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Bardi / Compiano


Risposte migliori

La distinzione tra moneta piccola e moneta grossa non è riferita né all'area di circolazione né alla dimensione della moneta stessa.

La moneta grossa restava immutabile nel tempo e nello spazio

La moneta piccola si svaluta nel tempo e cambia ad ogni successiva emissione

Ti confesso che non avevo mai pensato ai termini "moneta grossa" e "moneta piccola" in questo senso. Tu come definiresti allora le espressioni "moneta reale" e "moneta plateale" o "moneta erosa"? Noi viviamo in un'epoca di monetazione puramente fiduciaria e abbiamo certamente perso la familiarità con tutta una serie di concetti...

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Sono andato a consultare per maggior precisione il Martinori (E. Martinori, La Moneta. Vocabolario generale, Roma 1914 (Rist. Roma 1977))

Moneta erosa (Aerosa)

Si dice della moneta che è legata con il rame ed in genere, con lega di altro metallo vile.

Io ho trovato il termine per la prima volta nella grida datata Parma 18 marzo 1785, riferito ai seguenti nominali: Lira, mezza Lira, e Sesini di Parma; Buttalà,, mezzo Buttalà, e Sesini di Piacenza.

Ti dirò che per me è stata una sorpresa veder citati anche i sesini che, dal tempo di Odoardo (1622) erano di puro rame.

Infatti per me, moneta erosa, è sinonimo di biglione (lega di due metalli) il termine che individua in senso lato tutte le monete che hanno un titolo inferiore a 500 millesimi e dove il rame è in quantità superiore al metallo nobile.

Moneta plateale

Questa definizione non appare sul Martinori.

Letteralmente il termine vale moneta di piazza, e cioè il valore dato giornalmente alle monete in contrasto ed in disprezzo al valore ufficiale o di tariffa. Il valore plateale era sempre maggiore a quello legale ed era una delle concause che alimentavano l’inflazione della lira di conto.

Trascrivo una grida abbastanza emblematica che credo sia la prima su cui appare questo termine.

AVVISO

PER IL CORSO DEGLI SCUDI DI MILANO

Dalla troppo arbitraria, ed eccessiva valutazione plateale degli Scudi di Milano nella Città, e Territorio di Piacenza derivandone in quella Provincia una quantità, che si rende maggiormente copiosa dalla vicinanza al Dominio limitrofo, onde hanno tali Monete l'originaria sorgente, ha quindi determinato l'Autorità Sovrana di moderarne l'abusivo corso numerario in questi Stati colle proporzioni adequate alle rispettive Piazze della sua Dominazione, prescrivendo, ed ordinando con Lettera della Regia Segretarìa in data del 15 del corrente riportata agli Atti di questa Cancellerìa Camerale che dal giorno della pubblicazione del presente Avviso sia, e debba intendersi fissata la comune valutazione, e limitato il corso numerario degli Scudi, e mezzi Scudi di Milano in ragione di lire diciotto per ciascheduno Scudo intiero nella Città e Stato di Parma; dì lire quindici nella Città e Stato di Piacenza; e colla solita proporzione relativa alla Moneta di Parma nel Ducato di Guastalla: avvertendosi, che a questa dichiarata Ordinazione debbano esattamente attenersi e per esigenza, e per pagamento non solamente gli Amministratori delle Casse pubbliche , ma anche qualsivoglia Corpo, Collegio, e Società, e indistintamente ogni privata Persona sotto pene arbitrarie in qualunque caso di scoperta contravvenzione.

Parma 27 Settembre 1786.

Presidente, e Supremo Magistrato.

Pellegrino Ravazzoni Cancelliere.

DALLA STAMPERIA REALE.

Moneta reale

Il termine manca al Martinori.

Non credo che con questo termine ti volessi riferire alla “moneta regia” ma presumo al contrario di “moneta ideale” o “moneta di conto”.

Moneta di conto

Si dice del valore ammesso come unità ideale nei conteggi e tra commercianti e negli atti pubblici, che non è rappresentata da moneta corrente. Questa unità è basata ordinariamente sopra il valore di una unità di peso d’oro o d’argento come la Libbra, il Chilogrammo, il Rublo, il Ducato, il Fiorino, etc.

Fin qui il Martinori. In realtà la moneta ideale o moneta di conto era una moneta (di fatto non coniata) che serviva a definire tradizionalmente il prezzo dei beni e delle cose.

L’esempio più banale sono i prezzi in lire usati in età medievale quando la moneta reale era il denaro (240/ma parte della lira).

Nelle tradizioni locali si possono riscontrare delle casistiche più interessanti. A Piacenza era usanza conteggiare in scudi da 6 lire. A Parma, anche. La ragione è legata all’originario valore del ducatone che alla sua comparsa era valutato 6 lire. I conteggi continuavano ad essere fatti in scudi da 6 lire anche se il valore del ducatone era andato modificandosi nel tempo. Occasionalmente venivano coniati scudi reali da 6 lire proprio per ottemperare a questa esigenza. I successivi pezzi da 6 lire sono gli scudi di Odoardo ed il pezzo da 6 lire di Ferdinando di Borbone.

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Moneta reale

Il termine manca al Martinori.

Non credo che con questo termine ti volessi riferire alla "moneta regia" ma presumo al contrario di "moneta ideale" o "moneta di conto".

Vero, ma da quanto ho potuto capire, per "moneta reale" in certi contesti si intende la moneta il cui valore è pari all'intrinseco (cioè non a valore fiduciario, un significato che in certi casi sembra essere implicito nell'uso del termine "moneta erosa")

Sul significato di "moneta erosa" dovrebbe esserci una vecchia discussione, molto dettagliata.

Grazie per le ulteriori preziose informazioni :)

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Io non ho mai incontrato questo termine nel contesto che tu citi. Mi piacerebbe verificarne qualcuno. Puoi indicarmeli?

Trovo per altro impossibile questa affermazione. Il valore dell'intrinseco non poteva mai essere pari al valore d'emissione perchè il conteggio era fatto calcolando tutte le spese accessorie e cioè:

il costo della coniazione (carbone, ferri, costo degli operai, guadagno dello zecchiere, ecc.)

signoraggio (costo del notaio, dell'assaggiatore, ecc.)

Aggiunti questi costi al valore dell'intrinseco si aveva il valore d'emissione.

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Sul tema della Moneta Grossa e della Moneta Piccola nel Medioevo e' interessante la lettura del III Capitolo dell' opera di Carlo M. Cipolla Moneta e civilta' meditterranea 1957 Neri Pozzi Editore Venezia

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Modificato da piergi00
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Sul tema della Moneta Grossa e della Moneta Piccola nel Settecento e' interessante la lettura di un paio di pagine del III Capitolo dell' opera di Carlo M. Cipolla Le avventure della lira -Edizione di Comunita' Sancasciano (Firenze) 1958

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Io non ho mai incontrato questo termine nel contesto che tu citi. Mi piacerebbe verificarne qualcuno. Puoi indicarmeli?

A meno di cattiva memoria, posso citare il libro "MONETA PONTIFICIA" di S. Balbi de Caro e L. Londei ed. Quasar, oltre a vari articoli della stessa autrice, di cui uno letto proprio in questi giorno nel volume "BONONIA DOCET", catalogo di una mostra del 1988 per il IX centenario dell'Università di Bologna, edito come supplemento al Bollettino dell'IPZS. Ho la sensazione peraltro che non ci sia completa coerenza sulla definizione di questi termini né tra gli autori dell'epoca né tra quelli moderni.

Trovo per altro impossibile questa affermazione. Il valore dell'intrinseco non poteva mai essere pari al valore d'emissione perchè il conteggio era fatto calcolando tutte le spese accessorie e cioè:

il costo della coniazione (carbone, ferri, costo degli operai, guadagno dello zecchiere, ecc.)

signoraggio (costo del notaio, dell'assaggiatore, ecc.)

Aggiunti questi costi al valore dell'intrinseco si aveva il valore d'emissione.

Non mi è chiaro, a meno che non facciamo riferimento a periodi storici diversi in cui agivano meccanismi diversi. Le spese accessorie da te citate, a quanto mi risulta, venivano recuperate dallo zecchiere tramite l'aggio sulla coniazione: se la tale moneta era prevista battersi (per dire) a 100 pezzi al marco, quando il mercante X portava a coniare un marco d'argento gli venivano resi (sempre per dire) 99 pezzi, uno rimaneva allo zecchiere. L'aggio sulla coniazione era in genere stabilito nello stesso contratto di appalto della zecca. Di conseguenza, se ho ben capito, una volta che la moneta era "estratta" dalla zecca il suo potere d'acquisto, nel caso della "moneta reale" di cui scrivevo sopra, era pari (in linea di massima) al suo contenuto di fino. Questo ovviamente a meno di variazioni dovute al mercato, in quanto la moneta, essendo oltre a tutto il resto anche un pezzo di metallo prezioso, era essa stessa una merce e quindi diversi "prodotti" potevano essere più o meno apprezzati. Esempio: la piastra pontifica (valore nominale 100 baiocchi) arrivò ad essere tariffata fino a 105 baiocchi, in virtù del fatto di essere un nominale particolarmente apprezzato e prestigioso.

Qui di seguito il link alla discussione sulla moneta erosa che citavo prima:

http://www.lamoneta....77-moneta-erosa

Ho provveduto a mettere la presente discussione in evidenza :)

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Il valore dell'intrinseco non poteva mai essere pari al valore d'emissione perchè il conteggio era fatto calcolando tutte le spese accessorie e cioè:

il costo della coniazione (carbone, ferri, costo degli operai, guadagno dello zecchiere, ecc.)

signoraggio (costo del notaio, dell'assaggiatore, ecc.)

Aggiunti questi costi al valore dell'intrinseco si aveva il valore d'emissione.

Un cenno su questo tema e' reperibile in questa ennesimo testo di CIPOLLA CARLO M. / IL GOVERNO DELLA MONETA A FIRENZE E A MILANO NEI SECOLI XIV-XVI BOLOGNA IL MULINO 1990

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Ringrazio anch'io Piergi per aver riportato questi estratti del grande maestro Cipolla, i cui scritti hanno sempre quella chiarezza illuminante che può derivare solo dall'unione dei massimi livelli di passione e di competenza. Segnalo nel post #80 e segg. la spiegazione di come i termini "moneta piccola" e "moneta grossa" avessero un significato ben diverso in epoca medievale e in epoca moderna.

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Mi rendo conto che stiamo abbandonando pian piano il tema principale di questo forum che era la monetazione dello Stato Landi.

Ma la discussione mi sembra che si stia facendo molto interessante anche se si è pian piano spostata verso la “storia economica”.

In realtà anch’io devo constatare che non c’è completa coerenza sulla definizione di questi termini né tra gli autori antichi né tra quelli moderni.

Cito subito un esempio:

Ho aperto a casaccio, dopo la tua segnalazione, il volume della De Caro sulla “Moneta pontificia”. Pag. 101, fine del paragrafo 3°: “Nello stesso 1746 si ripropose il problema della moneta di mistura: … (omissis)… ad avanzare istanze per la concessione del diritto di battere monete di rame e/o di mistura, vale a dire la c.d. moneta “plateale”.

E’ la prima piccola perla. Spero che si sia trattato di un involontario refuso poiché anziché usare il corretto termine “erosa” ha usato “plateale” che (per me) significa un’altra cosa.

Devo però, per onestà intellettuale, dopo una seconda apertura casuale, constatare che a pag. 260, nella trascrizione di un documento ufficiale del 30 dicembre 1801, capo 9, prima riga si legge testualmente “Per quello poi, che concerne la così detta Moneta di Biglione, ossia Plateale, …”, che mi fa supporre che il termine fosse usato per indicare, non la quotazione abusiva della moneta, ma “la moneta erosa circolante sulla piazza”. Spero per i romani che nelle loro tasche “in platea” ci fosse stato anche qualche pezzo d’oro, o quantomeno d’argento”.

Io proporrei di documentare le nostre affermazioni non con le citazioni di altri autori, che potrebbero aver presi abbagli più grossi dei nostri, ma con documentazione originale (documenti di zecca, gride, leggi, ecc.).

Mentre scrivo mi è venuta l’idea di proporre anche la creazione di un fondo archivistico digitale dove collocare una documentazione che possa essere da tutti utilizzata. E potrei contribuire con un corposo file, contenente la trascrizione integrale di tutte le gride pubblicate nel Ducato di Piacenza in materia di circolazione monetaria (comprese quelle pubblicate a Parma dopo l’unificazione dei sistemi monetari (22 marzo 1795).

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Mentre scrivo mi è venuta l’idea di proporre anche la creazione di un fondo archivistico digitale dove collocare una documentazione che possa essere da tutti utilizzata. E potrei contribuire con un corposo file, contenente la trascrizione integrale di tutte le gride pubblicate nel Ducato di Piacenza in materia di circolazione monetaria (comprese quelle pubblicate a Parma dopo l’unificazione dei sistemi monetari (22 marzo 1795).

Uh, gran cosa questa. Lo spazio dove porre questo archivio ci sarebbe già, visto che Incuso ha già un notevole archivio pubblico disponibile per tutti dove ha raccolto la versione digitale di varie opere numismatiche ormai di libero dominio. I file potrebbero essere messi a disposizione di tutti nel medesimo spazio.

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Mentre scrivo mi è venuta l'idea di proporre anche la creazione di un fondo archivistico digitale dove collocare una documentazione che possa essere da tutti utilizzata. E potrei contribuire con un corposo file, contenente la trascrizione integrale di tutte le gride pubblicate nel Ducato di Piacenza in materia di circolazione monetaria (comprese quelle pubblicate a Parma dopo l'unificazione dei sistemi monetari (22 marzo 1795).

Ottima iniziativa :)

Un simile lavoro si sta gia' attuando lentamente per gli editti e i decreti del Regno di Sardegna e del Regno D' Italia :

http://www.lamoneta....tico-1796-1861/

http://www.lamoneta....tico-1861-1943/

Modificato da piergi00
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Spero per i romani che nelle loro tasche "in platea" ci fosse stato anche qualche pezzo d'oro, o quantomeno d'argento".

Temo che in quei tempi, vista l'insistenza della Camera a continuare la battitura dell'argento alla purezza di undici once, di argento fino nelle tasche dei romani ne circolasse davvero poco. Infatti s'involava sistematicamente per l'estero dove veniva fuso e riconiato a purezza inferiore :D

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In che formato? Word o PDF? A chi o dove lo spedisco? Lo devo allegare al prossimo messaggio?

In formato Word è 1705 Kb.

Prova a mandare un messaggio privato (PM) ad Incuso, così poi ti indica lui come fare.

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  • ADMIN
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Ho già scritto mail a Pino con le indicazioni ;)

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L’emissione della moneta era una operazione economica, che non poteva avere risvolti negativi per nessuna delle parti in gioco. L’autorità emittente (e per lei la Camera Ducale, o la Camera Pontificia, ecc.) si aspettava dall’operazione, o un guadagno, o almeno un bilancio alla pari. Il Comune ed il Consiglio degli Anziani, anche. L’appaltatore, o zecchiere che dir si voglia (e che di norma era un banchiere… e questo la dice lunga), si aspettava senz’altro un bilancio di gran lunga positivo, visto che sulle sue spalle gravano tutti i costi dell’operazione, depositi cauzionali, acquisto delle materie prime (si tratta di somme ingentissime), salari agli operai, i costi degli incisori, i costi per la liberazione delle monete coniate, il salario ai commissari di zecca, agli assaggiatori, ai notai camerali, e quant’altro.

Tutti questi costi erano spalmati sulla massa delle monete che dovevano essere coniate, ed alla fine chi avrebbe dovuto pagare tutti costi dell’operazione era l’utenza finale e cioè l’utilizzatore della moneta.

Vero è che lo zecchiere che si aggiudicava un appalto, si faceva concedere anche contratti collaterali che gli potevano garantire ulteriori entrate (tipo l’esclusività del commercio dei metalli preziosi, privativa sul sale (che serviva inoltre anche ad imbianchire le monete), ed anche contratti non attinenti strettamente alla produzione di monete, come l’esclusiva del commercio degli stracci, e quanto altro riusciva a strappare ai committenti.

Per la battitura della moneta grossa, poi, c’erano pochi margini su cui giocare perché il peso ed il contenuto di fino non poteva essere alterato, sotto pena di vedersi bandire la moneta e nel qual caso a rimetterci sarebbe stato in prima persona l’appaltatore.

La maggioranza delle spese dovevano essere ricavate dalla battitura delle monete piccole il cui numero era costantemente tenuto sotto controllo (vedi sopra i vari contributi del Cipolla e altri).

Come sarebbe stato possibile materialmente emettere moneta erosa con intrinseco pari al valore nominale? Chi si sarebbe accollato le spese dell’impresa?

I guadagni dello zecchiere erano calcolati prima ancora di effettuare la gara d’appalto, e prima della firma del contratto venivano ancora ridiscussi. Questi si basavano sulla quantità di moneta minuta da coniare, e anche dai limitati e legittimi guadagni derivanti dalla battitura della moneta grossa (battuta in notevole quantità solo nelle zecche importanti come Milano, Genova, Venezia, Roma, o Firenze). Ma il grosso del guadagno doveva derivare dalla differenza di prezzo tra metallo nobile in massa e metallo monetato.

Enunciazioni diverse, mi sembrano favole metropolitane od interpretazioni di chi tenta di capire fenomeni economici complessi senza avere a disposizione tutti i dati. Non credo che il Cipolla abbia mai potuto parlare di moneta emessa con valore intrinseco pari al valore nominale.

Personalmente mi sono letto tutti i documenti sopravvissuti della zecca di Piacenza e parte di quelli di Parma. Abbiamo a disposizione quasi tutti i contratti di appalto, ma non sono di fatto di grande utilità! Sono tutti uguali! Fissano il quadro normativo e le caratteristiche tecniche e le quantità delle monete ma poi di fatto…, non venivano rispettati. Le deroghe ai capitoli erano concesse in base alle prassi in uso nella zecca di Milano e le quantità di moneta venivano richieste secondo lo necessità di giorno in giorno dal soprastante e dagli eletti sulla zecca. Di questi importanti giornali interni ne è sopravvissuto solo uno riferito alla locazione di Paolo Campi perché utilizzato in un processo contro di lui che si concluse con la risoluzione della locazione e con l’esclusione dalla gara successiva. Sono più interessanti i fogli volanti con le annotazioni dello zecchiere, o con i calcoli del computista, o la minuta del saggiatore che liberava le levate, perché riferiti a fatti contingenti e reali.

Le coniazioni per i privati erano sporadiche e non erano una fonte importante di guadagno. Se mai erano un extra per arrotondare, perché il guadagno era già compreso nella battitura. Ed infatti, ho sottomano il contratto di locazione del 3 febbraio 1589, che al capo XII recita: “Occorrendo che qualche forestiero venisse per farli fabbricare Monete così d’oro, come d’arg.to per serviggio d’altro Stato, sia lecito, a detti Cechieri fabricare tutta quella quantità di monete fine che detti Cechieri voranno come parimente le sia lecito fabbricarne alli Terrieri sendo pero d’accordo con loro, et servando pero sempre in tutte le monete come di sopra la bontà, et peso et come di s.a, et stampate che saranno non le possano licenziare, se nò prima fatto assaggio et licenziate da detti soprastanti, et in presenza et nel modo e forma, et come di sopra, et questo senza diffalco deli scuti dua miglia che hanno da battere detti cechieri come di sopra.”.

Non fissa neppure il famoso aggio percentuale che era solo un ulteriore balzello, lasciando liberi i contraenti di negoziare l’accordo (non rientriamo quindi nel caso rilevato dal Cipolla a Firenze, come fonte sussidiaria per il fisco).

Le uniche battiture effettuate per privati avvennero proprio durante questa locazione, e subito dopo.

Nel 1594 e 1595 fu concesso ad uno dei zecchieri in carica, Vincenzo Rivalta, la proroga di alcuni mesi di locazione, solo per coniare le monete richieste da alcuni banchieri intervenuti nelle Fiere dei cambi.

Se allo zecchiere fosse stato imposto di emettere moneta minuta col valore dell'intrinseco pari al valore d'emissione si sarebbe rotto l’equilibrio e sarebbe crollato tutto il sistema. La Camera Ducale e la Magnifica Comunità si sarebbero trovati senza un cespite da reputare importante, lo zecchiere sarebbe fallito, e l’indotto in crisi e senza cassa integrazione.

Questa è una battuta che spero ci rilassi un attimino. Però alcuni anni dopo (nel 1645 o 1646) Gianfrancesco Manfredi, zecchiere per i Ducati di Parma e Piacenza che non aveva alle spalle un solido patrimonio e che si era fidato di alcuni finanziatori che si aspettavano grossi guadagni immediati, in galera ci finì davvero per non essere riuscito a rispettare gli obblighi del capitolato d’appalto.

Questo stato di cose non cambiò neppure nel 1673, quando l’edificio della zecca fu acquistato dalla Camera Ducale. La fabbricazione della moneta continuò ad essere data in appalto e gli zecchieri continuarono a rincorrere il guadagno.

Discordo anche dall’interpretazione enunciata per la piastra papale. L’aumento da 100 e 105 baiocchi non è dovuto né alle sue qualità intrinseche né a quelle estetiche, che sono davvero notevolissime.

E’ sempre colpa della moneta di conto che è soggetta a rapida svalutazione. Non fa eccezione neppure il baiocco romano. Non era la piastra ad aumentare di valore, era la moneta di conto che diminuiva.

Il Filippo di Milano (qui sollevo un vespaio) nel 1609 era quotato 6 lire piacentine; 150 anni dopo, il 28 novembre 1753, ben 18 lire e 6 denari. E non credo che fosse esteticamente più bello della piastra romana.

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  • ADMIN
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La trascrizione che mi ha passato Pino è disponibile sul mio sito personale: http://incuso.altervista.org

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L’emissione della moneta era una operazione economica, che non poteva avere risvolti negativi per nessuna delle parti in gioco. L’autorità emittente (e per lei la Camera Ducale, o la Camera Pontificia, ecc.) si aspettava dall’operazione, o un guadagno, o almeno un bilancio alla pari. Il Comune ed il Consiglio degli Anziani, anche. L’appaltatore, o zecchiere che dir si voglia (e che di norma era un banchiere… e questo la dice lunga), si aspettava senz’altro un bilancio di gran lunga positivo, visto che sulle sue spalle gravano tutti i costi dell’operazione, depositi cauzionali, acquisto delle materie prime (si tratta di somme ingentissime), salari agli operai, i costi degli incisori, i costi per la liberazione delle monete coniate, il salario ai commissari di zecca, agli assaggiatori, ai notai camerali, e quant’altro.

Tutti questi costi erano spalmati sulla massa delle monete che dovevano essere coniate, ed alla fine chi avrebbe dovuto pagare tutti costi dell’operazione era l’utenza finale e cioè l’utilizzatore della moneta.

Vero è che lo zecchiere che si aggiudicava un appalto, si faceva concedere anche contratti collaterali che gli potevano garantire ulteriori entrate (tipo l’esclusività del commercio dei metalli preziosi, privativa sul sale (che serviva inoltre anche ad imbianchire le monete), ed anche contratti non attinenti strettamente alla produzione di monete, come l’esclusiva del commercio degli stracci, e quanto altro riusciva a strappare ai committenti.

Per la battitura della moneta grossa, poi, c’erano pochi margini su cui giocare perché il peso ed il contenuto di fino non poteva essere alterato, sotto pena di vedersi bandire la moneta e nel qual caso a rimetterci sarebbe stato in prima persona l’appaltatore.

La maggioranza delle spese dovevano essere ricavate dalla battitura delle monete piccole il cui numero era costantemente tenuto sotto controllo (vedi sopra i vari contributi del Cipolla e altri).

Come sarebbe stato possibile materialmente emettere moneta erosa con intrinseco pari al valore nominale? Chi si sarebbe accollato le spese dell’impresa?

I guadagni dello zecchiere erano calcolati prima ancora di effettuare la gara d’appalto, e prima della firma del contratto venivano ancora ridiscussi. Questi si basavano sulla quantità di moneta minuta da coniare, e anche dai limitati e legittimi guadagni derivanti dalla battitura della moneta grossa (battuta in notevole quantità solo nelle zecche importanti come Milano, Genova, Venezia, Roma, o Firenze). Ma il grosso del guadagno doveva derivare dalla differenza di prezzo tra metallo nobile in massa e metallo monetato.

Enunciazioni diverse, mi sembrano favole metropolitane od interpretazioni di chi tenta di capire fenomeni economici complessi senza avere a disposizione tutti i dati. Non credo che il Cipolla abbia mai potuto parlare di moneta emessa con valore intrinseco pari al valore nominale.

Personalmente mi sono letto tutti i documenti sopravvissuti della zecca di Piacenza e parte di quelli di Parma. Abbiamo a disposizione quasi tutti i contratti di appalto, ma non sono di fatto di grande utilità! Sono tutti uguali! Fissano il quadro normativo e le caratteristiche tecniche e le quantità delle monete ma poi di fatto…, non venivano rispettati. Le deroghe ai capitoli erano concesse in base alle prassi in uso nella zecca di Milano e le quantità di moneta venivano richieste secondo lo necessità di giorno in giorno dal soprastante e dagli eletti sulla zecca. Di questi importanti giornali interni ne è sopravvissuto solo uno riferito alla locazione di Paolo Campi perché utilizzato in un processo contro di lui che si concluse con la risoluzione della locazione e con l’esclusione dalla gara successiva. Sono più interessanti i fogli volanti con le annotazioni dello zecchiere, o con i calcoli del computista, o la minuta del saggiatore che liberava le levate, perché riferiti a fatti contingenti e reali.

Le coniazioni per i privati erano sporadiche e non erano una fonte importante di guadagno. Se mai erano un extra per arrotondare, perché il guadagno era già compreso nella battitura. Ed infatti, ho sottomano il contratto di locazione del 3 febbraio 1589, che al capo XII recita: “Occorrendo che qualche forestiero venisse per farli fabbricare Monete così d’oro, come d’arg.to per serviggio d’altro Stato, sia lecito, a detti Cechieri fabricare tutta quella quantità di monete fine che detti Cechieri voranno come parimente le sia lecito fabbricarne alli Terrieri sendo pero d’accordo con loro, et servando pero sempre in tutte le monete come di sopra la bontà, et peso et come di s.a, et stampate che saranno non le possano licenziare, se nò prima fatto assaggio et licenziate da detti soprastanti, et in presenza et nel modo e forma, et come di sopra, et questo senza diffalco deli scuti dua miglia che hanno da battere detti cechieri come di sopra.”.

Non fissa neppure il famoso aggio percentuale che era solo un ulteriore balzello, lasciando liberi i contraenti di negoziare l’accordo (non rientriamo quindi nel caso rilevato dal Cipolla a Firenze, come fonte sussidiaria per il fisco).

Le uniche battiture effettuate per privati avvennero proprio durante questa locazione, e subito dopo.

Nel 1594 e 1595 fu concesso ad uno dei zecchieri in carica, Vincenzo Rivalta, la proroga di alcuni mesi di locazione, solo per coniare le monete richieste da alcuni banchieri intervenuti nelle Fiere dei cambi.

Se allo zecchiere fosse stato imposto di emettere moneta minuta col valore dell'intrinseco pari al valore d'emissione si sarebbe rotto l’equilibrio e sarebbe crollato tutto il sistema. La Camera Ducale e la Magnifica Comunità si sarebbero trovati senza un cespite da reputare importante, lo zecchiere sarebbe fallito, e l’indotto in crisi e senza cassa integrazione.

Questa è una battuta che spero ci rilassi un attimino. Però alcuni anni dopo (nel 1645 o 1646) Gianfrancesco Manfredi, zecchiere per i Ducati di Parma e Piacenza che non aveva alle spalle un solido patrimonio e che si era fidato di alcuni finanziatori che si aspettavano grossi guadagni immediati, in galera ci finì davvero per non essere riuscito a rispettare gli obblighi del capitolato d’appalto.

Questo stato di cose non cambiò neppure nel 1673, quando l’edificio della zecca fu acquistato dalla Camera Ducale. La fabbricazione della moneta continuò ad essere data in appalto e gli zecchieri continuarono a rincorrere il guadagno.

Discordo anche dall’interpretazione enunciata per la piastra papale. L’aumento da 100 e 105 baiocchi non è dovuto né alle sue qualità intrinseche né a quelle estetiche, che sono davvero notevolissime.

E’ sempre colpa della moneta di conto che è soggetta a rapida svalutazione. Non fa eccezione neppure il baiocco romano. Non era la piastra ad aumentare di valore, era la moneta di conto che diminuiva.

Il Filippo di Milano (qui sollevo un vespaio) nel 1609 era quotato 6 lire piacentine; 150 anni dopo, il 28 novembre 1753, ben 18 lire e 6 denari. E non credo che fosse esteticamente più bello della piastra romana.

Pino

complimenti per la messe di utilissime informazioni sul funzionamento delle zecche.

Sto attualmente approfondendo una tematica particolare che riguarda gli incisori e soprattutto i disegni preparatori utilizzati poi dagli incisori per approntare i coni che poi venivano utilizzati dalle maestranze per produrre le monete nelle varie zecche. Volevo chiederti se nelle tue ricerche e fondi d'archivio hai incontrato dei documenti che menzionavano collaborazioni specifiche di artisti che producevano appunto questi disegni preparatori. Nel periodo rinascimentale si conoscono diversi artisti e incisori responsabili per la preparazioni di monete famose: Benvenuto Cellini per i testoni di Alessandro de Medici oppure Leone Leoni per i ducati di Paolo III a Roma, etc. Mi domandavo se nelle tue ricerche tu ti fossi imbattuto in documenti, contratti, lettere di incarico ove si facesse specifica menzione dell'esecuzione di tali lavori e preparazione dei disegni o dei coni stessi.

numa numa

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Tutte le notizie che ho trovato sugli incisori che hanno lavorato per la zecca di Piacenza sono inserite sul volume "Zecche e monete a Piacenza" stampato nel 2007. Se non lo hai sottomano, posso farti un riassunto di queste notizie. Non ho però mai trovato disegni preparatori. Un documento che riportava un disegno, era un calcolo dello zecchiere Luca Xell per una moneta di Guastalla ma, mi pare, non citasse l'incisore.

Per quanto riguarda riguarda gli operatori che ti interessano, alcuni anni fa, avevo fatto una ricerca su le maestranze attive in zecche italiane, ed avevo messo insieme un archivio di circa 3000 schede. Ve ne sono circa 500, con nomi d'incisori, zecca e anni d'attività.

Fammi sapere.

Grazie proprio a questo archivio sono riuscito ad identificare il significato delle sigle G.O. e I.OZ. che appaiono sulle monete di Bardi e Compiano battute dallo zecchiere Nicola Gandusio.

Sono le sigle dell'incisore Giacomo Ozegni che lavorò nel 1617, per la zecca di Guastalla, nel 1622 per Compiano, da ante 1624 al 1634 per le zecche di Torino e Vercelli, nel 1625 per la zecca di Chambery e nel 1660 per Torino .

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Come sarebbe stato possibile materialmente emettere moneta erosa con intrinseco pari al valore nominale?

Sacrosanto: non sarebbe stato possibile, pena la non sostenibilità dell'intero sistema monetario. Ma temo che ancora ci sia qualche discrepanza di termini, forse dovuta al fatto che esistono fenomeni diversi riferiti a periodo storici diversi. Mi permetto di citare esplicitamente da Cipolla più sopra:

Fin'ora ho parlato della "moneta piccola" come di moneta "divisionaria". Il che è corretto fin che si parla dei secoli XVI, XVII e XVIII (...) Nei secoli del Medio Evo invece, la "moneta piccola" non fu esattamente quel che noi oggi intendiamo per "moneta divisionaria". Il suo intrinseco non era ancora così ridotto come, a seguito di un pesante processo di inflazione secolare, lo sarà nei secoli XVI, XVII e XVIII. S'aggiunga che il potere d'acquisto dell'argento era nei secoli medievali ben più alto che nei primi secoli dell'età moderna. Il livello dei prezzi e dei salari era decisamente più basso (...) Per tutte queste ragioni combinate, la "moneta piccola" durante il Medioevo ebbe un ruolo del tutto diverso da quello che ebbe nei secoli dell'Età Moderna (...) Fu la moneta del piccolo commercio, delle transazioni al minuto e il mezzo usuale di pagamento nella liquidazione dei salari (...) A fianco della "moneta piccola" correva sì la "moneta grossa" (...) ma aveva tutt'altra area di circolazione. Era la moneta dell'alta finanza e del commercio internazionale ...

Non credo che il Cipolla abbia mai potuto parlare di moneta emessa con valore intrinseco pari al valore nominale.

Certamente no, se stiamo parlando di moneta in mistura. Infatti, poco più oltre il passo sopra citato, fa l'esempio (in contesto moderno) della moneta piccola che si svaluta, il suo valore raggiungendo l'intrinseco, come effetto della messa in circolazione di una eccessiva massa monetaria. Quando parlo di moneta a valore intrinseco, faccio esclusivamente riferimento alla moneta grossa in oro e argento. Se c'è qualcosa in questo che non torna ti prego di segnalarmelo, perché evidentemente sono io che non mi accorgo dell'errore.

Le coniazioni per i privati erano sporadiche e non erano una fonte importante di guadagno.

Sono certamente d'accordo per l'epoca moderna; di nuovo dissento per l'epoca medievale. Passami l'atto di fede, dato che in questo momento non ho testi sottomano a conferma. Incidentalmente: tra gli introiti "collaterali" dello zecchiere che erano oggetto di negoziazione, segnalo anche l'esenzione dai dazi doganali.

Discordo anche dall'interpretazione enunciata per la piastra papale. L'aumento da 100 e 105 baiocchi non è dovuto né alle sue qualità intrinseche né a quelle estetiche, che sono davvero notevolissime.

E' sempre colpa della moneta di conto che è soggetta a rapida svalutazione. Non fa eccezione neppure il baiocco romano. Non era la piastra ad aumentare di valore, era la moneta di conto che diminuiva.

Rimando anche qui al testo di Balbi de Caro / Londei. Faccio presente che l'esempio della piastra era riferito a uno specifico momento storico, in cui la piastra si apprezzava del 5% circa anche rispetto agli altri nominali in argento (mezza piastra da 50 baiocchi, testone da 30 baiocchi ecc.) in virtù di caratteristiche "estrinseche" e specifiche di quel nominale. Se il fenomeno fosse dovuto a svalutazione, immagino che avrebbe dovuto interessare in modo proporzionale tutti i nominali in argento.

Ringrazio ancora tutti i partecipanti che stanno fornendo preziose informazioni, e anzi chiedo il vostro parere, se non sia il caso che io provveda a "scorporare" la parte non specificamente attinente a Bardi/Compiano aprendo una nuova discussione.

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