunse così anche il nome; il Senato, infatti, glielo impose ufficialmente agli inizi del 44 a. C. ed egli non lo rifiutò.

E’ in tale contesto che si colloca la comparsa, finora inedita nella storia di Roma, del ritratto di un uomo ancora vivo sul dritto delle monete. Fino a quel momento si erano rintracciate divinità, eroi ed illustri personaggi ricordati dopo la loro morte.

Possiamo osservare il ritratto nel denario (Craw. 480/8, B. 35). Al dritto è inciso il busto di Cesare coronato e rivolto a destra, la legenda: CAESAR DICTPERPETUS. Al rovescio Venere rivolta a sinistra con la Vittoria in mano e lo scettro, la legenda: L.BUCA.

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Diventato “divus”, Cesare aveva ottenuto anche la possibilità di consolidare il suo potere materiale su Roma e poteva attuare nel miglior modo possibile i passaggi dalla dittatura prolungata ma temporanea, alla monarchia pura della dittatura a vita.

Nel 46 a. C. era stato autorizzato ad indossare in qualsiasi momento la porpora ed il lauro del trionfatore, gli attributi dell’imperatore inteso ancora come titolo onorifico concesso ai generali vittoriosi. A differenza degli imperatori precedenti, però, che avevano avuto la possibilità di vestire le insegne di tale titolo solo durante le feste, Cesare poteva farlo quando voleva, quasi fosse un “imperatore a vita” e tale era cominciato a somigliare.

“Imperator” per definizione, Cesare avrebbe acquisito di diritto i massimi auspici e la sovrana autorità dello stato fino a somigliare ad un dittatore a vita e tale divenne esplicitamente in virtù del senatoconsulto, la cui copia gli venne consegnata con grande solennità il 14 febbraio del 44 a. C.

Cesare diventava così “dictator perpetuus”.

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Inviato

“Nella mia stirpe vi è la maestà dei re […] e la sacralità degli dei”.

Appaiono profetiche queste parole pronunciate da Cesare ancora adolescente e quasi un progetto che non avrebbe coinvolto solo lui e la sua famiglia, ma tutta Roma e così il mondo allora conosciuto.

In questa frase si rintraccia l’idea del “sacrum imperium”, del “regnum” che si giustifica come un’istituzione non soltanto temporale, ma anche sostenuta dal divino e fu Cesare colui che per primo a Roma diede alla figura del “princeps” la caratteristica fondamentale di massima autorità sia politica che religiosa. Essere capo non solo del potere materiale, ma anche di quello della religione capitolina (Pontifex Maximus) rimase un tratto distintivo degli imperatori fino a Graziano.

La forma di un “regnum” a Roma non era nuova in quanto si era già espressa in alcuni aspetti del periodo dei re e fu sugli archetipi arcaici di Romolo e di Servio Tullio che Cesare modellò il suo potere.

L’intento di sacralizzare la propria persona al fine di essere riconosciuto eletto dagli dei, in virtù della sua onnipotenza, e superiore ad ogni altro romano rispondeva indubbiamente al suo progetto di spostare le sue azioni belliche verso l’Oriente dove i monarchi erano considerati divini dai loro sudditi e predisporsi così ad esercitare con pari prerogative la sua influenza su quei potenziali sudditi, ma le forme religiose che Cesare considerava proprie erano quelle della tradizione romana. Nonostante egli fosse religiosamente incredulo assolse con zelo ai suoi compiti di Pontifex Maximus, accordò la sua preferenza agli auguri piuttosto che agli aruspici, valorizzò ed utilizzò le antiche cerimonie come quelle dei Lupercali e dimostrò sempre interesse per la più antica e genuina religione latina. Aspetto, questo, che motivò Varrone a dedicargli la sua opera “Antiquitates Divinae”.

La fusione che Cesare creò in una sola persona dell’autorità profana e di quella religiosa non fu l’unico segnale del suo intento di procurare un potere perfetto per sé stesso, ma aveva predisposto le sue azioni al fine di giungere alla configurazione di una monarchia aderente allo schema gentilizio della successione per legami di sangue e questo avvenne con l’adozione di Ottaviano.

La sua stessa divinità non veniva così proposta dal dittatore perpetuo con le forme della celeste regalità degli orientali, ma lo fece come se stesse predisponendo l’esito della propria vita mortale nell’apoteosi che ogni grande romano si attendeva a maggior gloria della propria gens, come se realizzasse lui stesso quanto riportato nel “Somnium Scipionis” che rappresentava la descrizione del Romano perfetto operata da Cicerone.

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Cesare piegava, quindi, la religione e la religiosità con una perfetta autoreferenzialità e più volte nei suoi scritti e negli aneddoti che le fonti ci tramandano si nota che egli considerava la Fortuna come unica attrice delle vicende umane e soprattutto nelle cose di guerra.

Come era stato per il più remoto Silla, anche Cesare guardava alla Fortuna come all’unica forza da cui tutto dipende, ma per lui essa non è la dea bendata del Pantheon romano; caratteristica di tale sua entità è il piacere per i mutamenti improvvisi delle situazioni.

Cesare nutre una rivoluzionaria indifferenza per gli auguri ed i sacrifici anche se li utilizza per indirizzare le scelte dei Romani; egli afferma la sua personalità direttamente e la traduce in termini di azioni concrete ed incisive. Ad un fatalismo di carattere esteriore e trascendente oppone un fatalismo di carattere superiore ed immanente come per dire: cogliere l’occasione propizia e sfruttarla. Questo era l’unico credo di Cesare tanto che sarà Plutarco ad affermare che “i romani si sono inchinati di fronte alla Fortuna di Cesare”.

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Inviato

Quando Cesare toccò il potere massimo a Roma, la repubblica cessò di esistere e di fatto egli assumeva progressivamente il potere monarchico in quanto la dittatura si trasformava sempre più in sovranità. Di Cesare era il diritto, regale e divino per eccellenza, di coniare monete con la propria immagine ed una sua statua venne collocata sul Campidoglio accanto a quelle degli antichi re ed in particolare a quella di Romolo.

Poco dopo ottenne dal Senato il titolo di Padre della Patria che era stato tributato solo allo stesso Romolo, a Silla, Mario e Camillo.

Quando il 26 gennaio del 44 a. C. si sentì acclamare “rex” protestò decisamente esclamando: “non mi chiamo rex, ma Caesar”.

Non molti giorni dopo, il 15 febbraio dello stesso anno, il console Antonio lo incoronò pubblicamente mentre Cesare assisteva ai Lupercali e ciò avvenne, nella stessa sede, per tre volte di seguito in mezzo ad una folla divisa: le prime file lo salutavano già re, mentre le file ultime esultavano quando egli si toglieva il diadema che destinò così al capo della statua di Giove. Questo diadema, poi, in realtà venne deposto sul capo della statua di Cesare che era vicina ai rostri.

I Romani non erano del tutto pronti all’incoronazione di un re, ma era parere di Cesare che l’interesse superiore di Roma esigesse che il dittatore dei Romani fosse esplicitamente designato re dai propri sudditi.

Per rispettare le forme, consultò i Libri Sibillini riguardo alla guerra che aveva in programma: compiacente verso i suoi progetti, l’oracolo profetizzò che i Parti sarebbero stati vinti soltanto da un re.

Questa profezia implicava che la formula fosse legalizzata da un senatoconsulto prima della partenza della spedizione contro i Parti fissata per il 18 marzo.

I Patres, convocati appositamente da Cesare per il 15 marzo, l’avrebbero votata quel giorno stesso, ma prima dell’inizio di quella seduta decisiva, Cesare venne assassinato.

Il dittatore aveva nutrito troppa fiducia nel proprio ascendente, nella generosità e nella viltà degli uomini. Non aveva valutato a fondo i sentimenti di timore e di avversione suscitati dall’attuazione rivoluzionaria dei suoi progetti.

In vita era giunto ad essere onorato come una divinità e ciò lo faceva apparire grande al di là di ogni misura umana; nella sua autorità sovrastava l’intera nobiltà romana, ma confidava troppo della sua potenza e gloria. “Potentia” che non a caso Augusto, non molto dopo ed in modo decisamente più cauto, considererà “potestas”.

Nonostante Cesare sia stato ucciso dopo essere diventato un dio, sarà con la morte che perfezionerà ciò a cui aveva sempre anelato: la gloria imperitura.

L’astro di Venere, quella stella che aveva guidato Enea nel suo fuggire per mare da Troia fino ad approdare in Italia dando vita a Roma ed alla gens Iulia, per uno strano scherzo del destino diventerà quell’infausta cometa che illuminerà i cieli notturni dell’Urbe nel marzo del 44 a. C. e si trasformerà poi nel Caesaris Astrum che simboleggerà la perfetta divinità del grande condottiero. Stella, questa, che ha brillato anche per Augusto che di Cesare ha interpretato a suo modo la politica.

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La stella di Venere, quella che condusse Enea sulle coste dell'Italia, brilla ancora oggi qui da noi ed è l'emblema della Repubblica italiana.

Enrico :)

** Le immagini delle fotografie provengono da Coinarchives.

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Inviato

DE GREGE EPICURI

Grazie Minerva e complimenti per questa discussione davvero interessante. In fondo si può dire quindi che Cesare "spinse" in direzione della regalità molto più di Augusto, che poi il principato riuscì a realizzare: ma con ben altra cautela, anzi con dissimulazione.

Solo una curiosità a proposito del relativismo religioso: Cesare aveva iniziato come flàmine, naturalmente; ma sapevate che per alcuni secoli anche numerosi cristiani continuarono ad accedere al "flaminato"? La faccenda fu affrontata solo dal Concilio di Elvira: esso condannò nettamente il flaminato dei cristiani, salvo che per quelli che si erano limitati a portare la corona (che ne era l'insegna) senza partecipare ad alcun sacrificio; ed ammise questi ultimi alla comunione, dopo "soli" due anni di penitenza (L.Duchesne).


Inviato

Grazie a te, Gianfranco, delle notizie che descrivi circa il flaminato dei cristiani che non mi era noto.

Augusto effettivamente costruì la sua ascesa al potere sul nome di Cesare e riuscì poi a creare un compromesso tra la sostanza monarchica del suo potere, che gli proveniva proprio dal padre adottivo, e la conservazione delle forme repubblicane con il ruolo centrale del Senato.

Si potrebbe dire che Augusto bilanciò l'estremismo di Cesare tenendo conto delle istanze moderate di Cicerone. Si nota ciò nelle "Res Gestae" dove Augusto, dopo aver regnato su Roma con un potere effettivo, poneva l'accento alla restituzione della "res publica" al Senato ed al popolo.

Enrico :)


Inviato (modificato)

Bellissimo studio.

Vorrei solo fare due piccole aggiunte.

In questa frase si rintraccia l’idea del “sacrum imperium”, del “regnum” che si giustifica come un’istituzione non soltanto temporale, ma anche sostenuta dal divino e fu Cesare colui che per primo a Roma diede alla figura del “princeps” la caratteristica fondamentale di massima autorità sia politica che religiosa. Essere capo non solo del potere materiale, ma anche di quello della religione capitolina (Pontifex Maximus) rimase un tratto distintivo degli imperatori fino a Graziano.

In primo luogo, mi sembra che lo sfruttamento della "carriera" religiosa per trarne profitto politico, seppur perseguito da Cesare con l'acuta lungimiranza che lo caratterizzava, non sia comunque stato una sua invenzione. Ce lo dimostra, fra i tanti, Silla che - quando il Senato lo priva della carica di proconsul - batte una moneta (a mio giudizio splendida) in cui vanta i propri meriti militari (imper iterum) e il diritto all'augurato, come ha brillantemente spiegato acraf (http://numis.me/arch...0 Oro Silla.pdf).

Del resto, il dualismo politico-religioso è profondamente radicato nella mentalità romana, anche la più arcaica. Romolo, il rex che aveva "creato" l'Urbs, era anche e prima di tutto l'àugure che aveva inaugurato il Palatino. Anche durante la Repubblica, malgrado la "differenziazione" fra i vertici politico-religiosi (consoli, rex sacrorum, pontifex maximus), per secoli il motivo più fondato per rifiutare il consolato ai plebei fu la loro limitata capacità religiosa.

aveva predisposto le sue azioni al fine di giungere alla configurazione di una monarchia aderente allo schema gentilizio della successione per legami di sangue e questo avvenne con l’adozione di Ottaviano.

In secondo luogo, discorso analogo vale per l'instaurazione di un principio dinastico, attuato con l'adozione e, ancor più, con l'istituzione a erede di Ottaviano.

Qui, anzi, mi sembra che Cesare abbia preso due istituti insiti nella tradizione romana, "nepotismo" e adozione, e li abbia fusi innovandoli.

Quello che oggi additeremmo come nepotismo rispondeva, durante la Repubblica, a una sensibilità connessa con lo spirito fortemente aristocratico della classe al potere: se era normale che alcune gentes fossero nobili e altre no, era altrettanto normale che un filius aspirasse fondatamente a ripercorrere il medesimo cursus honorum del padre.

Per quanto attiene all'adozione, essa era finalizzata, nella tradizione romana, a consentire la perpetuazione di un nomen, ed era infatti prevalentemente adozione di maggiorenni.

Ebbene, Cesare fonde queste due categorie del pensiero romano e, come lui solo sapeva fare, le modella al fine di risolvere quello che, finita la "dinastia", giulio-claudia, sarà il maggior fattore di debolezza istituzionale dell'impero: la mancanza di un meccanismo di selezione del monarca, universalmente accettao (sul piano morale prima ancora che giuridico) e capace quindi di prevenire le guerre civili. Cesare, per primo, ricorse all'adozione/istituzione ereditaria che, coniugata con la naturale accettazione del "nepotismo", era di fatto una designazione del proprio successore. Questa pratica fu seguita, com'è noto, da Augusto (persi i nipoti) e dai suoi più immediati successori.

Nel mio piccolo, resto convinto anch'io, come altri, che Cesare sapesse di non poter partire per la campagna partica, a causa della sua malattia (quale che fosse). Ha preparato la successione ed è corso incontro a una morte che l'avrebbe consegnato fama imperitura, avviando così (per reazione proprio alla sua uccisione) un processo di generalizzata accettazione del principio monarchico.

Modificato da L. Licinio Lucullo
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Inviato (modificato)

Ovviamente, la moneta di Silla è questa (la conservazione non è un gran che, ma ... è la MIA! :pleasantry: )

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Modificato da L. Licinio Lucullo

Inviato

Discussione molto interessante.Un saluto a tutti.


Inviato

Grazie L. Licinio Lucullo del tuo scritto che riporta dei dati molto utili e chiari all'approfondimento della tematica :)

Sia Cesare che Augusto non avevano dei figli maschi con i quali garantirsi la successione e cercarono la continuità per via matrilineare, secondo un'impostazione caratteristica dell'aristocrazia romana. Augusto riprenderà, a suo tempo, lo schema delineato dallo zio; Cesare aveva scelto lui in qualità di figlio della sorella Azia e lui guarderà alla sorella Ottavia (Marcello), alla figlia Giulia (C. e L. Cesare) ed infine alla moglie Livia (Tiberio).

Enrico :)


Inviato

Salve Minerva. :)

E' un autentico piacere poterti rileggere nuovamente!

Vivissimi complimenti per questa nuova ed esaustiva ricerca storico-numismatica.

Anche il corredo iconografico è molto attraente.

:good:

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