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Motti, legende ed imprese...


Risposte migliori

Se può far piacere si potrebbe è mia intenzione iniziare una discussione in cui parlare dei motti, legende ed imprese presenti sulle monete napoletane. Naturalmente per gli “addetti ai lavori” è già tutto noto, ma può darsi che nella discussione possano nascere spunti nuovi e degni di considerazione e magari anche aneddoti d’epoca.

Mi piacerebbe, seguendo le emissioni in maniera cronologica, iniziare da Carlo I d’Angiò con la sua riforma monetaria del 1278 e con la coniazione dello stupendo “Saluto” napoletano, cercando in qualche modo di rispondere ad una domanda recentemente postami ad una riunione.

Il “Saluto” napoletano e la scena dell’Annunciazione

Questa bellissima moneta voluta proprio da Carlo I d’Angiò, riporta su un lato la scena dell’annunciazione dell’Arcangelo Gabriele alla Vergine Maria, accompagnata dalla legenda AVE GRACIA PLENA DOMINUS TECUM (SALVE, PIENA DI GRAZIA, IL SIGNORE (E’) CON TE, vangelo , Luca, 1,28), mentre dall’altro lato riporta lo stemma ripartito di Gerusalemme e di Francia con la legenda riportante il nome del sovrano.

Carlo I d'Angiò - Saluto d’oro o Carlino d’oro

Da asta NAC 53 lotto 104 – Rif. CNI XIX n°1 pag. 13, P/R n°1 – MEC n°675 - D’Andrea/Andreani N°1 – MIR n°18

Come è stato detto questa moneta è stata voluta proprio da Carlo I d’Angiò che si affidò a Giovanni Fortino da Brindisi per la sua realizzazione. La prima prova di questa moneta mostrata al sovrano fu “bocciata” in quanto il re pretese che le due facce della moneta, ruotando la stessa su un asse verticale, risultassero sempre “dritte” e non ruotate (Volumus et mandaìnus ut Karolenses ipsos secundum istum modum et formam cudi de cetero faciatis ut uniforme reddantur, ita quod capita ymaginum predictis capitis predicti scuti, et pedes earumdem ymaginum punte seu pedes eiusdem scuti respondeant… Registri Cancelleria Angioini XIX, p. 217, n°263). Dagli stessi registri possiamo leggere “Quod caput ipsius scuti capitibus ymaginum Beate Virginis et Angeli parte alteris positis et punta semper eiusdem scutis pedibus eorundem ymaginum eguali ordine responderent” da cui si può dedurre che era volontà del re indicare come Dritto della moneta il lato con la scena dell’Annunciazione e come Rovescio il lato con lo stemma ed il suo nome; questo probabilmente per anteporre “l’autorità religiosa” all’autorità regale (ciò nella descrizione di questa moneta in cataloghi e listini spesso non è rispettato in quanto si segue il criterio generale di indicare come Dritto il lato riportante il nome del sovrano regnante).

Assieme al Saluto d’oro, con le stesse impronte, fu coniato anche il Saluto d’argento e le relative loro metà (1/2 Saluto d’oro e ½ Saluto d’Argento), ma per evitare falsificazioni negli esemplari d’argento (oltre ad essere di diametro maggiore) non sono presenti le decorazioni attorno allo stemma ed il vaso che si trova tra l’Arcangelo e la Vergine è con i manici. Fu coniata anche sotto il regno di Carlo II d'Angiò.

Carlo I d'Angiò - Saluto d’argento o Carlino d’argento

Da asta NAC 35 lotto 152 – Rif. CNI XIX n°9 pag. 14, P/R n°3 – MEC n°677 - D’Andrea/Andreani N°3 – MIR n°20

Fatta questa lunga premessa cerchiamo di capire i motivi che portarono alla scelta del re per la scena dell’Annunciazione.

Per prima cosa va considerato che siamo in pieno medioevo e di sovente sulle monete viene riportato un simbolo o una figura religiosa spesso oltre che a sottolineare la religiosità, anche ad evidenziare la propria autonomia riportando la figura del Santo Patrono.

Naturalmente per Napoli ciò non sarebbe stato possibile per ovvi motivi, primo fra i quali il fatto che essendo essa la capitale di un regno molto vasto, non si sarebbe potuto scegliere un santo simbolo di una sola città, senza dimenticare che comunque il sovrano del momento, Carlo I d’Angiò, è francese, quindi non legato ai culti e alle tradizioni partenopee, da qui ovviamente la conseguenza che mai avremmo potuto avere una moneta con l’effige di San Gennaro coniata a Napoli in questo periodo.

La scelta dell’Annunciazione va cercata invece nella devozione che Carlo I d’Angiò aveva per la Vergine Maria, infatti fu a Lei che si “rivolse” il sovrano angioino invocando l’aiuto divino quando le cose stavano volgendo al peggio nella battaglia di Tagliacozzo dove il re francese era contrapposto a Corradino di Svevia per la conquista della corona del regno. Visto l’esito favorevole dello scontro a Carlo I d’Angiò questi per ringraziare la Vergine alla quale aveva fatto voto, fece erigere sul posto una chiesa, Santa Maria della Vittoria. Quindi certamente fu questa devozione a Maria da parte di Carlo I d’Angiò a fargli scegliere come simbolo religioso da apporre sulle monete la scena dell’Annunciazione abbinata alla legenda con il “saluto” che l’Arcangelo Gabriele rivolge alla Vergine.

Questa moneta d’oro fu chiamata in, omaggio al re, anche Carlino d’oro mentre quella d’argento Carlino d’argento: nasce così il Carlino, un nominale che rimarrà in uso per tutta la durata del regno di Napoli.

Una piccola curiosità: come abbiamo detto questa nuova moneta nacque a seguito di una riforma monetaria quindi andò a sostituire una monetazione precedente, in particolare il Saluto d’oro avendo un valore di 15 carlini d’argento, quindi ¼ di oncia di conto era equiparato e quindi andava a sostituire il Reale d’oro ( e di conseguenza anche l'augustale) precedentemente coniato sempre da Carlo I d’Angiò, ma quest’ultimo, nonostante avesse un titolo di fino inferiore, pesava quasi un grammo in più (5,35 g contro 4,43 g) quindi la popolazione era poco invogliata al cambio. Ciò nonostante fu stabilito un cambio alla pari con la pena del taglio della mano per chi contravvenisse a tale regola.

Per approfondire l’argomento, oltre i testi citati come riferimento nelle immagini, cito gli articoli di: F. Punzi “Monete d’oro al cavaliere nell’Italia meridionale” in CN n°177; M. Traina “Lo sapevate che…” in CN n°216 ; A. d’Andrea, “Il saluto della zecca di Napoli” in CN n°230.

Graditi ulteriori notizie o spunti e naturalmente segnalazioni di omissioni od errori.

Sempre se vi fa piacere tra qualche giorno si potrebbe parlare del gigliato.

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ottima iniziativa !

A me piacerebbe approfondire il motto

PERDAM BABILLONIS NOMEN

che compare al rovescio del ducato battuto a Napoli da Luigi XII.

Arriveremo anche a quello! Lì ci sarà da sudare visto le varie interpretazioni, ma non anticipiamo nulla.

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ottima iniziativa !

A me piacerebbe approfondire il motto

PERDAM BABILLONIS NOMEN

che compare al rovescio del ducato battuto a Napoli da Luigi XII.

Arriveremo anche a quello! Lì ci sarà da sudare visto le varie interpretazioni, ma non anticipiamo nulla.

Esatto, per questo chiedevo...

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Molto probabilmente uscirà sul prossimo Panorama Numismatico di dicembre un articolo sull'argomento. Dagli aragonesi in poi ......mi sembra di ricordare. ;)

Modificato da francesco77
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Se può far piacere si potrebbe è mia intenzione iniziare una discussione in cui parlare dei motti, legende ed imprese presenti sulle monete napoletane. Naturalmente per gli "addetti ai lavori" è già tutto noto, ma può darsi che nella discussione possano nascere spunti nuovi e degni di considerazione e magari anche aneddoti d'epoca.

Mi piacerebbe, seguendo le emissioni in maniera cronologica, iniziare da Carlo I d'Angiò con la sua riforma monetaria del 1278 e con la coniazione dello stupendo "Saluto" napoletano, cercando in qualche modo di rispondere ad una domanda recentemente postami ad una riunione.

Il "Saluto" napoletano e la scena dell'Annunciazione

Questa bellissima moneta voluta proprio da Carlo I d'Angiò, riporta su un lato la scena dell'annunciazione dell'Arcangelo Gabriele alla Vergine Maria, accompagnata dalla legenda AVE GRACIA PLENA DOMINUS TECUM (SALVE, PIENA DI GRAZIA, IL SIGNORE (E') CON TE, vangelo , Luca, 1,28), mentre dall'altro lato riporta lo stemma ripartito di Gerusalemme e di Francia con la legenda riportante il nome del sovrano.

Carlo I d'Angiò - Saluto d'oro o Carlino d'oro

Da asta NAC 53 lotto 104 – Rif. CNI XIX n°1 pag. 13, P/R n°1 – MEC n°675 - D'Andrea/Andreani N°1 – MIR n°18

Come è stato detto questa moneta è stata voluta proprio da Carlo I d'Angiò che si affidò a Giovanni Fortino da Brindisi per la sua realizzazione. La prima prova di questa moneta mostrata al sovrano fu "bocciata" in quanto il re pretese che le due facce della moneta, ruotando la stessa su un asse verticale, risultassero sempre "dritte" e non ruotate (Volumus et mandaìnus ut Karolenses ipsos secundum istum modum et formam cudi de cetero faciatis ut uniforme reddantur, ita quod capita ymaginum predictis capitis predicti scuti, et pedes earumdem ymaginum punte seu pedes eiusdem scuti respondeant… Registri Cancelleria Angioini XIX, p. 217, n°263). Dagli stessi registri possiamo leggere "Quod caput ipsius scuti capitibus ymaginum Beate Virginis et Angeli parte alteris positis et punta semper eiusdem scutis pedibus eorundem ymaginum eguali ordine responderent" da cui si può dedurre che era volontà del re indicare come Dritto della moneta il lato con la scena dell'Annunciazione e come Rovescio il lato con lo stemma ed il suo nome; questo probabilmente per anteporre "l'autorità religiosa" all'autorità regale (ciò nella descrizione di questa moneta in cataloghi e listini spesso non è rispettato in quanto si segue il criterio generale di indicare come Dritto il lato riportante il nome del sovrano regnante).

Assieme al Saluto d'oro, con le stesse impronte, fu coniato anche il Saluto d'argento e le relative loro metà (1/2 Saluto d'oro e ½ Saluto d'Argento), ma per evitare falsificazioni negli esemplari d'argento (oltre ad essere di diametro maggiore) non sono presenti le decorazioni attorno allo stemma ed il vaso che si trova tra l'Arcangelo e la Vergine è con i manici. Fu coniata anche sotto il regno di Carlo II d'Angiò.

Carlo I d'Angiò - Saluto d'argento o Carlino d'argento

Da asta NAC 35 lotto 152 – Rif. CNI XIX n°9 pag. 14, P/R n°3 – MEC n°677 - D'Andrea/Andreani N°3 – MIR n°20

Fatta questa lunga premessa cerchiamo di capire i motivi che portarono alla scelta del re per la scena dell'Annunciazione.

Per prima cosa va considerato che siamo in pieno medioevo e di sovente sulle monete viene riportato un simbolo o una figura religiosa spesso oltre che a sottolineare la religiosità, anche ad evidenziare la propria autonomia riportando la figura del Santo Patrono.

Naturalmente per Napoli ciò non sarebbe stato possibile per ovvi motivi, primo fra i quali il fatto che essendo essa la capitale di un regno molto vasto, non si sarebbe potuto scegliere un santo simbolo di una sola città, senza dimenticare che comunque il sovrano del momento, Carlo I d'Angiò, è francese, quindi non legato ai culti e alle tradizioni partenopee, da qui ovviamente la conseguenza che mai avremmo potuto avere una moneta con l'effige di San Gennaro coniata a Napoli in questo periodo.

La scelta dell'Annunciazione va cercata invece nella devozione che Carlo I d'Angiò aveva per la Vergine Maria, infatti fu a Lei che si "rivolse" il sovrano angioino invocando l'aiuto divino quando le cose stavano volgendo al peggio nella battaglia di Tagliacozzo dove il re francese era contrapposto a Corradino di Svevia per la conquista della corona del regno. Visto l'esito favorevole dello scontro a Carlo I d'Angiò questi per ringraziare la Vergine alla quale aveva fatto voto, fece erigere sul posto una chiesa, Santa Maria della Vittoria. Quindi certamente fu questa devozione a Maria da parte di Carlo I d'Angiò a fargli scegliere come simbolo religioso da apporre sulle monete la scena dell'Annunciazione abbinata alla legenda con il "saluto" che l'Arcangelo Gabriele rivolge alla Vergine.

Questa moneta d'oro fu chiamata in, omaggio al re, anche Carlino d'oro mentre quella d'argento Carlino d'argento: nasce così il Carlino, un nominale che rimarrà in uso per tutta la durata del regno di Napoli.

Una piccola curiosità: come abbiamo detto questa nuova moneta nacque a seguito di una riforma monetaria quindi andò a sostituire una monetazione precedente, in particolare il Saluto d'oro avendo un valore di 15 carlini d'argento, quindi ¼ di oncia di conto era equiparato e quindi andava a sostituire il Reale d'oro ( e di conseguenza anche l'augustale) precedentemente coniato sempre da Carlo I d'Angiò, ma quest'ultimo, nonostante avesse un titolo di fino inferiore, pesava quasi un grammo in più (5,35 g contro 4,43 g) quindi la popolazione era poco invogliata al cambio. Ciò nonostante fu stabilito un cambio alla pari con la pena del taglio della mano per chi contravvenisse a tale regola.

Per approfondire l'argomento, oltre i testi citati come riferimento nelle immagini, cito gli articoli di: F. Punzi "Monete d'oro al cavaliere nell'Italia meridionale" in CN n°177; M. Traina "Lo sapevate che…" in CN n°216 ; A. d'Andrea, "Il saluto della zecca di Napoli" in CN n°230.

Graditi ulteriori notizie o spunti e naturalmente segnalazioni di omissioni od errori.

Sempre se vi fa piacere tra qualche giorno si potrebbe parlare del gigliato.

Argomento di indubbio interesse, mi permetto di segnalare a tal proposito un approfondimento sulla scena dell'Annunciazione (in pdf) pubblicato in uno studio su Santa Pulcheria (da pag. 39 in poi).

http://www.ilportale...s_pulcheria.htm

Modificato da francesco77
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  • 7 mesi dopo...

Graditi ulteriori notizie o spunti e naturalmente segnalazioni di omissioni od errori.

Sempre se vi fa piacere tra qualche giorno si potrebbe parlare del gigliato.

HONOR REGIS IUDICIUM DILIGIT

L'onore del re stima il giudizio degli uomini;

Questo versetto del salmo 98 che si trova sui Gigliati di Carlo II e Roberto d'Angiò, Carlo III di Durazzo e Renato d'Angiò è allusivo alla retta amministrazione della giustizia sotto i rispettivi Sovrani che l'anno adottato.

Ma come mai è rimasta nel dimenticatoio? :(

Riporto qui di seguito alcuni passi del dell’Erba sul perché erano e sono importanti le legende impresse sulle monete Medioevali dell’Italia Meridionale.

La moneta rappresenta uno dei più completi ed eloquenti monumenti dell’epoca cui si appartiene, la quale vi si rispecchia nelle impronte e nelle legende.

Spesso essa è l’unico documento che ci sia pervenuto relativo a personaggi o a fatti storici, la cui memoria sarebbe stata dimenticata, se a salvarla, non avesse provveduto un umile Nummo dall’insignificante apparenza; in quell’ epoca era il manifesto ufficiale che recava notizia di tutti gli avvenimenti politici, economici e militari del momento.

A molti anni da un avvenimento era lei che lo rievocava agli occhi del popolo che si abituava, perciò, a considerare la memoria del fatto e la moneta come un unico corpo inscindibile.

Solo attraverso le indicazioni fornite dalle monete si sono potuti risolvere dubbi, ed assodare fatti e circostanze che altrimenti sarebbe stato impossibile precisare.

Sperando di aver fatto cosa gradita, continuiamo a postare seguendo l'ordine indicato da fedafa. ;)

Modificato da peter1
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QUOD VIS, il minaccioso motto presente sugli scudi e mezzi scudi di Filippo III del 1617: siamo certi che si riferisse alle minacce di guerra alla Serenissima Repubblica di Venezia? ;) Si tratta di un'interpretazione da sempre attribuita a questo evento bellico, personalmente avrei altre idee al riguardo, e voi?

post-8333-0-87444900-1310378005_thumb.jp

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Guest fabrizio.gla

Vivi ringraziamenti per l'interessante spunto e nella disponibilità di condividere la Vostra cultura col forum. Purtroppo la mia grande ignoranza mi permette solo di poter apprezzare ma non di contribuire :(

Un cordiale saluto,

F.

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Vivi ringraziamenti per l'interessante spunto e nella disponibilità di condividere la Vostra cultura col forum. Purtroppo la mia grande ignoranza mi permette solo di poter apprezzare ma non di contribuire :(

Un cordiale saluto,

F.

Anche io lo ero (ignorante) ma sforzati ....vedrai che se studi come lo sto facendo io è molto più semplice.

Non conosco i tuoi interessi Numismatici, ma ti posso assicurare che su questa Monetazione è quasi tutto scritto, basta studiare, quello che non trovi scritto lo tovi qui nalla Sezione grazie a persone esperte come Francesco.

Ricordati: ognuno di noi potrebbe mettere un tassello mancante al posto giusto ;)

Ciao Pietro

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QUOD VIS, il minaccioso motto presente sugli scudi e mezzi scudi di Filippo III del 1617: siamo certi che si riferisse alle minacce di guerra alla Serenissima Repubblica di Venezia? ;) Si tratta di un'interpretazione da sempre attribuita a questo evento bellico, personalmente avrei altre idee al riguardo, e voi?

Francè io conoscevo il motto così com'era riportato fino ai gironi nostri.....ma se ti è venuta qualche brillante idea, che potrebbe esssere qualcosa di diverso, sono qui ad attendere ulteriori sviluppi della vicenda.

E' che queste Napoletane non finiscono mai di stupirci. :)

P.S. ma perchè il salto dagli Angioini ai Filippo ? :( :(

Modificato da peter1
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Guest fabrizio.gla

Anche io lo ero (ignorante) ma sforzati ....vedrai che se studi come lo sto facendo io è molto più semplice.

Non conosco i tuoi interessi Numismatici, ma ti posso assicurare che su questa Monetazione è quasi tutto scritto, basta studiare, quello che non trovi scritto lo tovi qui nalla Sezione grazie a persone esperte come Francesco.

Ricordati: ognuno di noi potrebbe mettere un tassello mancante al posto giusto ;)

Ciao Pietro

Grazie Pietro per l'incoraggiamento, ma tra lavoro,

responsabilità familiari e altre cose importanti, il tempo

è quello che è purtroppo... ma complimenti anche a te!

Immagino che a scuola ti coprirai di gloria! :)

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Anche io lo ero (ignorante) ma sforzati ....vedrai che se studi come lo sto facendo io è molto più semplice.

Non conosco i tuoi interessi Numismatici, ma ti posso assicurare che su questa Monetazione è quasi tutto scritto, basta studiare, quello che non trovi scritto lo tovi qui nalla Sezione grazie a persone esperte come Francesco.

Ricordati: ognuno di noi potrebbe mettere un tassello mancante al posto giusto ;)

Ciao Pietro

Grazie Pietro per l'incoraggiamento, ma tra lavoro,

responsabilità familiari e altre cose importanti, il tempo

è quello che è purtroppo... ma complimenti anche a te!

Immagino che a scuola ti coprirai di gloria! :)

Fabrizio, questa me la devi spiegare perchè è bella. :lol:

Vabbè che Pietro è ragazzo, però mi sembra un po' cresciutello per sedere ancora tra i banchi di scuola. :P

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QUOD VIS, il minaccioso motto presente sugli scudi e mezzi scudi di Filippo III del 1617: siamo certi che si riferisse alle minacce di guerra alla Serenissima Repubblica di Venezia? ;) Si tratta di un'interpretazione da sempre attribuita a questo evento bellico, personalmente avrei altre idee al riguardo, e voi?

Francè io conoscevo il motto così com'era riportato fino ai gironi nostri.....ma se ti è venuta qualche brillante idea, che potrebbe esssere qualcosa di diverso, sono qui ad attendere ulteriori sviluppi della vicenda.

E' che queste Napoletane non finiscono mai di stupirci. :)

P.S. ma perchè il salto dagli Angioini ai Filippo ? :( :(

Comunque, per chi ancora non conoscesse il motto ho deciso di darne la descrizione:

QUOD VIS

Quel che vuoi.

Motto storico di particolare interesse che si legge sugli Scudi e Mezzi Scudi di Filippo III; fatti coniare a Napoli nel 1617 dal vicerè spagnolo Don Pedro Tèllez y Giron, Duca di Ossuna; le monete presentano al dritto il busto di Filippo III di Spagna con la legenda PHILIPP:III DG:REX e al rovescio troviamo raffigurata un'aquila recante negli artigli un ramo d'olivo e un fulmine, con la legenda, appunto, QVOD VIS.

Nell'epoca di cui parliamo infuriava la guerra fra Venezia e gli Austriaci; il Duca di Ossuna, tenacemente ostile alla Serenissima, inviò alcune navi da guerra a sostegno di questi ultimi; in seguito alle trattative di pace, fu battuto il Ducato e il Mezzo Ducato.

L'iconografia e la legenda del rovescio delle monete richiamano esattamente alla sua coniazione:

l'Aquila simbolo regale, offre si nemici della Spagna due alternative, l'olivo, cioè la pace e la saetta, ovvero la guerra, accompagnati dall'eloquente invito "Quod vis" (Ciò che vuoi). Tanta minacciosa arroganza, cioè pronto a fronteggiare entrambi gli eventi, sia la pace che la guerra, collima perfettamente con la personalità di chi le fece coniare, il Duca di Ossuna.

Modificato da peter1
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Ma chi era questo personaggio.

Per saperne di più ho rispolverato la discussione di Francesco rimasta da parte sulle "Biografie dei Sovrani e Vicerè di Napoli e Sicilia"

nella speranza che qui si continui a postare solo legende sulle monete Napoletane.

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QUOD VIS, il minaccioso motto presente sugli scudi e mezzi scudi di Filippo III del 1617: siamo certi che si riferisse alle minacce di guerra alla Serenissima Repubblica di Venezia? ;) Si tratta di un'interpretazione da sempre attribuita a questo evento bellico, personalmente avrei altre idee al riguardo, e voi?

QUOD VIS, il minaccioso motto presente sugli scudi e mezzi scudi di Filippo III del 1617: siamo certi che si riferisse alle minacce di guerra alla Serenissima Repubblica di Venezia? ;) Si tratta di un'interpretazione da sempre attribuita a questo evento bellico, personalmente avrei altre idee al riguardo, e voi?

Francè io conoscevo il motto così com'era riportato fino ai gironi nostri.....ma se ti è venuta qualche brillante idea, che potrebbe esssere qualcosa di diverso, sono qui ad attendere ulteriori sviluppi della vicenda.

E' che queste Napoletane non finiscono mai di stupirci. :)

P.S. ma perchè il salto dagli Angioini ai Filippo ? :( :(

QUOD VIS, il minaccioso motto presente sugli scudi e mezzi scudi di Filippo III del 1617: siamo certi che si riferisse alle minacce di guerra alla Serenissima Repubblica di Venezia? ;) Si tratta di un'interpretazione da sempre attribuita a questo evento bellico, personalmente avrei altre idee al riguardo, e voi?

Francè io conoscevo il motto così com'era riportato fino ai gironi nostri.....ma se ti è venuta qualche brillante idea, che potrebbe esssere qualcosa di diverso, sono qui ad attendere ulteriori sviluppi della vicenda.

E' che queste Napoletane non finiscono mai di stupirci. :)

P.S. ma perchè il salto dagli Angioini ai Filippo ? :( :(

Comunque, per chi ancora non conoscesse il motto ho deciso di darne la descrizione:

QUOD VIS

Quel che vuoi.

Motto storico di particolare interesse che si legge sugli Scudi e Mezzi Scudi di Filippo III; fatti coniare a Napoli nel 1617 dal vicerè spagnolo Don Pedro Tèllez y Giron, Duca di Ossuna; le monete presentano al dritto il busto di Filippo III di Spagna con la legenda PHILIPP:III DG:REX e al rovescio troviamo raffigurata un'aquila recante negli artigli un ramo d'olivo e un fulmine, con la legenda, appunto, QVOD VIS.

Nell'epoca di cui parliamo infuriava la guerra fra Venezia e gli Austriaci; il Duca di Ossuna, tenacemente ostile alla Serenissima, inviò alcune navi da guerra a sostegno di questi ultimi; in seguito alle trattative di pace, fu battuto il Ducato e il Mezzo Ducato.

L'iconografia e la legenda del rovescio delle monete richiamano esattamente alla sua coniazione:

l'Aquila simbolo regale, offre si nemici della Spagna due alternative, l'olivo, cioè la pace e la saetta, ovvero la guerra, accompagnati dall'eloquente invito "Quod vis" (Ciò che vuoi). Tanta minacciosa arroganza, cioè pronto a fronteggiare entrambi gli eventi, sia la pace che la guerra, collima perfettamente con la personalità di chi le fece coniare, il Duca di Ossuna.

......E qui stiamo aspettando con ansia :o :o

Modificato da peter1
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  • 4 settimane dopo...

Ardisco rispondere allo splendido invito Fedafa, sperando di non imbrattare una discussione tanto solenne con le mie banali farneticazioni, proponendo un tipo piuttosto trascurato della monetazione partenopea, e che invece a mio giudizio offre spunti di grande interesse. Mi riferisco alla divisionale da 20 e 10 grana con la legenda PROPAGO IMPERII emessa dalla zecca di Napoli nel 1716.

KarlVI_tar1716.jpg

Tra gli innumerevoli spunti che offre questa moneta, come accennavo, ve ne sono diversi e ragguardevoli: la sistematica ripresa di questa particolare tipologia commemorativa, che diventerà un "tormentone" per tutto il XVIII secolo; la connessione di una commemorazione, all'apparenza banale e di scarso rilievo storico, con fatti ben più gravi e significativi che squassavano il precario equilibrio europeo del tempo; un ardito accostamento tra il significato epigrafico del motto e quello iconico della figurazione allegorica; e, non da ultimo, i tanti episodi della numismatica e della medaglistica che a tali eventi e tipologie possono essere accostati. Lungi dal pensare di poterli esaurire, spero servano da alimento ad auspicabili approfondimenti ed integrazioni.

I due nominali argentei si presentano pressoché identici, variando soltanto il diametro e il peso, oltre a minuscoli dettagli nelle effigi. Al diritto, sotto i busti accollati di Carlo VI dAsburgo e della sua consorte Elisabetta Cristina di Braunschweig-Wolfenbuettel si leggono le iniziali del reggente della zecca, Giuseppe Basile (G. B.), da poco subentrato (marzo 1716) a Mattia De Franco. Interessante rilevare che le iniziali di questo Maestro reggente si riscontrano solamente su questa emissione, sul carlino regolamentare coniato nello stesso anno, e su una prova da un grano, datata 1719, mai immessa in circolazione. Segue liniziale A. del maestro di prova, il veterano Antonio Ariani. Nel taglio della spalla, è possibile vedere la caratteristica sigla (IM in monogramma) dellincisore dei conii Giovanni di Montemein, al pari di Ariani unistituzione dei tempi gloriosi di Don Gasparo de Haro.

Ma è il rovescio ad attrarre invariabilmente tutta lattenzione. Qui sotto il motto Propago Imperii e sulla data posta in basso ai lati (17 / 16) vediamo una figura muliebre, munita di corazza, lancia ed elmo piumato, che sostiene un bambino ignudo su due cannoni decussati, da cui si irradia un ventaglio di armi e stendardi, un cumulo di trofei bellici.

La moneta commemora infatti (e solo apparentemente in modo esclusivo) la nascita, nellaprile del 1716, del primogenito della coppia imperiale, larciduca Leopold Johann. Gli esemplari coniati con queste caratteristiche erano infatti destinati ad essere gettati alla folla nel corso della solenne cavalcata del viceré in commemorazione del fausto evento.

Modificato da JunoMoneta
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La legenda propago imperi(i) (= discendenza dellimpero) è ripresa da un denario emesso sotto Settimio Severo a nome della nuora Fulvia Plautilla, per commemorare le sue nozze con Marco Aurelio Antonino, detto Caracalla, erede designato dal padre a succedergli nellimperio. Le nozze furono infatti celebrate nel 202, quando Caracalla era ancora Cesare. La moneta mostra al rovescio i due sposi che si stringono la mano. A dispetto dellarmoniosa rappresentazione, le nozze della povera Plautilla con il violento Caracalla non furono felici: il futuro imperatore dapprima la ripudiò esiliandola a Lipari e, poco dopo la sua investitura imperiale, la fece uccidere (212).

Plautilla_denarius.jpg

Il piccolo denario dargento, con la sua modesta ma ingegnosa figurazione, fungerà da motivo ispiratore per uno degli inarrivabili capolavori della medaglistica francese, a detta di molti IL capolavoro di uno dei suoi massimi esponenti, Guillaume Dupré. La folgorante invenzione di Dupré nasce dalla volontà di commemorare la nascita, avvenuta nel 1601, del delfino di Francia, futuro Luigi XIII, dallunione in seconde nozze del re di Francia Enrico IV di Borbone con Maria de Medici. Duprè inserisce al diritto i busti accollati dei sovrani abbigliati in gran pompa. E si riserva il rovescio per inscenare un dotto travestimento, dove i sovrani ricompaiono a figura intera, trasfigurati da Marte e Minerva che si stringono la mano, in una postura che ricorda il denario romano. Torna infatti anche la nota legenda.

http://historicalartmedals.com.c25.sitepreviewer.com/MEDAL%20WEB%20ENTRIES/FRANCE/DUPRE/DUPRE-HENRI%20IV%20&%20MARIE%20DE%20MEDICI-BW529.htm

Ma il genio di Dupré supera la banale citazione erudita a e linerte magniloquenza encomiastica inserendo, tra i due sovrani / dei, il paffuto pargolo di appena due anni che si appoggia appunto ad un delfino, mentre goffamente tenta di indossare (a rovescio!) il pesante elmo istoriato del padre / dio, che intanto sorride bonario sopra di lui. Su questa scena familiare, quasi proto-borghese nella divertita complicità dei protagonisti, piomba grifagna unaquila a recare lemblema del potere regale, armoniosamente decentrata, quasi a fare il paio con la coda guizzante del delfino. Di questa superba medaglia ha detto bene Jean Babelon (La médaille en France, Larousse 1948, p. 41): Cette médaille fut saluée comme un chef-doeuvre, parce que lallegorie ny paraissait plus froide et guindée, mais inspirée par une vraie joie, et cette bonne humeur qui fut celle du roi Henri. La medaglia piacque infatti tanto al re, che non autorizzò mai altri incisori a produrne delle copie, ma solo il Dupré nel 1606 poté lavorarne una versione ingrandita e resa ancora più maestosa.

Il salto di oltre mille anni tra il denario e la medaglia tradisce unanalogia di fondo. Il Borbone, come il capostipite dei Severi sul Palatino, si sentiva piccolo e inquieto nella residenza del Louvre, da poco ridisegnata ed ampliata. In entrambi i casi, si trattava di parvenus da poco ascesi al massimo grado di un ordinamento monarchico antico e denso di insidie. Se limperatore libico subentrava alla confusione seguita allestinzione della dinastia antonina, dilaniata dagli eccessi di Commodo, il Borbone era un ex ugonotto del ramo provinciale della stirpe reale di Francia, che scendeva dai Pirenei alla conquista della capitale nella temperie delle guerre religiose e dei bagni di sangue che stavano dissipando gli ultimi Valois-Angouleme. Senza un buon matrimonio e un erede entrambi si sentivano mancare la terra da sotto i piedi.

Se lex generale africano salutava dunque con gioia lunione del figlio maggiore con la figlia di un suo compatriota, divenuto senatore e prefetto del pretorio, la felicità di ricevere in dono un erede maschio da una purosangue del gotha europeo non doveva mancare anche al buon Enrico. In entrambi i casi, tanto bastava per sentirsi un po più al sicuro su un trono che scotta: propago imperi, appunto, e forse riusciamo a dormire la notte…

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Cosa abbiano in comune questi aristocratici “parvenus” con Carlo VI, rampollo purosangue di una dinastia con già 500 anni e passa di storia imperiale alle spalle, è apparentemente meno chiaro. Ma se agli Asburgo non mancava certo il pedigree, era forse un eccesso di sangue blu nelle vene a costituire motivo di preoccupazione. La morte di Carlo II, congiunto del ramo spagnolo, aveva gettato l’Europa nel più completo marasma geopolitico, e questo proprio per l’incapacità del monarca, distillato genetico di pericolose unioni tra congiunti, di generare una discendenza. In più l’infelice monarca spagnolo aveva designato come erede il nipote di suo cognato Luigi XIV, piuttosto che prediligere i cugini austriaci di stirpe imperiale. Ed ai Borboni di Francia, è risaputo, non era mai mancata la benedizione di una incondizionata fertilità. Una fertilità che invece cominciava a dare segni di sfinimento alla corte di Vienna, motivo bastante per guardare a Parigi con odio ancora più feroce, rosi dall’invidia. La questione della successione spagnola era cominciata nei gabinetti dei giureconsulti con dotte perorazioni filoaustiache come la Défense du droit de la Maison d’Autriche à la succession d’Espagne, per precipitare fatalmente in una pericolosa guerra che aveva gettato l’Europa nel caos.

Se il padre di Carlo VI, l’imperatore Leopoldo, pur sposando una nipote, aveva perseverato tra tante morti premature, lasciando due eredi maschi, la riuscita del fratello maggiore Giuseppe, che sarebbe divenuto imperatore a sua volta dopo la morte del padre, non faceva ben sperare. Questi aveva potuto offrire alla causa dinastica solo due figlie femmine, tanto che prima di morire il previdente Leopoldo, con il Pactum Mutuae Successionis (1703), aveva derogato alla Legge salica, introducendo la successione femminile in caso che i due eredi maschi non avessero sfornato a loro volta dei piccoli arciduchi. Alla morte dei suoi figli maschi, la successione sarebbe dunque passata alle sue figlie femmine e alle figlie dei suoi figli in rigorosa successione. L’unico figlio di Giuseppe era morto in fasce nel 1701. Alla morte dell’imperatore Giuseppe I nel 1711 la successione all’impero era quindi passata al fratello minore Carlo, che in quel momento si era precariamente insediato sul trono di Spagna col nome di Carlo III, e aveva pure acquisito (1707) i possedimenti italiani della corona spagnola, strappandoli a Filippo di Borbone.

Disperando anche Carlo di poter avere un erede maschio, il nuovo imperatore aveva però segretamente sottoscritto un colpo di mano: con la Prammatica Sanzione del 1713, modificava ulteriormente il Pactum leopoldino, riservando la successione soltanto ai suoi diretti eredi, maschi o femmine che fossero, escludendo le figlie di suo fratello Giuseppe, ancora in vita.

Carlo non si aspettava ancora l’erede tanto sospirato, che sarebbe nato appunto il 13 aprile del 1716, un martedì dopo la Pasqua, dopo otto anni di matrimonio con la bellissima Elisabetta Cristina. Oltre al titolo di arciduca, all’erede fu impartito anche quello di principe delle Asturie, in quanto Carlo, pur avendo riconosciuto il precedente anno la sovranità di Filippo di Borbone sulla Spagna e sui territori americani con la ratifica del Trattato di Rastadt, non aveva completamente digerito l’amaro boccone e manteneva ancora delle pretese sulla corona perduta.

Con la nascita di questo erede sia il Pactum di Leopoldo che la ben più controversa Prammatica Sanzione erano divenute inutili precauzioni, e ogni possibile futura querela era cancellata con un colpo di spugna. Per festeggiare il tanto atteso evento, furono approntati solenni festeggiamenti ai quali concorse la produzione di numerosi pamphlet popolari, volti ad inculcare nella popolazione viennese un ingenuo sentimento di giubilo:

http://www.onb.ac.at/sammlungen/siawd/19189.htm

Alla zecca di Vienna furono emesse numerose medaglie, con motti ed allegorie che gareggiavano per trionfalismo ed entusiasmo:

http://www.dhm.de/magazine/medaillen/medaillen_simple/10geburt.htm

http://www.mcsearch.info/record.html?id=419620

http://www.mcsearch.info/record.html?id=454514

http://www.mcsearch.info/record.html?id=72057

http://www.mcsearch.info/record.html?id=72060

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Solo la zecca di Napoli provvederà tuttavia all’emissione di un’apposita divisionale di spiccioli da distribuire alla folla in festa, e questa prassi segue una tradizione ormai consolidata nel vicereame italiano, già fatta propria dallo stesso Carlo all’ingresso degli austriaci in Napoli con i carlini FIDE ET ARMIS (1707). Del resto era vicerè di Napoli in quel tempo il conte di Teano Wirich Philipp von Daun, Feldmarschall di Carlo al tempo della conquista di Napoli, e già protagonista dei fatti del 1707.

La felicità sarebbe stata tuttavia di breve durata, in quanto Leopoldo Giovanni morirà a soli sette mesi nel novembre di quello stesso 1716 e verrà sepolto tra i suoi avi nella “Cappella dei Cappuccini”:

http://www.findagrave.com/cgi-bin/fg.cgi?page=pv&GRid=8875178&PIpi=23909081

Le monete napoletane riprendono dunque il motto del denario romano, e citano al contempo la geniale invenzione di Dupré, con i busti accollati dei sovrani al diritto e quella figura bellicosa con la lancia e il bambino in braccio. Ma quest’ultima personificazione, interpretata dalla maggioranza dei commentatori come la dea romana della guerra Bellona, e circondata da strumenti di distruzione, non si sposa troppo bene all’idea di un felicissimo parto, se non si prende in considerazione la situazione estremamente delicata in cui si trovava il Regno di Napoli in quell’aprile del 1716.

Le tumultuose vicende della guerra di successione spagnola si erano appena concluse con la ratifica dei trattati di Utrecht (1713) e Rastadt (1714) e certamente il ricordo del fragore delle armi doveva essere impresso nelle popolazioni di mezza Europa, e quelle napoletane non facevano certo eccezione. Ma sul Regno di Napoli tornava a pesare una nuova minaccia, se possibile ancora più spaventosa.

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Alla fine del 1714 il sultano Ahmed III, profittando del logoramento delle potenze europee nella guerra di successione spagnola, ruppe con un pretesto la tregua sancita con i veneziani nella pace di Karlowitz (1699) passando il Bosforo con uno sterminato esercito e minacciando la Morea (Peloponneso), ceduta ai veneziani a seguito di quella pace. Nel corso del 1715, la sterminata armata ottomana, che secondo il Muratori poteva contare su circa 150 mila uomini sotto il comando del visir Silahdar Damat Ali Pasha, aveva strappato ai veneziani tutte le fortezze della Morea e i presidi sulle isole dell’Egeo. La minaccia della Sublime Porta sui principati cattolici d’Europa era palpabile, e la memoria dei terribili assedi di Vienna e Buda (1683-85) era ancora viva nella mente di molti. Il pontefice Clemente XI si mosse invocando gli aiuti divini, imponendo una contribuzione al clero, inviando sussidi ai veneziani, ai maltesi e ai polacchi e scrivendo lettere di esortazione alle cancellerie di tutti i principi cattolici, con particolare insistenza per la maestà cesarea dell’imperatore.

Carlo VI infatti tentennava, perché temeva un intervento di sorpresa degli odiati franco-spagnoli sui territori italiani mentre il grosso del suo esercito era impegnato in forze su un fronte lontano. Finalmente, mosso dalla promessa del papa di garantire la sicurezza dei domini italiani, proprio quel 13 aprile 1716, mentre sua moglie dava alla luce il tanto sospirato erede, l’imperatore rinnovava l’alleanza con la Serenissima, dichiarando guerra al sultano. L’esercito cesareo, posto sotto il comando del veterano Eugenio di Savoia, mosse quindi dall’Ungheria verso i confini dell’impero e si scontrò il 5 agosto con l’esercito ottomano a Petrovaradin, in Serbia, riuscendone vittorioso.

Intanto la flotta ottomana sciamava nelle isole ionie, a pochi nodi di mare dall’estremità pugliese del Regno di Napoli. Dopo aver preso l’isola di Leucade e il forte di Butrinto, il 19 luglio iniziò ad assediare l’importante roccaforte veneziana di Corfù, dove erano rimasti ottomila uomini sotto il comando del generale Matthias von der Schulenburg. Dopo 22 giorni di assedio da parte di 30.000 uomini da Butrinto, la flotta ottomana si ritirò, anche grazie ad una provvidenziale tempesta scoppiata in mare e allo scompiglio provocato dalla notizia della rotta dell’esercito stanziato in Serbia. Il senato veneziano fece erigere nella roccaforte una statua del conte von Schulenburg e commissionò ad Antonio Vivaldi un’opera che commemorasse l’eroica resistenza di Corfù: il suo genio partorì la Juditha Triumphans.

http://www.youtube.com/watch?v=YLAdvqkab60

Nell’ottobre dello stesso anno, Eugenio di Savoia recuperava agli imperiali l’importante roccaforte di Timisoara in Romania. Ma il bilancio effettivo dell’ultima grande guerra turco-veneziana (1714-18) segnerà l’eclissarsi della potenza veneziana sul Mediterraneo orientale. Dopo le battaglie di Imbros e di Capo Matapan (1717) i veneziani persero definitivamente il controllo dell’Egeo, di Creta e del Peloponneso, mantenendo solo alcune isole ionie, Preveza e Arta nell'Epiro, e la Dalmazia. Il trattato di Passarowitz (1718) sanciva questa ineluttabile eclissi, mentre ingrandiva la potenza degli Asburgo, che annettevano il Banato di Timisoara, quasi tutta la Serbia, parte della Bosnia e della Valacchia.

La piccola serie di carlini e tarì, con il suo motto in un rapporto così irrisolto con l’immagine allegorica, ci racconta quindi molto più di quanto apparentemente vuole asserire. Ci dice che, in tempi bellicosi, un principe nasce su un cumulo di armi e dovrà saperle usare se vuole conservare intatti i suoi domini.Con quell'evocazione ambigua di fertilità e distruzione ("Bellona fecunda" la definiva l'apposito dispaccio per questa coniazione, rilevando l'ossimoro implicito) ci ricorda una giornata in cui nacque un arciduca sfortunato e si diede inizio ad una guerra dall'esito incerto.

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:clapping: :clapping: Bravo Giuseppe in queste giornate di ferragosto ci hai dato veramente tanto da leggere e studiare.

Speriamo che riesco a trovare qualcosa per farti delle domande :P

Ma la moneta è tua ? Se è tua complimenti.

Hai notato !.........cosa gli esce dalla bocca e gli cola sotto il mento ad Elisabetta ? :o

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Scusami Giuseppe, ma devo farti subito una domanda.

Se ho capito bene e correggimi se sbaglio, hai scritto che si leggono le iniziali del reggente della zecca, Giuseppe Basile (G. B.), da poco subentrato (marzo 1716) a Mattia De Franco. Interessante rilevare che le iniziali di questo Maestro reggente si riscontrano solamente su questa emissione, essendo assenti dal carlino “regolamentare” coniato nello stesso anno, se si eccettua una prova da un grano, datata 1719, mai immessa in circolazione.

Ma io le iniziali GB A le ho viste anche sul Carlino, potresti controllare meglio (o forse ho capito male).

Modificato da peter1
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Hai notato !.........cosa gli esce dalla bocca e gli cola sotto il mento ad Elisabetta ? :o

Avrà preso freddo...esce poco la sera. ;)

Sarebbe bello vedere qualche carlino dello stesso tipo in una buona foto o scansione. Non se ne vedono tanti in giro, eppure ci sono tante piccole differenze che permettono di distinguere i tarì dai carlini in questa emissione priva dell'indicazione del valore.

Ma, per restare fedeli alle intenzioni del grande Fedafa si dovrebbe anche prendere in esame l'allegoria. L'interpretazione che ho dato (apprensione dinastica + angoscia bellica) non è la sola possibile, e magari saltano fuori altre tipologie di diverse monetazioni che presentano aspetti figurativi analoghi, inclusa la medaglistica.

Poi ci sarebbe la medaglia di Dupré. Io ne sono innamorato cotto. Sarebbe interessante conoscerne altri segreti dai tanti esperti in medaglistica, e avere il tuo illuminato parere, come nel caso della medaglia di Murat, il cui thread mi ha molto appassionato.

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