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Prendete un denarius, e provate a sentire i ricordi impressi nell'argento, a evocare i pensieri di chi l'ha tenuto in mano prima di voi ...


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Terminava l'anno del consolato di Gaio Papirio Carbone e Publio Manilio [120 a.C.]. Demetrios era un giovane schiavo di 10 anni, ma non poteva lamentarsi. Certo, la distanza sociale ed economica che lo separava dal suo padrone, Gneo Pompilio, era enorme; nondimeno Demetrios conduceva una vita relativamente agiata, aveva sempre un pasto caldo, un posto in cui dormire - nei sotterranei della domus di Gneo - e incarichi non troppo gravosi; il dominus infatti trattava gli schiavi di casa - quelli che gli erano costati di più - con una certa dose di umanità.

Suo nonno, uomo libero dell'antica terra dei Lacedemoni, si era volontariamente venduto schiavo dopo un'azzardata e fallimentare operazione commerciale. Grazie alle sue conoscenze, era divenuto contabile di un ricco commerciante romano. Non era ancora riuscito a riscattare la propria libertà, ed aveva generato in servitù due figli maschi, cui era aveva trasmesso la propria arte contabile. Ora il padre di Demetrios era lo schiavo di fiducia di Gneo Pompilio, e stava insegnando il mestiere al figlio.

Un'ombra dell'antico retaggio della famiglia sopravviveva però in Demetrios: i racconti appassionati che, nei rari momenti di tranquillità, sentiva dal padre, sull'antica virtus degli avi. Il padre raccontava spesso dei trecento guerrieri che, da soli, avevano difeso il mondo civilizzato dalle orde di una monarchia rapace; e ricordava che una gens dei Romani aveva provato a fare altrettanto, ma era stata quasi interamente sterminata. Demetrios, giovane privo di una Patria propria, ascoltava trasognato e sognava di avere il sangue degli opliti nelle proprie vene, e di poterlo dimostrare nelle fila delle invincibili legioni di Roma. Due legioni di schiavi volones, ossia volontari, avevano combattuto valorosamente durante la guerra annibalica, ed erano state ricompensate con la libertà e la cittadinanza; perché non avrebbe potuto, quello, essere anche il suo destino?

Era la tarda serata ormai, e Demetrios si sedette sugli scalini della Basilica Fulvia. Aprì il palmo della mano e guardò quel dischetto d'argento, che aveva avuto ordine di consegnare ad altri schiavi per chissà quale pagamento. Grazie alla sua posizione di apprendista contabile, Demetrios conosceva Roma attraverso i suoi denarii. Erano così diversi dalle onciae che aveva cominciato ad accumulare nel suo peculium: erano, per lui, il simbolo stesso del benessere. Sapeva che a Placentia il dominus di suo nonno, per ottenere uno di quei dischetti, doveva vendere 150 litri di vino od 80 chili di grano, od ospitare un viandante in una delle sue taverne per un mese intero. A Roma i prezzi erano molto più alti, ma comunque Gneo riusciva ad accumulare e spendere enormi quantità di denarii, grazie solo alle rendite delle terre in cui aveva investito. Demetrios rabbrividì, immaginando la vita degli schiavi che lavoravano in quelle terre, molto diversa dalla sua.

Ma l’argento del denarius, uscito da pochi giorni dalle officine sotto al tempio di Moneta, mandò un bagliore nella luce del tramonto, pretendendo di ricevere di nuovo l'attenzione di Demetrios. Era uno stolto a tenerlo così, nel palmo della mano: lui, un giovane e indifeso schiavo; lo fece di nuovo scivolare nella tasca che portava cucita all'interno della tunica.

Quel denarius era diverso dagli altri, agli occhi di Demetrios ed a quelli di Roma.

Per Demetrios, quella moneta gridava al mondo l'orgoglio delle armi di Roma: lo sguardo terribile ed enigmatico del Dio bifronte, signore della guerra che alloggiava nel piccolo tempio, perennemente aperto, sito proprio di fronte a dove Demetrios sedeva; e la slanciata Dea dell'Urbe, con lo scettro del potere nelle mani, che orgogliosa deponeva la corona della propria vittoria sulle armi sottratte ai barbari ormai definitivamente domati.

Agli occhi di Roma, invece, l'emissione aveva generato scandalo fra i benpensanti (Demetrios lo aveva sentito raccontare nella casa del dominus, mentre attendeva di mescere il vino). Il monetiere, Marco Furio Filo (figlio del consolare Lucio) era stato accusato di aver tradito il mos maiorum, effigiando non la gloriosa storia avita, bensì un fatto contemporaneo: la sconfitta dei terribili guerrieri Allobrogi a opera del console Quinto Fabio Massimo, l'anno precedente. Il monetiere si era difeso affermando di aver voluto invece raffigurare la vittoria che un suo antenato, Publio Furio Filo, aveva conseguito sui Celti, più di cent'anni prima ad Ariminum. Ma era una scusa, lo sapevano tutti. Fatto sta che le sue monete erano apparse in pubblico proprio durante il trionfo di Quinto Fabio Massimo (che caso, pensò Demetrios, proprio un discendente di quella gens che era stata sterminata emulando le gesta dei 300 guerrieri di Sparta), che aveva ottenuto il cognomen di Allobrogico: l'intento di collaborare all'esaltazione del vincitore per unirsi alle sue fortune politiche era palese. Eppoi, tutti sapevano a Roma (persino Demetrios) che il simbolo della splendida vittoria di Ariminum era l'aureum tropaeum dedicato da Gaio Flaminio Nepote, all’epoca console insieme a Publio Furio Filo. Ma della caratteristica più evidente di quel tropaeum, i sontuosi torques celtici d’oro che lo decoravano, sulla moneta non c'era traccia. Il trofeo raffigurato sulla moneta, molto più rude nella raffigurazione delle armi sottratte ai nemici celtici, era una chiara allusione alla grande vittoria conseguita da Quinto Fabio Massimo Allobrogico, che - a Roma tutti ne erano convinti - aveva definitivamente assicurato la sicurezza della Provincia che Roma dominava in terra gallica.

Demetrios sospirò e si alzò per completare in fretta il compito affidatogli. Decise che, quando fosse riuscito a mettere un intero denarius da parte nel suo peculium, sarebbe stato proprio uno di quelli di Marco Furio Filo.

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Negli anni successivi l'orgoglio di Roma per la saldezza del suo dominio crebbe fiducioso.

Quando Demetrio aveva ormai passato i 14 anni era così entrato nella maggiore età, un monetiere decise di infrangere la prassi, ormai in voga, di firmare il numerario, ed emise un denarius anonimo, in cui glorificava le tradizioni dell'Urbe. La Dea Roma era seduta su un mucchio di scudi, simbolo del successo ottenuto dalle sue armate, mentre fiera e malinconica riguardava (con una sincronia possibile solo per gli dei) i due momenti della sua origine e della sua fondazione: la lupa che aveva salvato i gemelli figli di Marte e gli avvoltoi che avevano scelto Romolo per tracciare il solco e il Palatino per ospitarlo.

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Modificato da L. Licinio Lucullo
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Dopo solo due anni, tuttavia, Roma non aveva più motivo di essere tanto certa che le orde dei barbari fossero state arrestate con la sconfitta degli Allobrogi. Le notizie che giungevano nel caput mundi non erano affatto buone. Dai confini settentrionali del regno del Norico si era venuto a sapere che un'orda di gente mostruosa muoveva verso sud, determinata a strappare per sè terre più fertili e climi più miti. Cimbri, li chiamavano, e poi Teutoni. Provenivano dalle misteriose terre dei Germani, terre di foreste impenetrabili e paludi, in cui gli uomini erano feroci come fiere. Si diceva che fossero giganti, che non conoscessero la paura, che si gettassero in battaglia come animali determinati a sbranare le prede, lanciando alte grida e brandendo spade enormi. Soprattutto, si diceva che fossero una moltitudine incalcolabile, che si rovesciava addosso alle schiere nemiche travolgendole, calando le armi quasi dal cielo grazie alla loro statura sovrannaturale.

I consoli di quell'anno erano un altro Papirio Carbone, Gneo, e Gaio Cecilio Metello Caprario. Ancora una volta le armi romane dovevano proteggere la civiltà dalle barbarie. Per fermare i movimenti dei Germani il Senato scelse Carbone. Il console era noto, a Demetrios, perché anni prima aveva un'emissione tradizionale, con il volto della Dea guerriera e, al retro, Giove in quadriga; un richiamo, quest'ultimo, alle più antiche emissioni in argento della zecca di Roma e alla gloria militare, che aveva nel trionfo - cerimonia durante la quale l'imperator, ritto in quadriga con il viso dipinto di rosso - poteva emulare e rappresentare, in terra, Iuppiter, il Pater degli dei.

Il console, orgoglioso della possibilità di scrivere il proprio nome nell'elenco dei successi militari di Roma, non si era fatto influenzare da superstizioni e dicerie; aveva raccolto le legioni ad Aquileia e, alla loro testa, aveva marciato incontro ai Germani, deciso a fermarli. Sapeva che il numero era nulla, in battaglia, di fronte alla virtus guerresca dei soldati di Roma.

Ma non fu il successo che ci si aspettava.

I nuovi barbari erano ben più terribili, in battaglia, dei Celti che Roma aveva imparato a domare e sconfiggere. Lo scontro avvenne a Noreia; Cimbri e Teutoni si riversarono sulle legioni come il mare sugli scogli, e a nulla era valsa la protezione degli scudi, troppo bassi - almeno così diceva - per proteggere le truppe da quei mostri. Quando la notte intervenne a sciogliere i combattenti, i barbari si ritirarono sull'altra sponda del fiume, ma fra le truppe romane - che erano riuscite a evitare la rotta, sicure che si sarebbe tramutata in un massacro - i soldati ancora in grado di marciare per ritirarsi erano meno della metà.

Così in qualche modo i barbari erano stati costretti a retrocedere, ma non era stata una vittoria. Il console, appena deposto l'imperium, si era ucciso, per sfuggire a un ignomignoso processo. Di lui rimase il denario con Giove in quadriga; ironia della sorte, era stato emesso proprio nell'anno in cui Quinto Fabio Massimo aveva soggiogato gli Allobrogi.

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Modificato da L. Licinio Lucullo

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Passarono altri 4 anni. Demetrios ora aveva 21 anni. Gneo Pompilio l'aveva destinato alla vendita l'aveva destinato alla vendita ma Lucio, figlio di Gneo, aveva chiesto al padre di lasciarglielo come segretario, e così Demetrios era rimasto al servizio di Lucio.

Notizie preoccupanti erano giunte, in quegli anni, dalla Gallia. Dispacci ufficiali giungevano al Senato, ma chiacchiere ben più allarmistiche arrivavano al popolo, portate soprattutto dai marinai di Massilia. I Cimbri e i Teutoni si erano uniti con un altro popolo, i Tigurini, e questa la loro orda, ormai salita a 500.000 persone, aveva violato con prepotenza entro i confini della Gallia transalpina.

Roma nel frattempo era impegnata, da due anni, anche su un altro fronte, nella calda Numidia, dove il re Giugurta, perfido e pericoloso come un serpente, ne logorava le forze, e, soprattutto, l'orgoglio militare, attaccando con metodi da predone, indegni del bellum iustum.

Si era, a quell'epoca, sotto il consolato di Quinto Cecilio Metello e Marco Giunio Silano.

Metello, che poteva vantare le solide tradizioni militari della sua gens, fu inviato in Numidia, con il compito di soffocare nel sangue quella ignomignosa e sanguinosa guerra.

Era così toccato a Silano l'onere di partire per la Gallia, per fermare e ricacciare l'orda germanica che minacciava di farvi terra bruciata. Anche lui, in passato aveva ricoperto la carica di monetiere e, fedele al mos maiorum, aveva firmato un'emissione tradizionale, con l'effige di Roma e, al retro, Giove in quadriga. Il console prese il comando di ben quattro legioni ed altrettante alae di ausiliarî e marciò orgogliosamente contro i barbari, raggiungendoli nella terra dei Sequani.

Ma fu sconfitto. Pochi legionari, degli oltre 16.000 che l'avevano accompagnato, erano riusciti a sfuggire alla strage.

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L'anno successivo fu eletto console Lucio Cassio Longino e, insieme a lui, un ricchissimo homo novus proveniente da Arpino, un certo Gaio Mario.

Demetrios aveva sentito gli amici di Gneo Pompilio dire ogni possibile maldicenza di Gaio Mario. Non aveva antenati illustri; si era arricchito con il commercio; non aveva una solida preparazione retorica; tentava addirittura di sedurre il popolo, anziché ingraziarsi il favore degli optimates. Un ex tribuno della plebe, già cliente della potente gens dei Metelli di cui non aveva esitato a tradire la fiducia quando era stato suo tornaconto.

Mario poteva vantare solamente due pregi. Il primo era un ottimo matrimonio, ovviamente comprato con profusione di ricchezze. Sua moglie era infatti la cadetta di un'antichissima gens, Giulia, figlia di un patrizio cui gli avi avevano lasciato in eredità solamente il nomen dei discendenti dei mitici re di Alba Longa, il soprannome di "capellone" (forse ironico, visto che la calvizie perseguitava tutti i maschi della famiglia) e denaro insufficiente ad aspirare alla vita politica: Gaio Giulio Cesare.

Il secondo pregio di Mario, che invece - questo sì - era interamente frutto della sua virtus, era una solida, immacolata e brillante carriera militare, iniziata sotto le mura di Numanzia agli ordini di Publio Cornelio Scipione l'Emiliano. Mario era un arrivista, insomma, un ignorante, ma anche un vero soldato, un guerriero. Uno zotico, un insolente, che non solo non conosceva il Greco, ma addirittura se ne faceva vanto, declamando in pubblico che non aveva voluto perdere tempo a imparare una lingua che non era servita ad assicurare la gloria militare a chi l’aveva parlata; lui preferiva cimentarsi nell’addestramento al combattimento. Demetrios, che era greco e aveva sentito raccontare di quando i guerrieri della sua terra avevano asservito tutti i regni conosciuti, provava stizza quando sentiva ripetere quelle parole, ma doveva ammettere che facevano presa: il popolo lo adorava, ritenendolo integerrimo.

Voleva dimostrare con le armi di essere in grado di salvare i destini Roma, e su pressione del popolo fu inviato in Numidia, agli ordini di Quinto Cecilio Metello. Si portò al seguito un parente, un oscuro patrizio caduto in povertà, che si era sopravvissuto facendosi mantenere addirittura da un prostituta. Lucio della gens Cornelia, detto Silla, cognato di Mario perché in prime nozze aveva sposato la sorella minore di Giulia.

Ma dalla Provincia (la Provincia per antonomasia, quella attraverso la costa gallica collegava la Gallia Cisalpina alle due Hispaniae) giungevano notizie che non ammetteva indugi: i Tigurini avevano violato il territorio soggetto a Roma; alcune tribù celtiche, fra cui i Volci Tectosagi, si erano uniti a loro.

Così Longino fu incaricato di porre definitivamente rimedio alla migrazione germanica, prima che arrivasse a lambire il suolo italico. Gli furono assegnate forze ingenti: 6 legioni, altrettante alae e 6.000 cavalieri.

Il console, raggiunta la Provincia, si diresse verso Tolosa; i suoi spostamenti erano facilitati da uno dei gioielli dell'ingegneria romana, segno tangibile della predominanza della civiltà dell'Urbe: la via Domizia. Undici anni prima infatti, Gneo Domizio Enobarbo (che era stato console l'anno prima di Quinto Fabio Massimo Allobrogico e aveva partecipato, con lui, alla vittoriosa campagna contro i temutissimi Allobrogi) e Lucio Licinio Crasso (un avvocato che aveva raggiunto la notorietà presentando un'accusa contro il nobile Gneo Papirio Carbone, sei anni prima che muovesse contro i Cimbri) avevano avuto il compito di dedurre una colonia nella Provincia, il forte oppidum di Narbo Martius. Enobarbo allora, ben capendo l'importanza militare degli spostamenti strategici, si era interessato della realizzazione di una strada militare che collegasse Narbo alla Gallia Cisalpina, attraversando tutta la Provincia. L'impresa fu ricordata su un'emissione, appositamente autorizzata dal Senato, di monete coloniali con l'immagine di un guerriero celtico sul tradizionale carro da battaglia. Per risolvere alcuni problemi tecnici, i curatores denariorum flandorum (che firmavano le emissioni insieme a Enobarbo e Crasso) avevano chiesto di poter emettere denarii serrati ed Enobarbo aveva sposato l'idea con entusiasmo, dato che la dentellatura (adottata non a caso un secolo prima per finanziare la realizzazione di un'altra via) ricordava la forma della ruota e, quindi, l'importanza della nuova strada.

Longino giunse nei pressi dell'oppidum ove si erano trincerati i Volci Tectosagi, unitamente ad alcune famiglie di Cimbri, Teutoni e Tigurini. Ingaggiò battaglia e, come previsto, le legioni sbaragliarono i barbari.

La situazione era ormai pacificata. Il console poteva cogliere l'occasione per penetrare nelle terre dei barbari, ricacciare i Germani nelle loro foreste e, magari, passare alla storia per aver esteso i domini di Roma.

Una dimostrazione di forza ma, prima di tutto, un'idonea predisposizione per una lunga campagna militare. Nel muovere verso nord, le legioni spostarono il loro intero treno logistico. Assunto l'ordine di marcia di trasferimento, furono inseriti nella colonna i bagagli, i viveri, le artiglierie, i materiali del genio.

Nel territorio della tribù celtica dei Nitiobrogi, presso Agen, la colonna fu raggiunta dai Germani. Le tribù che erano state affrontate e sconfitte al fianco dei Volci erano sembrate numerose; ma l'intera orda migratoria era qualcosa che Longino non aveva mai visto, e non immaginava che avrebbe mai visto. Le legioni, appesantite dal treno logistico, furono circondate e opposero una fiera resistenza.

Quando anche il console morì sotto l'attacco dei Germani, i centurioni cercarono l'ufficiale più anziano fra quelli sopravvissuti. Era Gaio Popilio Lenate, figlio di un consolare. Lenate aveva capito che i Germani non potevano essere battuti, non in quelle condizioni. Non intendeva passare alla storia per essersi immolato, preferiva riportare a Roma quanti più legionari possibile per mettere la Repubblica nelle condizioni di preparare una nuova ed adeguata campagna. Chiese di trattare la resa; offrì ai Germani di cedere metà degli equipaggiamenti delle legioni, accettò di far marciare l'esercito sotto il giogo, in mezzo allo scherno dei vincitori dei barbari, e ottenne di riuscire a sganciarsi ed a rientrare nei confini della Provincia.

I barbari non combattevano secondo regole di bellum iustum. Se avevano accettato lasciar ritirare indenni i legionari era solo perché, anche quando erano al di là del Reno, avevano sentito parlare dell'invincibilità degli eserciti di Roma, e ancora ritenevano che fosse preferibile accettare una resa che combattere all'ultimo sangue contro le legioni. Ma, in verità, i capi tribù cominciavano a seriamente a pensare - dopo che avevano resistito all'assalto di Carbone, avevano decimato l'esercito di Silano ed avevano infine ucciso Longino, cogliendolo impreparato con la sua imponente armata - che quella fama di invincibilità fosse largamente immeritata.

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Si giunse così all'anno del consolato di Quinto Servilio Cepione e Gaio Atilio Serrano.

A Roma, ora, il popolo aveva veramente paura. Le storie sul sacco perpetrato dai Galli, sull'assedio al Campidoglio, sul fuoco che divorava l'Urbe, sembravano ora più vicine. La folla cominciò a invocare il ricorso ai libri Sibillini. Demetrios temeva che qualcuno decidesse di consultare i libri Sibilillini; sapeva cosa avrebbero consigliato, di seppellire vive due coppie, una di Galli e l'altra di Greci. Lui che era Greco, e per di più schiavo. Aveva sognato, quindi, di essere lui il Greco che veniva chiuso in una cripta sotterranea a morire di sete e, anche se non c'era motivo di ritenere che sarebbe veramente successo, il pensiero lo faceva rabbrividire.

Fu deciso che era ormai giunta l'ora della riscossa dell'Urbe, su entrambi i suoi fronti, in Gallia così come in Numidia.

Quinto Cecilio Metello fu richiamato a Roma; grazie alla fama della sua gens più che ai trionfi ottenuti gli fu accordato il trionfo (fatto rarissimo, che un generale potesse celebrare il trionfo pur non avendo debellato il nemico) e assunse il cognomen di Numidico, ma di fatto la guerra numidica continuò sotto la guida di Mario, coadiuvato da suo cognato Silla.

Per affrontare i Cimbri, i Teutoni e i Tigurini servivano tuttavia misure più drastiche.

I monetieri ebbero l'ordine di fondere rapidamente le scorte d'argento, senza ricorrere alla necessaria preparazione ella lega. Poiché in quelle condizioni i tondelli si spezzavano all'atto della battitura, si ricorse di nuovo all'espediente dei denarii serrati. Uno dei monetieri, appartenente alla gens che aveva dato a Roma i suoi più grandi generali (era infatti un discendente di Lucio Cornelio Scipione Asiatico, fratello dell'Africano), decise di contribuire alla riaffermazione dell'orgoglio militare dell'Urbe, e impresse di nuovo sulle monete Giove sulla quadriga.

Se Silano aveva marciato alla testa di 4 legioni e Longino ne aveva portate seco 6, per la nuova campagna furono predisposte ben 8 legioni. Per condurle in Gallia fu scelto Cepione, che raggiunse Tolosa e la mise a ferro e fuoco per farsi consegnare il tesoro sacro dei celti che, si diceva, era stato là nascosto. Alla fine, il console trovò un'immensa quantità d'oro e d'argento nascosta sul fondale del lago, che aveva fatto prosciugare apposta. Fu organizzata una spedizione a Roma, ma misteriosamente venne attaccata da briganti che erano tanto numerosi e informati da riuscire a sopraffare la scorta armata di legionari. L'oro di Tolosa scomparve per sempre, anche se non pochi mormorarono che proprio Cepione lo avesse fatto trafugare.

Per quell'anno, comunque, i Germani non vennero a battaglia, evidentemente intimoriti dalle dimensioni dell'esercito romano.

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Fu così che Demetrios si ritrovò sul camminamento perimetrale del campo fortificato, nel mese di ottobre dell'anno del consolato di Gneo Manlio Massimo, un homo novus, e Publio Rutilio Rufo, uno dei legati di Metello Numidico nella guerra contro Giugurta (105 aCC.).

Il Senato non aveva voluto correre rischi: benché un'armata di 8 legioni, con le alae alleate, fosse sicuramente invincibile (anche se, in verità, a Canne ne erano state sconfitte altrettante) aveva deciso di inviarne in Gallia altre 6, agli ordini di Manlio, ed aveva prorogato l'imperium di Cepione, con l'ordine di attendere il nuovo console e porsi a sua disposizione.

Si prospettava la completa distruzione delle popolazioni germaniche, e molti nobili avevano cercato di acquisire gloria militare partecipando all'operazione; Lucio Pompilio c'era riuscito, ed era partito al seguito delle legioni portandosi seco Demetrios, quale attendente personale.

Ma Cepione, con varie scuse, non aveva adempiuto all'ordine di riunirsi a Manlio, e ora i due eserciti erano accampati entrambi a nord di Arausio, a poche miglia di distanza. Tutti sapevano che in realtà Cepione, dell'illustre gens Servilia, era convinto di poter lui solo liberare Roma dal pericolo germanico, senza umiliarsi nel sottomettersi a Manlio, un homo novus.

Demetrios, all'età di 25 anni, si ritrovava così aggregato alle legioni, molto più simile a un bagaglio che a un soldato. Aveva freddo; il sole era appena sorto e dall'ampio prato, predisposto dall'esercito attorno al campo per evitare sorprese, si sollevava la nebbia. Normalmente uno schiavo non avrebbe dovuto essere lì, ma Lucio gli aveva affidato un dispaccio importante, e lui cercava il destinatario cui consegnarlo.

Ammirò lo splendore di quella terra autunnale, scura e umida, la fitta foresta in lontananza. Ripensò ai sogni fanciulleschi di gloria militare e sorrise della propria ingenuità. Si era dimenticato di quel giorno dell'anno di Gaio Papirio Carbone e Publio Manilio in cui, seduto sui scalini della Basilica Fulvia, aveva sognato davanti a un denarius che recava impresso il dio bifronte. Glie l'aveva fatto venire in mente un nuovo denarius, arrivato da poco da Roma e affidatogli da Lucio, insieme ad altri, per conservarlo. L'aveva colpito per la lucentezza del fior di conio e Demetrios aveva visto che era firmato da Lucio Aurelio Cotta, figlio dell'omonimo che era stato console l'anno successivo a Carbone e Manilio. Anche su questa moneta si poteva leggere l'orgoglio dell'Urbe per la virtus militare: recava infatti l'effige del messaggero di Giove, l'aquila, con le sue armi negli artigli, i fulmini; sull'altro lato, compariva il dio che aveva forgiato proprio i fulmini, Vulcano. Una corona d'alloro richiamava la gloria, meritata proprio per il favore del Padre degli dei. Cotta aveva una sorella, Aurelia, da poco andata in sposa all'unico fratello maschio delle mogli di Mario e di Silla. Anche lui, come il padre, faceva di nome Gaio Giulio Cesare.

Mentre era perso nei suoi pensieri, Demetrios fu riscosso dal trambusto. Un cavaliere giungeva al galoppo da nord, trafelato; chiaramente un messaggero dal campo di Cepione. Doveva portare il suo messaggio direttamente al praetorium, ma non appena comparve tutti sapevano, anche solo dalla sua espressione, cosa stava per riferire: i barbari stavano per scontrarsi con le legioni del proconsole.

In effetti era così: la cavalleria romana, guidata da Marco Aurelio Scauro, aveva intercettato l'orda migratoria. Ne era nato un primo scontro, da cui la cavalleria si era sganciata in fretta, prima di essere sopraffatta dal numero, ed era tornata ad avvisare Cepione, che aveva subito schierato le legioni a battaglia a nord del suo accampamento, attendendo l'urto. Disponeva di sette legioni (una l'aveva ceduta a Manlio), e ne aveva collocate 5 sulla fronte, con le alae alleate a destra e sinistra dell'acies romana, e 2 in riserva, in posizione arretrata. Solo Annibale, in passato, era stato in grado di battere una forza tanto imponente; ma i capi barbari non avevano certo la capacità tattica del generale punico. Sarebbero stati sterminati.

Anche Manlio diede immediatamente ordine di preparare l'esercito alla battaglia, e le trombe squillarono immediatamente ordini che i centurioni, nella loro iniziativa, avevano già impartito.

Poi il tempo cominciò a correre, o almeno così parve nei pressi del campo, dove Demetrios era rimasto insieme ai bagagli delle legioni.

I primi messaggeri riferirono che i Germani, inebriati dai successi che avevano ottenuto, non mostravano alcun timore per le armi romane, e si erano riversati addosso incuranti delle eprdite che subivano. Venivano trucidati a centinaia, ma sembravano un numero infinito, e la pressione sulla linea romana era altissima. I messaggeri successivi portarono notizie sempre più drammatiche, e gli uomini di Manlio mostravano chiaramente (anche alla distanza da cui Demetrios poteva osservarne lo schieramento) segnali di sconforto.

Poi all'orizzonte si levò una colonna di fumo, dal punto in cui si sapeva essere il campo di Cepione; comparvero truppe a cavallo che si ritiravano al galoppo, e fu chiaro che la linea romana aveva ceduto. Giunsero anche due legioni, quelle che erano state collocate in riserva ma, vista l'impossibilità di soccorrere l'esercito travolto dalla marea umana, il legatus che le comandava aveva deciso di portare sotto gli ordini di Manlio, per preparare una seconda schiera destinata ad arginare l'avanzata dei barbari.

Poi giunsero i fanti sbandati che sfuggivano alla carneficina, molti pochi in realtà; non perché gli altri stessero ancora tenendo la posizione, ma perché, secondo quel che si diceva, erano stati tutti trucidati prima riuscire a fuggire. Ai transfughi fu ordinato di riprendere posto nelle fila delle legioni di Manlio; i più si rifiutarono, e furono sommariamente giustiziati sul posto.

Sulle 9 legioni schierate a battaglia e sulle truppe alleate calò un silenzio pauroso, e apparvero i barbari.

Erano veramente impressionanti. Teutoni, Cimbri, Tigurini e persino Ambroni, un'altra tribù unitasi ai vincitori. Il loro numero era talmente elevato da riempire l'ampia pianura che separava le legioni dalla foresta all'orizzonte, e continuavano ad arrivare. I primi erano a cavallo, molti li seguivano a piedi, e dietro venivano i carri. Erano di una statura sovrumana (o forse apparivano così, per la paura che incutevano), dipinti con i loro colori di guerra, armati di lunghe spade, grosse asce e mazze. Quando si avvicinarono, fu chiaro che alcuni erano coperti del sangue dei soldati romani; ma erano talmente tanti che molti non avevano ancora avuto l'occasione di combattere, e guardavano le truppe di Manlio con la bramosia del lupo che guarda l'agnello.

A quel punto, Demetrios decise di fuggire. Sapeva che, essendo uno schiavo, avrebbe pagato con la crocifissione, ma non ci pensò. Non riusciva a ragionare, sapeva solo che cinque miglia più a sud s'intravedevano le costruzioni di Arausio, e l'istinto animale gli diceva di scappare. Altri schiavi fuggivano come lui, insieme a molti uomini liberi che avevano seguito l'esercito, commercianti, prostitute, persino qualche raro disertore. Le truppe lasciate a guardia dei bagagli, rimaste attonite davanti alla comparsa dei barbari, non reagirono; forse si accorsero in ritardo dei fuggitivi, forse non se ne curarono, mentre vedevano in faccia la loro morte.

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Inviato (modificato)

Tre anni dopo (102 a.C.) Demetrios, che ora essendo liberto si faceva chiamare Demetrius, si trovava di nuovo sul camminamento perimetrale di un campo trincerato.

Molte cose erano successe in quei tre anni, molte cose erano cambiate.

Le legioni romane e i loro alleati italici erano stati tutti sterminati. 14 legioni ed altrettante alae erano scomparse nel nulla. Pochissimi erano stati i sopravvissuti, lasciati in vita dagli stessi barbari affinchè diffondessero il loro messaggio di morte nelle terre della Repubblica: Roma e il mondo romano stavano per finire i loro giorni, il mondo civilizzato apparteneva ora a Cimbri, Teutoni e Tigurini. I due comandanti erano riusciti a salvarsi, ma Cepione era stato duramente punito per le sue scelte sconsiderate e, per evitare la morte, era fuggito.

La strage era stata talmente ampia, da Arausio, che nessuno sapeva dire se gli schiavi sopravvissuti fossero stati fuggitivi o semplicemente fortunati. Impresari senza scrupoli si erano organizzati per raccoglierli e restituirli ai padroni, dietro adeguato compenso ovviamente; e così Demetrios, morto Lucio, era stato portato a Roma su una nave da carico e là restituito a Gneo Pompilio. Era giunto ammalato ed affamato, ma l'aveva accolto una sorpresa: Gneo l'aveva affrancato, per rispettare le volontà espresse da Lucio nel suo testamento di guerra; però non l'aveva voluto tenere nel novero dei propri clientes, ritenendo ingiusto che non avesse accompagnato Lucio nell'Ade. Demetrius aveva guadagnato così solamente un nome latino, ed un destino di disperazione; neanche suo padre, ammalatosi e morto nel disinteresse che circondava gli schiavi resi improduttivi dall'infermità, aveva potuto intercedere per lui.

Nel frattempo, dalla Numidia Mario, forte della vittoria sull'indomabile Giugurta, faceva sapere al popolo di aspirare a essere rieletto console, seppur incostituzionalmente in absentia e dopo solo 3 anni dalla prima nomina, per poter salvare lui Roma dal pericolo germanico. Di fronte all'ira popolare per l'ignomignosa gestione della guerra attuata dall'oligarchia, nessuno si era opposto, ed i comizi avevano rieletto Mario. Tornato nell'Urbe, aveva celebrato il trionfo il primo giorno dell'anno (104 a.C.) e poi, assunto l'imperium, era subito partito con le legioni alla volta della Gallia Ciasalpina, per addestrarle. Portava sempre con sè quel nobile cognato che l'aveva aiutato nella guerra giugurtina, quel Silla. Aveva tempo: si era venuto a sapere infatti che, prima di invadere la ricca Italia, i barbari avevano deciso di saccheggiare le fertili terre dei Celti; i Cimbri erano penetrati nelle Hispaniae, mentre i Teutoni e i Tigurini razziavano le Gallie.

Mario arruolava anche i nullatenenti, i capite censi. Demetrius non aveva alcuna intenzione di andarsi a scontrare con i Germani, ma era alla fame, e così si era presentato ai reclutatori a Campo Marzio.

L'addestramento era stato bestiale. Mario aveva completamente riformato l'esercito, obbligando i soldati a marciare con un carico sulle spalle composto da armi, scudo, armatura, attrezzi di sterro, pali per l'edificazione del campo, viveri per tre giorni. La fatica cui venivano sottoposti era realmente sovrumana, tanto che furono scherniti e soprannominati "muli". Mario pretendeva che, così bardati, percorressero quasi 2 miglia mezza all'ora [circa 4 chilometri], il doppio degli altri legionari, anche per 8 o 10 ore di seguito. All'inizio, sembrava impossibile fare anche un solo passo sotto quel peso; ma mese dopo mese, quasi insensibilmente, i risultati miglioravano.

Anche l'addestramento tattico fu rivisto: Mario infatti generalizzò la manovra per coorti inventata - si dice - ai tempi delle guerre annibaliche dal grande Scipione, e così abolì di fatto la distinzione fra hastati, principes e triarii, conservandone il nome ma uniformandone armamento e tecniche di combattimento. L'attenzione di Mario per la vita quotidiana delle truppe era maniacale: pretese di innovare anche l'armamento, e diede ordine che nelle lance da getto dei legionari, i pila, uno dei due rivetti che univano la punta metallica al manico ligneo fosse sostituita da un bastoncino. Così, quando l'arma arrivava a segno il bastoncino si spezzava, la sciando il manico letteralmente penzolare; se, come spesso accadeva, era stato colpito uno scudo, doveva allora essere buttato via, reso inservibile dal bilanciere che così ne sporgeva; se, invece, il pilum era finito per terra, a nulla valeva raccoglierlo, non potendosi rilanciarlo in quelle condizioni.

Mario, in persona, era veramente un rude e capace soldato. Coperto di cicatrici, con un fisico taurino, sembrava insensibile alla fatica. Per dare dimostrazioni ai suoi soldati marciava spesso con loro, si cibava del rancio più scadente che fosse disponibile, dormiva all'adiaccio sul nudo terreno, parlava ai soldati con un linguaggio semplice, persino rozzo e scurrile, ma diretto e comprensibile. All'inizio sembrava essere veramente l'uomo del destino, il generale che avrebbe salvato Roma.

Ma gli anni erano passati; Mario aveva chiesto ed ottenuto di fari eleggere console anche l'anno successivo (103 a.C.) e quello dopo ancora (102 a.C.), senza cercare lo scontro con i barbari. Aveva valicato le montagne, aveva portato le legioni nella Provincia della Gallia Transalpina, e aveva impiegato i soldati in lavori del genio spesso incomprensibili, che sembravano fatti solamente per giustificare la sua permanenza al comando. Avevano lastricato strade, avevano rafforzato le fortificazioni del campo militare nei pressi di Aquae Sextiae, avevano persino scavato un canale navigabile in mezzo alle paludi; ma nessuno scontro campale.

Nel frattempo, i Cimbri erano tornati dalle Hispeniae, e si erano riuniti con i Teutoni e i Tigurini nella Gallia Belgica. E Mario, pur essendolo venuto a sapere, nulla aveva fatto.

Nelle legioni, i disfattisti cominciavano a mormorare che forse Mario era solo un populista, che sarebbe sfuggito per sempre al contatto con i barbari, che voleva usare i soldati solo per favorire i ricchi mercanti costruendo loro strade e canali, che alla fine avrebbe lasciato l'Italia al saccheggio scomparendo come Cepione era scomparso dal campo di Arausio.

Un giorno, le spie celtiche al servizio dei Romani riferirono che i Germani avevano deciso che avrebbero invaso l'Italia. La notizia si era diffusa anche fra i soldati, lasciandoli nello sconforto e nella costernazione. Volevano attuare una manovra a tenaglia: i Teutoni, insieme agli Ambroni sarebbero penetrati attraverso i valichi della Provincia percorrendo la costa mediterranea, i Cimbri avrebbero attraversato le montagne elevetiche per penetrare in Gallia Cisalpina attraverso le Alpi Retiche. I Tigurini, il troncone meno consistente dell'orda migratoria, avrebbe cercato di attraversare le Alpi in mezzo ai due popoli germanici. Messaggeri fidati partirono al galoppo per informare il Senato; l'altro console di quell'anno, Quinto Lutazio Catulo, doveva essere avvertito della necessità di difendere i passi alpini.

Ma anche di fronte a questa tragica notizia, Mario tenne le truppe chiuse nel loro accampamento trincerato.

Così, alla fine, i barbari erano arrivati.

Nella loro marcia attraverso la Provincia, Teutoni ed Ambroni erano giunti al campo trincerato di Mario. Successe proprio durante il turno di guardia di Demetrius; prima sporadici esploratori, poi gruppi più consistenti e infine una marea inarrestabile di guerrieri riempì la pianura deforestata attorno alle fortificazioni romane.

L'attacco fu tremendo. Teutoni ed Ambroni si gettavano letteralmente addosso alle fortificazioni, incuranti di quanti di loro morivano trafitti o impalati; salivano sui cadaveri, si ergevano sui compagni per arrivare all'altezza degli spalti. Forti del loro numero e di un'assoluta insensibilità alla paura, si riversavano addosso alle palizzate dei Romani; in lontananza le loro stesse donne, ritte sugli innumerevoli carri che avevano schierato a cerchio per circondare l'insediamento legionario, li incitavano con grida ferine.

Per tre volte si rinnovò l'attacco, per tre volte le fortificazioni ressero seppur a caro prezzo. Eppure, Mario non faceva uscire l'esercito.

I barbari provarono pure ad attuare un rudimentale assedio. Alcune reclute, di fronte a quella moltitudine che li circondava, cominciarono a temere per le scorte di viveri, ma i centurioni aprirono loro gli occhi: i Germani non avevano alcuna possibilità di interdire la navigazione sul canale che loro stessi avevano scavato. Ecco a cosa era servito, scavare il canale: a impedire ai barbari di prendere le legioni per fame.

Mario non esitava a percorrere le palizzate battute dalla furia degli assalti, per incitare i suoi uomini. Non temeva la furia del nemico, e parlava ai soldati. Dopo giorni di duri scontri, quando i combattimenti si fermarono perché i barbari mettevano in opera il loro maldestro e fallimentare tentativo di assedio, Mario apostrofò un legionario con quanta voce aveva in corpo. Tutti gli astanti lo sentirono: "Soldato!"

I "muli di Mario", a differenza dei servi di altri generali, erano abituati a sentirsi apostrofare dal loro comandante. Il legionario, che in quel momento stava fissando il suo sguardo fuori dalle merlature, si girò deferente, ma non stupito, e guardò il console: "Signore?"

"Cosa guardi?"

"I Germani, signore".

"E cosa pensi?"

"Che vorrei uscire a ucciderli, signore".

"Vorresti combattere contro i Germani?"

"Sì signore".

"Ma sono giganti, come potresti affrontare i giganti?"

"Con rispetto signore, non sono giganti, sono uomini".

"Sono uomini? E come l'hai capito?"

"Li ho visti in faccia signore, quando li trafiggevo mentre cercavano di scalare le fortificazioni. Muoiono come uomini, signore". Non riuscì a quel punto a frenare una leggera vena di insolenza, e ripetè: "Non sono giganti, signore, sono uomini. Sono nemici di Roma".

L'accusa di codardia era sottile, ma si capiva. Altri generali avrebbero fatto uccidere il soldato per molto meno. Mario fece finta di niente, e gli chiese: "Mi stai dicendo che, chiuso qui per giorni a guardare in faccia i Germani, sei infine giunto alla conclusione che non c'è da aver paura di loro?".

Il soldato aprì la bocca, ma non rispose, folgorato da un'improvvisa comprensione. Il console si girò e si allontanò, avvolto per un attimo dal suo mantello rosso, simbolo del supremo imperium. Anche Demetrius assistette a quello scambio verbale, e quella sera non si parlò d'altro.

Il generale che avevano accusato di codardia aveva insegnato loro a disprezzare la paura.

Alla fine, Teutoni e Ambroni decisero che l'impresa era disperata e, comunque, non valeva lo sforzo. Le legioni non avrebbero più avuto il coraggio di affrontarli. Un loro messaggero si portò di fronte alla mura e, gridando in un incerto Latino, chiese: "Soldati, che messaggio volete mandare alle vostre mogli? Ditecelo, così andiamo a riferirlo!". Una risata fragorosa esplose dalla turma dei barbari, e la loro colonna si mise in marcia per oltrepassare l'accampamento. Erano talmente tanti che nessuno fece caso alla freccia solitaria che, scoccata con insolita maestria dalle mura romane, trafisse alla gola il messaggero.

L'orda era così numerosa che impiegò giorni a sfilare davanti ai Romani, ora silenziosi dietro alle loro fortificazioni. Passarono guerrieri, donne, anziani, bambini. Passarono a cavallo, a piedi, su carri trainati da buoi.

Una notte, quando la colonna dei Teutoni era scomparsa dalla vista, i legionari furono fatti disporre in ordine di marcia nel massimo silenzio. Le porte del campo furono aperte, e le legioni cominciarono a uscirne. I "muli di Mario" portavano con sè tutto il necessario per vivere, muovere e combattere; nessun treno logistico, per la prima volta nella storia di Roma, appesantiva e rallentava l'avanzata delle legioni. La colonna sfilò veloce e ordinata, non si sentiva proferire una sola parola. Non appena giunsero al limitare della foresta, sorse il sole.

Li guidavano esploratori veloci e determinati. Uomini che Mario aveva inviato, in quei mesi trascorsi nella Provincia, a battere ogni sentiero. Erano Romani, ma ormai conoscevano quel terreno meglio dei Celti che vi erano nati.

Marciarono per un giorno intero, poi nel massimo silenzio eressero un accampamento fortificato sulla sommità di una piccola collina, riparata dalla vista. All'alba smontarono l'accampamento, e marciarono per un altro giorno, quindi rimontarono l'accampamento. All'alba lo smontarono nuovamente, e ripartirono.

Quando la colonna dei Germani giunse in una valle lussureggiante, chiusa a est da un basso valico sulla sommità di una collina, trovò le legioni schierate ad attenderli, in cima al valico. All'inizio i barbari, che erano così sicuri della propria invincibilità da avanzare senza esploratori, non si accorsero dei legionari che attendevano in assetto di battaglia, perfettamente fermi e silenziosi, schierati in tripla acies con gli scudi poggiati per terra.

Demetrius era posizionato in prima fila, e sapeva che quella postura - il silenzio, l'immobilità di fronte alla battaglia imminente - impressionava ogni nemico. Imperturbabili di fronte alla morte, i soldati di Roma dimostravano la loro ferrea disciplina e sembravano veramente dei della guerra calati sulla terra.

I primi ad accorgersi di loro furono gli Ambroni, che costituivano l'avanguardia della colonna barbarica. Non potevano credere a una simile fortuna: gli ignavi e piccoli Romani avevano deciso di uscire allo scoperto, e attenevano in una fila ordinata di essere massacrati. Imbracciarono le armi, lanciarono l'urlo di guerra e si lanciarono contro le legioni.

Gli Ambroni correvano in salita, con il sole nascente negli occhi, e la fatica cominciò a diminuirne l'impeto. Quando giunsero a una distanza prestabilita dalle schiere romane, una tromba squillò; le risposero i lugubri suoni dei corni, e all'unisono, come se fossero in parata, i Romani imbracciarono gli scudi e lanciarono, anch'essi, il loro grido di guerra. La prima fila fece pochi passi avanti, agevolata dal movimento in discesa, e scagliò i pila; le aste volarono in aria abbattendosi come una pioggia sugli Ambroni, sfiancati dalla corsa. La precisione di quei tiri era incredibile: aprirono ampi varchi nello schieramento dei barbari che, quando arrivò a contatto con gli scudi dei Romani, aveva ormai perso ogni compattezza. Fu una strage, tanto rapida e facile da non meritare quasi gloria: prima di decidere di ritirarsi, gli Ambroni lasciarono sul terreno 30.000 morti.

Nel frattempo, la valle ai piedi delle legioni era stata riempita dal grosso dell'esercito germanico, composto dai Teutoni, e chiusa a ovest dai carri che trasportavano le famiglie e le ricchezze razziate in Gallia. I barbari si riorganizzarono e ripartirono all'attacco; usarono però maggior cautela.

Giunsero a contatto con legioni, dove ricominciò la carneficina. Erano in grande vantaggio numerico, ma si accorsero che questo era un handicap: nella valle, lunga e stretta, non riuscivano ad esprimere una fronte più ampia di quella legionaria; per di più le fila posteriori premevano per giungere sulla linea della battaglia, pressando ed ostacolando quelle più avanzate.

Protetti dal loro muro di scudi, i legionari avanzavano lentamente, ma inesorabilmente, trucidando i loro nemici.

Dopo alcune ore di dura battaglia, dalla foresta che copriva il versante settentrionale della valle si levò un altro, lugubre suono di corno, e dagli alberi emerse un secondo schieramento legionario. Erano solamente 3.000 uomini, ma comparvero inaspettati dopo che l'orda nemica era ormai completamente sfilata davanti a loro, prendendola alle spalle. Il lancio dei loro pila, anch'esso condotto da posizione sopraelevata, ebbe effetti devastanti.

L'attacco a tenaglia infranse l'impeto dei Teutoni. Stretti tra due muri di scudi persero ogni speranza e, quando anche il loro re Teutobodo si diede alla fuga, si sbandarono e cercarono la salvezza indietro, verso est. La loro fuga fu però ostacolata dai carri che si erano là ammassati; la sconfitta fu totale. Le donne, per non cadere in schiavitù, si diedero la morte, insieme ai vecchi e ai bambini. In seguito si disse che morirono, in quella valle, 100.000 Teutoni; altrettanti furono catturati.

Modificato da L. Licinio Lucullo

Inviato

Pochi mesi dopo (101 a.C.) le legioni erano in Gallia Cisalpina. Le strade che loro stesso avevano lastricato avevano permesso un rapido trasferimento.

I Cimbri, nel frattempo, avevano sfondato la difesa romana, dilagando nella pianura a nord del Po; infine erano confluiti nei pressi dei Campi Raudii, dove erano stati raggiunti dagli eserciti consolari riuniti di Mario e di Quinto Lutazio Catulo.

Demetrius marciava insieme ad alcuni commilitoni incontro agli ambasciatori barbari, sotto lo sguardo impassibile dei due consoli e del loro stato maggiore, fermi sui loro cavalli. Giunti all'altezza degli ambasciatori, Demetrius e gli altri legionari aprirono i cesti di vimini, lasciando rotolare le teste imbalsamate dei capi Teutoni ai loro piedi. Dopo di che il centurione che li accompagnava diede l'ordine di "dietro-front", e li riportò nei ranghi.

Intimidire il nemico mostrandogli la testa mozzato di un suo alleato era pratica abituale, in guerra; era stato fatto anche con Annibale, cui le legioni avevano portato la testa del fratello. Eppure a Demetrius quella "messa in scena" era sembrata un po' inusuale. Ne aveva chiesto il motivo al suo centurione, e quello, sogghignando, aveva risposto quanto aveva appreso dai suoi superiori: "I Cimbri hanno detto che a Mario che non intendevano ritirarsi da questa terra, perché stavano attendendo i loro cugini Teutoni; Mario ha risposto loro che allora non c'era problema, perché i Teutoni erano già arrivati".


Inviato (modificato)

Quell'anno Demetrius partecipò al grande trionfo celebrato da Mario e Catulo per l'annientamento dei Teutoni e dei Cimbri. I Tigurini, saputi i fatti, si erano ritirati nelle selve germaniche senza nemmeno tentare l'attraverso delle Alpi.

A Roma il giubilo era grande, sembrava che la città fosse rinata dopo che si era sentita condannata a morte. Mario in particolare, nel loro massimo splendore, profusero grandi ricchezze per donare a soldati e lanciare al popolo all'apogeo del successo e della popolarità, profuse grandi ricchezze per distribuire, alle truppe e al popolo, denarii che lo ritraevano sulla quadriga trionfale.

Nel frattempo, nella modesta casa dai un nobile decaduto, Aurelia Cotta, cognata di Gaio Mario e di Lucio Cornelio Silla, metteva al mondo il suo piccolo erede. Si sarebbe chiamato anche lui, come il padre e il nonno, Gaio Giulio Cesare.

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Modificato da L. Licinio Lucullo

Inviato

Questo è un racconto, senza alcuna pretesa di serietà scientifica, sotto il profilo storico o sotto quello numismatico. Se vorrete eprdere tempo a correggere i colossali errori che ho scritto, ne sarò lieto. Volevo solo lasciare sul sito un assaggio di cosa significa, per me, prendere in mano una moneta della Repubblica, le vicende, i personaggi e gli intrecci che sono dietro al metallo, i solchi di storia che esso ha percorso.

Le monete riprodotte sono tutte tratte dal catalogo di La Moneta; per effetto narrativo, ho preferito però inserire direttamente l'immagine, anziché il link.

Se siete giunti a leggere sino qui, scusatemi per avervi annoiato


Inviato (modificato)

Queste sono i denarî illustrati:

Si ritiene che la vittoria su Cimbri e Teutoni sia stata celebrata, per anni, anche sui quinarî:

Modificato da L. Licinio Lucullo

Inviato

complimenti! Bellissimo racconto.Questo è quello che più apprezzo del nostro mondo,la possibilità di approfondire la storia toccandola anche con mano (anche se purtroppo non possiedo nessuno dei denari illustrati)...


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