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Salutecome ogni anno Panorama Numismatico a luglio include anche la pubblicazione di agosto e gli articoli che troviamo sono:

"In ricordo di Marilyn Monroe"in Curiosità numismatiche,a cura di G.Graziosi che ci parla di tutte le emissioni numismatiche che celebrano questo sex simbol.Si continua con il ritrovamento di monete puniche a Pantelleria

"Il significato della tesaurizzazione monetaria tra la fine del VI e gli inizi del V secolo a.C."articolo di Maria Teresa Rondinella che pone in esame il ritrovamento dei tesoretti di Selinunte,di Taranto e di Sanbiase e sulla base di ritrovamenti monetali insieme a quelli di metallo monetato coglie lo spunto per rivedere il termine"tesaurizzazione"

"La Pietas romana"articolo a pag.11 di R.Diegi che ha studiato l'appellativo "PIVS"presente sulle monete romane, da quelle coniate sotto il regno di Antonino in avanti e come tale appellativo perse di significato venendo apposto sulle monete dei predecessori.

"Il tesoretto di Faenza.Un interessante esempio di collaborazione tra istituzioni pubblche e private"articolo di M.Chimienti ,il quale,in questa prima parte pubblicata, ci descrive lo studio e la classificazione che lo hanno portato a collaborare con le istituzioni per classificare le 1175 monete trovate a Faenza nel 1993,rendendoci partecipi di varie considerazioni storico-numismatiche a riguardo.

"Storia di due antiche monete fuse circolanti in Sicilia nel XVII e XIX secolo"di M.Bonanno,dove veniamo ad apprendere la storia della moneta da 2 Grani fusa che circolò in Sicilia nei primi anni dell'800 e della sua falsificazione ed anche quella del Grano fuso di Carlo II.

"Sei medaglie per i compatroni di Napoli e la medaglia pontificia annuale del 1839"articolo di F.Di Rauso il quale ci illustra i santi venerati dai napoletani compatroni di San Gennaro,di come essi siano stati immortalati sulle medaglie e chi ne è stato l'incisore.Ci descrive,inoltre,quando furono fatti santi e perchè vengono venerati.Poi ci parla anche delle medaglie che vedono incisi insieme i busti di Ferdinando II con quello del Papa ed infine della medaglia di Gregorio XVI del 1839 in cui al rovescio sono stati incisi 5 beati che furono fatti Santi dal Papa.

"Battitura del 20 Lire con millesimo 1882 regnante Umberto I"a pag.53,a cura di S.Cavazzola ,il quale ha studiato la notevole produzione di monte auree da 20 Lire del 1882 e ci parla anche dell'istituzione dell'Unione Monetaria Latina.Si dà notizia del convegno numismatico Vastophil che quest'anno rende omaggio a Don Cesare D'Avalos e che si svolgerà a far data dal 15 giugno.

Per le recensioni sui libri B.Mirra inizia la sua recensione per il Quaderno di Studi VI anno 2011 dell'Assoc.Culturale Italia Numismatica così"La numismatica vive di appuntamenti e scadenze...............Ma vive anche di momenti bibliografici attesi da una rilevante parte di chi si occupa di monete e medaglie...."nulla di più vero e più bello.

La rivista prosegue con le emissioni numismatiche della Repubblica Italiana e conclude con gli appunamenti vari di Numismatica.

--Buona lettura e Buone vacanze

-odjob

Modificato da odjob

Inviato

l'articolo " battitura del 20 lire con millesimo1882 " l'ho pubblicato io, ma è tutta farina di @@bizerba62. volevo solo precisare perchè non voglio prendermi meriti che non mi appartengono :) ma in ogni caso anche in fondo all'articolo c'è scritto che è tutto merito suo ;)


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In questo articolo

Maurizio Bonanno,

Storia di due antiche monete fuse circolanti in Sicilia nel XVII e XIX secolo – da la risposta a questa discussione http://www.lamoneta....ge__hl__fusione .

Non appena Odjob fa la recensione a questo numero della rivista approfondiamo la discussione.

Antonio

Modificato da carlino

  • 2 settimane dopo...
Inviato

In questo articolo

Maurizio Bonanno,

Storia di due antiche monete fuse circolanti in Sicilia nel XVII e XIX secolo – da la risposta a questa discussione http://www.lamoneta....ge__hl__fusione .

Non appena Odjob fa la recensione a questo numero della rivista approfondiamo la discussione.

Antonio

Leggi confusionali,caos amministrativo e ,indirettamente,falsari autorizzati

--odjob


  • 3 settimane dopo...
Inviato

Anche su Panorama Numismatico ,come per Il Giornale della Numismatica,in questo numero,abbiamo avuto modo di leggere un articolo scritto da una studiosa di Numismatica,mi riferisco a quello di Maria Teresa Rondinella "Il significato della tesaurizzazione monetaria";inoltre noto che settimanalmente,nel forum s' iscrivono nel forum utenti femminili.

Ciò non può fare altro che bene alla Numismatica

L'articolo di Rondinella evidenzia uno studio meticoloso ed anche lei effettua ipotesi ,come un detective numismatico,sulle date delle monete e dei frammenti monetali e non monetali tesaurizzati.

--odjob


Inviato

l'articolo sulle banconote polymer è stato molto interessante.

Che bello, se la maggioranza delle banconote del futuro fossero così! :yahoo:

Dario :good:


  • 2 settimane dopo...
Inviato

Attraverso l'articolo di Francesco Di Rauso veniamo a conoscenza dei Santi compatroni di Napoli e sulle medaglie che li riguardano.Comprendiamo anche come la Chiesa cattolica influì sulla Real Casa di Borbone.La religione fu importante per l'opera di governo di Ferdinando II,emblematica è la medaglia del 1848 che vede i busti accollati del Papa e del Re.

Scopriamo,inoltre,la devozione dell'autore per San Giovan Giuseppe della Croce originario d'Ischia;santo ai più sconosciuto ma non agli ischitani;io ,ad esempio,sono devoto a S.Francesco d'Assisi santo abbastanza conosciuto.

"Logicamente" :D vengono esaudite maggiormente ed in maniera repentina le preghiere a San Giovan Giuseppe dal momento che ha meno devoti che ricorrono a lui,rispetto a quelle rivolte a San Francesco

--odjob

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Inviato

Attraverso l'articolo di Francesco Di Rauso veniamo a conoscenza dei Santi compatroni di Napoli e sulle medaglie che li riguardano.Comprendiamo anche come la Chiesa cattolica influì sulla Real Casa di Borbone.La religione fu importante per l'opera di governo di Ferdinando II,emblematica è la medaglia del 1848 che vede i busti accollati del Papa e del Re.

Scopriamo,inoltre,la devozione dell'autore per San Giovan Giuseppe della Croce originario d'Ischia;santo ai più sconosciuto ma non agli ischitani;io ,ad esempio,sono devoto a S.Francesco d'Assisi santo abbastanza conosciuto.

"Logicamente" :D vengono esaudite maggiormente ed in maniera repentina le preghiere a San Giovan Giuseppe dal momento che ha meno devoti che ricorrono a lui,rispetto a quelle rivolte a San Francesco

--odjob

Grazie mille Omdonor, bella la statistica sull'esaudirsi delle preghiere eheheheheh.

Vedo che sei un lettore molto attento, infatti lo studio è improntato sul rapporto tra stato e chiesa nel Regno delle Due Sicilie al tempo di Ferdinando II di Borbone oltre che ad una rassegna di medaglie inedite coniate nella zecca di Napoli (e non semplici medagliette devozionali di coniazione privata). Consiglio a tutti i lettori di andare a visitare il Museo del Tesoro di San Gennaro a Napoli in via Duomo, non potete immaginare la bellezza dei tesori di oreficeria e argenterie che vi sono, che emozione scoprire che sulla medaglie in questione vi sono proprio i busti colossali d'argento presenti in quel museo.

Il bello è che dopo circa due settimane dall'uscita dell'articolo un collezionista di Roma, dopo averlo letto, ha messo a mia disposizione l'immagine della medaglia del 1843 per San Francesco Caracciolo patrono di Napoli. L'immagine infatti manca nell'articolo per via della grande rarità ma fortunatamente è stata riportata la descrizione, quest'ultima proveniente dal catalogo d'asta della collezione Fusco del 1882. Penso che nel numero di ottobre verrà fatta un'addenda e pubblicata l'immagine della stessa, anche perchè essa è firmata dall'incisore Vincenzo Catenacci e quindi è "Made in Zecca di Napoli".

E a pensare che nell'aprile 2010 avevo fatto anche un annuncio su Lamoneta e nessuno aveva risposto. http://www.lamoneta.it/topic/61178-cercasi-medaglia-napoletana-del-1843/page__hl__caracciolo


Inviato

Dal portale web del Museo del Tesoro di San Gennaro::::

Fra il 1600 e il 1700 la devozione e il legame di patronato fra il santo e la città dovevano concretizzarsi in due "istituzioni": la Deputazione e Cappella del Tesoro di San Gennaro, e l’Ordine Cavalleresco intitolato al santo e fondato dal re Carlo di Borbone nel 1738.

L’origine della Cappella del Tesoro risale all’anno 1527, data in cui la città di Napoli- spopolata dalla peste –faceva voto di erigere un grandioso edificio come ringraziamento al santo patrono cui s'era rivolta per ottenere scampo e salvezza; ma solo nel 1601 gli Eletti dai Seggi cittadini di Capuana, Nido, Montagna, Porto, Portanova e Popolo ne avrebbero in realtà varato la costruzione in Duomo al posto della ormai angusta sede delle reliquie – il "Tesoro vecchio" -, sita in una delle torri di facciata, affidando il compito di seguire l’impresa a una "deputazione" di dodici membri, due per ogni seggio.

Formidabile fu l’impegno che la città e la Deputazione – una volta ottenuto, nel 1605, l’assenso alla fondazione dal papa Paolo V – doverono infondere nella costruzione della cappella, eretta e decorata nel giro di neanche quarant’anni. Palese in tutti i documenti del tempo è una disponibilità finanziaria e un intento di "eccellenza", nella qualità delle opere e nella scelta degli artefici, che in questo arco di tempo – a Napoli – può forse essere confrontato soltanto a quanto era stato fatto e si andava facendo per mano dei priori della Certosa di San Martino. E’ per questo motivo ed anche per l’eccezionale assenza di sostanziali dispersioni d’un patrimonio già di per sé ricchissimo, che – proprio assieme alla certosa – la Cappella del Tesoro di San Gennaro costituisce l’esempio più alto e rappresentativo dell’arte barocca a Napoli, compiuto e dotato entro la prima metà del Seicento ma continuamente integrato e arricchito per tutta la durata del secolo e nel corso di tutto il Settecento.

Il suo aspetto è perciò caratterizzato da un tipico e irripetibile affollamento di oggetti e di decori, di dipinti, di affreschi, di statue soprattutto e di preziosi, che subito s'impone alla fantasia del visitatore; al punto che, nel Settecento, uno dei tanti viaggiatori nella Napoli del "Grand Tour", il tedesco Volkmann, si diceva talmente colpito e sopraffatto dallo sfarzo, dal lusso e dalla quantità di decorazioni, di ori, di stucchi presenti in Cappelle, "che l'occhio da nessuna parte trova pace"; un aspetto che ancora a metà Ottocento l’acquerello di Giacinto Gigante colla scena del Miracolo dello scioglimento del sangue, conservato al Museo di Capodimonte, coglie a pieno nel trascorrere macchiato della luce sulla folla densissima e policroma dei devoti, delle statue di marmo, di bronzo, d’argento.

Il progetto dell’edificio – che è dunque il luogo per eccellenza dove le espressioni più alte dell’arte napoletana si incontrano col culto del santo – si deve all’architetto teatino Francesco Grimaldi, nominato nel 1608, che nella maestosa pianta centrale dominata da una grande cupola trasferì’ la sua ispirazione classicista e romana, basata sui prototipi di Bramante e Michelangelo.

Nonostante che per l’ultimazione della Cappella e per la copertura della cupola dovessero passare ventott’anni (1636), e dieci ancora per la sua apertura al culto, già poco oltre il 1610 i Deputati effettuavano a Roma, "per la scarsezza che è in questa Città di maestri e artefici sufficienti come bisognano in una opera di tanta qualità", i primi sondaggi per reperire un artista in grado di ricoprire i vasti spazi di muratura di affreschi o addirittura – secondo un primo progetto – di mosaici. La scelta cadde inizialmente sul Cavalier d’Arpino (1616), il quale aveva già realizzato opere di questa natura nel massimo tempo della cristianità – la Basilica di San Pietro –ed era per altro ben noto a Napoli per i cicli a fresco realizzati alla fine del secolo precedente per la locale Certosa di San Martino: ma questi – dopo una prima discesa nel 1618 e la stipula del contratto – non diede seguito all’impegno preso. Nel 1619 fu allora contattato allo scopo il giovane Guido reni, astro della nuova pittura bolognese ed esperto frescante; ma anche il soggiorno di questi a Napoli (1620-21) – avversato sino alle minacce e all’omicidio d’un garzone dal pittore tardo-manierista Belisario Corenzio, detentore del monopolio delle imprese di decorazione nelle chiese locali ed esponente senza scrupoli d’una "mafia" artistica cittadina – non ebbe esito fortunato. Negli anni a seguire la Deputazione provò così a incaricare nuovamente il Cavalier d’Arpino, poi il napoletano Fabrizio Santafede – che lavorò in Cappella con Gessi e Battistello Caracciolo dal 1622 al 1626 -, poi addirittura- per un saggio di prova – l’intraprendente Corenzio col suo socio Simone Papa (1628-29); finché, rifiutato e rimosso tutto quanto era stato fin lì realizzato da questi pittori, non si deciderà nel 1630 ad invitare a Napoli l’altro artista bolognese Domenichino, autore a Roma di celebri affreschi in San Luigi dei Francesi e Sant’Andrea della Valle, la cui opera pittorica ancor oggi caratterizza l’aspetto dell’intero Tesoro.

Sono di Domenichino, databili fra il 1631 e il 1638, tutti gli affreschi delle volte e delle lunette, raffiguranti – in base ai testi agiografici di Paolo Regio – le storie della vita e del martirio del santo, nonché quelli dei pennacchi, allusivi al patrocinio di san Gennaro sulla città, ed i dipinti su rame degli altari coi Miracoli e i due Martìri maggiori, programmati nel 1632 ma realizzati in realtà fra il 1636 e il 1641, e solo in parte; al punto che alla morte dell’artista il Martirio della fornace dovette essere affidato al Ribera, e l’incompiuto Miracolo dell’ossessa sostituito da un quadro analogo dell’altro pittore "locale" Massimo Stanzione.

Agli affreschi – e ai rami – Domenichino si dedicò con la consueta cura e lentezza, ospitato in un appartamento nel palazzo della Deputazione e compensato con 100 scudi per ogni figura intera, 50 per ogni mezza e 25 per ogni testa, ma avversato anche fieramente dai "concorrenti" Corenzio e Ribera, tanto da doversene fuggire per breve tempo a Roma nel 1634. Il risultato, ben leggibile oggi dopo i restauri del 1986-87, rappresenta l’ultima tappa, e la più matura, del classicismo di Domenichino e del suo "sistema" di decantazione delle emozioni entro l’ordinata struttura della "pittura di storia".

Nei suoi ultimi anni egli lavorava agli affreschi della cupola, ma la decorazione di questa rimase interrotta alla sua morte, e la Deputazione decise così nello stesso anno di rinnovarne le parti già eseguite e di affidare ex-novo l’impresa ad un altro pittore emiliano che da qualche anno era attivo a Napoli, l’antico compagno di Domenichino e in seguito suo rivale a Roma – in Sant’Andrea della Valle – Giovanni Lanfranco. A Lanfranco si deve perciò il formidabile paradiso che oggi decora la cupola della Cappella, coll’Eterno al centro di schiere salienti di santi fra cui spiccano il Cristo, la Vergine e San Gennaro, e che l’artista realizzò con energia vorticosa nel breve giro di anni fra il 1641 e il 1643; esempio assai notevole di quel senso dello spazio infinito, dello sfondato, del movimento, di quella stesura delle superfici e delle masse a larghe falde che egli – prendendo spunto dalla tradizione correggesca – aveva messo al centro della sua particolare interpretazione del Barocco.

Grande risalto, nell’ornamentazione della Cappella, ha però anche la parte riservata della scultura, alla plastica. Affidata in origine agli scultori di tradizione tardo-cinquecentesca Naccherino, D’Auria, Montani e Monterosso, fu soltanto dopo l’insoddisfacente tentativo di questi ultimi di realizzare in bronzo le prime tre figure dei Santi patroni per le nicchie della Cappella che la Deputazione – con una svolta pari a quella della scelta di Domenichino al posto dei vari Cesari, Corenzio o Santafede nel campo della decorazione a fresco – decise di avvalersi per essa nel 1638 del carrarese Giuliano Finelli, collaboratore a Roma del Bernini e al cui linguaggio assieme classico e barocco si deve infatti la grandiosa statua di San Gennaro al centro dell’abside, così come quelle, ai lati, di dodici compatroni.

A queste, alle altre sculture in bronzo realizzate nella seconda metà del secolo da Fanzago, Mariniello e Vinaccia, e al formidabile cancello d’ingresso in ottone progettato dallo stesso Cosimo Fanzago (1628-65), si aggiungevano intanto, nel corso di tutto il Seicento e fino agli inizi del Novecento, e con un sistema ironicamente descritto dallo sbalordito forestiero Alexandre Dumas ("ogni confraternita, ogni ordine religioso, ogni parrocchia e persino ogni privato che tenga a far dichiarare un santo suo amico patrono di Napoli sotto la presidenza di San Gennaro, non deve che far fondere una statua d’argento massiccio del prezzo da sei a ottomila ducati e offrirla alla Cappella del Tesoro"), le cinquantuno altre statue in argento di santi patroni che caratterizzano in modo straordinario l’aspetto della Cappella e degli ambienti annessi. L’argento è in realtà l’altro grande protagonista dei prodotti commissionati per il Tesoro di San Gennaro; e d’argento sono qui i due primi reliquiari trecenteschi del busto e del sangue, voluti dai sovrani angioini, i paliotti degli altari – fra cui quello centrale con la Traslazione delle reliquie da Montevergine a Napoli, di Gian Domenico Vinaccia (1692-95) -, le lampade, i due grandi "splendori" – vere macchine per luminarie – realizzati da Filippo del Giudice grazie al contributo di Carlo di Borbone, le altre stupende statue a tutt’altezza di San Michele arcangelo (1691), di Tobia con Raffaele (1797) e dell’Immacolata 81628-1718) – opera di Lorenzo Vaccaro, Vinaccia, Sammartino, del Giudice e Treglia -, le croci, i candelieri, i putti, i turiboli, le giare e le "frasche" infine che, ad opera anch’essi dei più celebri argentieri, come Monte o Vinaccia, addobbano in particolare l’altar maggiore in porfido progettato dal Solimena, costato esso solo – fra il 1706 e il 1722 – quasi ventimila ducati.

Meno noti perché da tempo non esposti in Cappella, e non più usati per le celebrazioni o per addobbare – com’era uso – il busto del santo, ma non certo meno importanti sono infine i gioielli, i preziosi, anch’essi in parte legati, come gli argenti, a donativi fatti al Tesoro specie fra il Sei e l’Ottocento, ma questa volta soprattutto ad opera di sovrani ed esponenti della corte. Fra gli arredi liturgici, ad esempio, il raffinato calice in oro, diamanti e rubini commissionato da Ferdinando di Borbone a Michele Lofrano (1761), i candelieri pure settecenteschi in cristallo di rocca, la pisside in oro, brillanti, zaffiri, rubini e smeraldi, e il classicheggiante, enorme tronetto-baldacchino per l’esposizione del Santissimo offerti da Ferdinando II di Borbone nel 1831 e 1837, o infine l’ostensorio in argento e pietre preziose donato nel 1837 da Maria Teresa d’Austria. Fra gli "ornamenti" del Busto di San Gennaro, invece, la coloratissima mitra vescovile realizzata per la Deputazione nel 1713 dall’orafo Matteo Treglia in argento dorato, costellata da 3328 diamanti, 198 smeraldi e 168 rubini, o soprattutto lo spettacolare "collare", pur esso commissionato dai Deputatiall’orafo Michele Dato (1679) e consistente in origine in tredici maglie d’oro con diamanti, smeraldi e rubini, cui nel corso del Sette e dell’Ottocento dovevano aggiungersi preziosissime croci e fermagli in brillanti, rubini, zaffiri e crisoliti donati dai sovrani borbonici Carlo, Maria Amalia, Maria Carolina, Francesco I e Maria Cristina, e ancora da Giuseppe Bonaparte e da Vittorio Emanuele II di Savoia.

Ma il discorso sui gioielli, e sui donativi reali, conduce quasi naturalmente a spostare l’argomento sul vincolo che doveva stringersi – oltre che fra la città – fra la corte e il santo patrono, e dunque sulla fondazione di quella seconda istituzione" legata alla figura e alla devozione di quest’ultimo, dell’Ordine cioè di San Gennaro.

Nel Settecento, ritornata Napoli ad essere capitale di un regno autonomo, non poteva infatti sfuggire al primo dei sovrani della nuova dinastia, Carlo di Borbone, l’importanza di legarsi a un culto che era ormai divenuto parte integrante della vita cittadina, evento sacro, miracolo, cerimonia, ma anche – con le varie processioni di maggio, settembre e dicembre, con gli apparati festivi, le macchine e gli addobbi dei Seggi – momento spettacolare, luogo di aggregazione urbana, grande occasione di consenso popolare. Narra il d’Onofrj nel suo Elogio estemporaneo per la gloriosa memoria di Carlo III (1788) di come il "pio Monarca", richiesto d’accettare una dedica alla sua persona d’un volume dedicato alle pitture della Cappella del Tesoro, rispondesse "A mi S.Genaro nada pueda negarlo", al mio San Gennaro nulla posso negare; e di come, nell’anno delle sue nozze con Maria Amalia di Sassonia, "compreso da spirito di religione e di gratitudine, seppe rendere immortali, e vie più pubbliche e luminose le glorie" del suo Benefattore San Gennaro con l’istituzione "di un real ordine militare, e cavalleresco."

L’ordine venne concepito come dinastico e " di Collana", e cioè legato strettamente alla discendenza diretta dei Borboni delle due Sicilie e molto selettivo, limitato al numero massimo di sessanta membri scelti fra quelli che potessero vantare i quattro quarti di nobiltà; e conferito infine a coloro che "si segnalavano per la fedeltà al loro Sovrano e Gran Maestro, e per il loro fervore nell’accrescimento di Nostra Santa Religione".

Agli esperti dunque di gratitudine al santo patrono e alle prescrizioni, tutte o quasi di carattere religioso, che si leggono negli Statuti di fondazione, si accompagnava un’attenzione estrema al decoro e al fasto "cortese" dell’Ordine e dei suoi Cavalieri, tale da prevedere – sin negli statuti stessi – un corredo di abiti, manto, fascia, croce, cingolo e collana di grandissima ricercatezza, e i cui più antichi esempi sono da annoverare perciò fra i migliori prodotti delle "arti decorative" napoletane del Settecento.

In queste vesti i sovrani borbonici e qualcuno dei grandi aristocratici ammessi nell’Ordine vollero inoltre farsi ritrarre dai maggiori artisti dell’epoca, dando vita ad esiti pittorici il più delle volte di straordinaria qualità, e comunque ad altrettanti penetranti "spaccati" della vita di corte fra Sette e Ottocento. Il ritratto di Ferdinando IV fanciullo di Mengs (1760) o quello dello stesso Ferdinando adulto di Camuccini (1818), conservati rispettivamente nei musei di Capodimonte e di Palazzo Reale, e meglio ancora quelli del principe di Tarsia Ferdinando Vincenzo Spinelli del Solimena -–pure a Capodimonte – (1741), e dei principi di Tocco Leonardo e Restaino, del Liani (1780), nei quali la descrizione puntuale dell’Ordine e dei suoi accessori costituisce evidentemente quasi lo scopo irrinunciabile del ritratto stesso come manifestazione di massima nobiltà e decoro, consentono infatti da un lato di leggere il trapasso della pittura napoletana dal Rococò appunto dell'ultimo Solimena – rutilante di luci, sete, metalli ed ori – al neoclassicismo del secolo seguente, e dall’altro di fissare in altrettante efficaci immagini riccamente vestite di "drappo d’argento" e d’ "amoer porporina seminato di gigli d’oro", di "rossi nastri ondeggiati", di croci smaltate e ingioiellate col motto "in sanguine foedus", le tappe d’un rituale mondano e di corte, e però osservato "in memoria del martirio del Santo" patrono.

Pierluigi Leone de Castris

Soprintendenza per i Beni Artistici

e Storici di Napoli e Provincia


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