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Il mistero dei simboli


minerva

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- AV Aureo di Traiano, zecca di Roma, 114-116 d.C.

D/ IMP CAES NER TRAIANO OPTIMO AVG GER DAC., busto laureato e drappeggiato a destra.

R/ PM TRP COS VI PP SPQR, il Bonus Eventus stante a sinistra con patera e spighe di grano.

Rif.: RIC 268, 347var., C. 275.

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- AE Asse di Antonino Pio, zecca di Roma.

D/ ANTONINVS AVG PIVS PP TRP COS III, busto laureato a destra.

R/ BONO EVENTVI, il Bonus Eventus stante a sinistra sacrifica su un altare con una patera e regge delle spighe di grano. Ai lati S-C.

Rif.: RIC. 676, C.106.

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Grazie, Caio Ottavio, per il tuo interessante scritto sul Bonus Eventus. :)

Come scrivi giustamente, questa divinità proteggeva in particolare l'agricoltura ed era già presente nel Pantheon greco sotto i nomi di "TO AGAIHON" o di "AGATHODAEMON". A Roma gli era stato dedicato un tempio nel Campo Marzio e Plinio scrive di due statue che lo raffiguravano, una era stata scolpita da Prassitele e l'altra da Eufranore. L'iconografia presente sulle monete romane riprende proprio queste statue.

Il Buon Evento si distingueva dalla Fortuna in quanto la seconda era il nume arbitro sia delle circostanze prospere che di quelle avverse, mentre il primo solo degli eventi favorevoli e veniva invocato in modo particolare in occasione della semina.

Ringrazio anche Arka per l'interessante indicazione sull'Honos :)

Enrico :)

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- AR Denario di Commodo, zecca di Roma, 187-188 d.C.

D/ M COMM ANT - P FEL AVG BRIT, busto laureato a destra.

R/ PM TRP XIII IM-P VIII COS V PP, il Bonus Eventus stante a sinistra con patera e spighe di grano.

Rif.: RIC 167, C 532.

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- AR Denario di Pescennio Nigro, zecca di Antiochia, 193-194 d.C.

D/ IMP CAES C PESC NIGER IVS AVG COS II, busto laureato a destra.

R/ BONI E-VENTVS, il Bonus Eventus abbigliato, regge nella mano sinistra abbassata le spighe di grano, nella mano destra un cesto di frutti.

Rif.: RIC -, C. -, BMCRE p. 72.

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Questa variante iconografica del Bonus Eventus è accostabile a quest'altra presente su questo aureo di M. Aurelio come Cesare, perlatro riportata anche su alcuni conii di Antonino Pio.

- AV Aureo di Marco Aurelio come Cesare, zecca di roma, 148-149 d.C.

D/ AVRELIVS CAE-SAR AVG PII F, testa nuda a destra.

R/ TR POT III - COS II, il Bonus Eventus stante a destra regge spighe di grano e cesto di frutta.

Rif.: RIC 445Aa, C 625var. (obv. leg.)

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Modificato da Caio Ottavio
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- AE Antoninianus di Gallieno, zecca di Mediolanum.

D/ GALLIENVS AVG, busto radiato a destra.

R/ BON EVEN AVG, il Bonus Eventus stante a sinistra regge delle spighe di granoe sacrifica con una patera su di un altare ai suoi piedi. In esergo MT.

Rif.: Göbl 1391a.

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La personificazione allegorica raffigurata nell'aureo di Marco Aurelio del penultimo post è identica alla Fides Publica dei medi bronzi di Domiziano.

Questo è il RIC 486 anno 86 d.C.

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Grazie mille Minerva per il tuo intervento e per il prezioso spunto sul Serpente Agatodemone. Infatti, ho avuto modo di trattare l'iconografia e l'influsso culturale di questa figura divina già in altre mie ricerche qualche anno fa che però non hanno nulla a che vedere colla numismatica, poichè sono in ambito greco-etrusco e anche romano. Sto ancora continuando tale studio sul mondo degli etruschi, ma la sua conclusione è ancora molto lontana. :)

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La personificazione allegorica raffigurata nell'aureo di Marco Aurelio del penultimo post è identica alla Fides Publica dei medi bronzi di Domiziano.

Questo è il RIC 486 anno 86 d.C.

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Sì, è vero, FlaviusDomitianus: nella descrizione, infatti, ho trovato scritto: << Fides (Bonus Eventus)...>>, così come in questo AE Sesterzio di Antonino Pio, zecca di Roma, 139 d.C. Al D/ ANTONINVS - AVG PIVS PP, busto laureato a destra. Al R/ TR POT - COS II, Fides (Bonus Eventus) con spighe di grano in una mano e cesto di frutta nell'altra. Rif.: RIC 546, C 846.

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P.S. Bella moneta, complimenti. :)

Modificato da Caio Ottavio
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Grazie mille Minerva per il tuo intervento e per il prezioso spunto sul Serpente Agatodemone. Infatti, ho avuto modo di trattare l'iconografia e l'influsso culturale di questa figura divina già in altre mie ricerche qualche anno fa che però non hanno nulla a che vedere colla numismatica, poichè sono in ambito greco-etrusco e anche romano. Sto ancora continuando tale studio sul mondo degli etruschi, ma la sua conclusione è ancora molto lontana. :)

Questo diobolo di Domiziano, coniato ad Alessandria nell'anno 91-92 d.C. (RPC II 2637) raffigura sul retro il serpente Agathodaemon sul dorso di un cavallo che galoppa verso destra.

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Ottima segnalazione quella sulla raffigurazione della Fides oo)

La riprenderò più in là appena avrò concluso le ricerche per trattarla dal punto di vista iconografico ;) Ora mi sono impelagato con il prossimo simbolo che descriverò nei prossimi giorni :rolleyes:

Enrico :)

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Questo diobolo di Domiziano, coniato ad Alessandria nell'anno 91-92 d.C. (RPC II 2637) raffigura sul retro il serpente Agathodaemon sul dorso di un cavallo che galoppa verso destra.

Ringrazio molto FlaviusDomitianus per l'immagine di questa interessante moneta che non mi era nota.

I greci consideravano l'Agathodaemon come una divinità benevola che veniva assegnata ad ogni individuo al momento della nascita ed in questo assomiglia molto al Genius dei romani. Il dèmone greco però viene ad assimilarsi al Bonus Eventus romano in quanto era anche preposto alla protezione dell'agricoltura ed in particolare a quella dei vigneti. I greci lo celebravano versando del vino non miscelato durante i pasti ed è in questa associazione del dèmone alla pianta della vite ed alla produzione del vino che la sua resa iconografica contempla la presenza di un serpente che allude a Dioniso.

I dèmoni greci erano degli esseri che si ponevano tra il divino e l'umano e mediavano tra queste due dimensioni. E' in questa definizione dei dèmoni, che non erano quindi divinità a pieno titolo, che poteva essere contemplata, a livello di "teologia pagana", la resa figurativa dell'agathodaemon con degli attributi propri di Dioniso.

A livello sia terminologico che di definizione sono da distinguersi i demòni che sono propri della teologia biblica e che hanno valenza negativa.

Enrico :)

Modificato da minerva
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C’è un simbolo che ha valicato il succedersi del tempo ed i confini di ogni cultura volando nell’arte figurativa e posandosi nella poesia come nella prosa, splendendo di chiaro significato fino ai giorni nostri. Tanta universalità proviene dal suo esprimere una speranza propria di ogni uomo e che è quella dell’immortalità; prospettiva “che ci sia ciascun lo dice, ove sia nessun lo sa”. Il simbolo in questione è quello della fenice.

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Il mito della fenice è nato ad Heliopolis in Egitto, la città dedicata al culto del Sole. Le sue forme ed il suo significato non sono altro che una manifestazione propria della cultura dell’antico Egitto che fin dai tempi più remoti si è posta il problema di come far giungere l’uomo all’immortalità. Non è un caso, quindi, se nelle narrazioni legate alla fenice si rintracciano elementi propri dell’arte della mummificazione o del culto della divinità solare.

La Fenice, secondo la mitologia, viveva più di mille anni (Esiodo) e trascorreva la maggior parte del suo tempo in Etiopia. Il suo aspetto era meraviglioso: grande il doppio di un’aquila e con le piume iridescenti. Il suo petto aveva i colori dell’arcobaleno, ma si illuminava brillando di riflessi purpurei quando veniva accarezzato dai raggi del sole; le zampe erano di colore ocra, sul collo aveva trecce di colore zafferano mentre gli occhi splendevano d’ambra. Era l’unico della sua specie (unica avis) e quando si accorgeva che stava per giungere il momento della morte, volava lungo tutto il mondo per raccogliere rametti e resine profumate che utilizzava per costruirsi un nido che intrecciava con nardo, incenso, cassia e cardamomo. Costruiva questo grande nido in Arabia, vi si adagiava orientandosi verso il sole e battendo le ali per alimentare le fiamme che venivano a crearsi perché la fenice bruciasse. Passavano tre giorni durante i quali la fenice giaceva morta ed incenerita, tre giorni seguiti da tre notti senza luna, ma al terzo succedeva il giorno in cui nel nido compariva un nuovo pulcino che componeva un uovo di mirra nel quale racchiudeva le ceneri rimaste della vecchia fenice e si metteva in volo verso Eliopoli affinchè l’uovo di mirra venisse bruciato sull’altare del Sole, dai sacerdoti del dio. Giunto il momento del rito, un sacerdote usciva dal tempio per confrontare l’aspetto della giovane fenice con un disegno che lo rappresentava nei testi sacri e solo dopo questa verifica veniva deposta la cenere della vecchia fenice sull’altare del Sole (Erodoto di Alicarnasso ed Ecateo di Mileto). Terminata la cerimonia, la nuova fenice ripartiva per l’Etiopia dove viveva nutrendosi di perle d’incenso e rugiada. Il suo luogo abituale era nei pressi di un oscuro pozzo ricco di acqua gelida presso la quale, prima dell’alba, la fenice faceva il bagno cantando una melodia tanto bella che anche il sole di fermava ad ascoltarla prima di sorgere per il nuovo giorno (Tacito). Il canto della fenice dava coraggio all’uomo con il cuore puro e paura a chi aveva un’indole cattiva, le sue lacrime guarivano da ogni ferita e malattia mentre le sue piume e la sua cenere potevano riportare in vita i morti.

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Il nome “fenice” deriva dal greco “foinix” ed indica il colore rosso porpora o cremisi che richiama quello del sole al tramonto o negli istanti dell’aurora. Dei cicli del sole, la fenice riprende non solo i colori, ma anche la ciclicità rimarcando con la sua vita il susseguirsi del giorno e della notte in una costante resurrezione che si rinnova e rigenera. La fenice come simbolo, infatti, esprime proprio questa ossimorica coesistenza di morte e nascita mediante la rigenerazione che la destina all’eternità.

Il mito della fenice trovò origine nell’antico Egitto, ad Eliopoli, dove ben si adattava al culto del sole ed alle cicliche inondazioni del Nilo che producevano la rigenerazione della natura. Passò poi ai Fenici che si definivano “figli della fenice” e da lì il mito si estese all’India ed all’estremo Oriente. Questo emblema di rinascita lo si rintraccia anche nella mitologia greca e leggiamo della fenice sia nelle opere di Erodoto che di Esiodo.

Per quanto riguarda l’antica Roma, Plinio il Vecchio scrive che “il primo tra i Romani ed in maniera molto accurata ne ha data notizia (della fenice) Manilio, senatore famoso, rinomato per il suo grande sapere ed autodidatta”. Manilio era un poeta erudito dell’epoca sillana e viene citato da Varrone. Sempre Plinio scrive che la fenice “venne portata a Roma durante la censura dell’imperatore Claudio, nell’anno 800 della città (47 d. C.) e venne esposta nel comizio, il che è attestato dagli Atti, ma nessuno esita a definire quell’uccello un falso”. Gli scritti di Plinio il Vecchio ci fanno scoprire che l’immagine della fenice giunse a Roma di pari passo con i fermenti culturali che accompagnarono l’avvio del I secolo a. C. e si consolidò durante il periodo augusteo, quando Ottaviano volle il trasporto degli obelischi di Eliopoli a Roma.

La simbologia dell’eternità sottesa all’immagine della fenice ben si adattava al motivo dell’eterna vita di Roma per la virtù del suo princeps. Parafrasando Claudiano (Carm. Min. 27), il Sole concede al princeps la luce necessaria a far brillare i “saecula aurea” così come accade alla fenice che vola verso Eliopoli con il suo innumerevole corteggio di uccelli.

La fenice risorge a nuova vita dalle sue stesse ceneri e tale immagine calzava alla perfezione se si consideravano le origini leggendarie di Roma che sorge dalle ceneri di Troia. Il pio Enea che raggiunge le coste italiche curandosi dell’anziano padre, ben si adattava all’immagine della fenice che raggiungeva Eliopoli trasportando l’uovo di mirra contenente le ceneri dell’avo; troviamo tale tematica nelle Metamorfosi di Ovidio (XII, 53.1). Le stesse consuetudini funerarie dell’antica Roma, quelle della cremazione, proponevano analogie perfette con il mito e con il simbolo che si prestava ad essere emblema non solo di rinascita, ciclicità e rigenerazione, ma anche di pietas filiale.

Marziale (epigrammi 5.7) dedica formalmente un epigramma a Domiziano e scrive un’invocazione al dio Vulcano perché risparmi Roma dal fuoco. Tale opera letteraria fa comparire la fenice come emblema di Roma che, grazie al programma edilizio di Domiziano, rinasceva dopo essere stata sfigurata dagli incendi (in particolare quello dell’80 d. C.) e risorgeva più bella di prima, sulle vecchie ceneri.

Il simbolo della fenice non è presente solo nella letteratura e nella poesia dell’antica Roma, ma diviene molto spesso il tema di raffigurazioni figurative con mosaici, affreschi ed incisioni.

Spesso la si ritrova raffigurata con delle rose e questo per un abbinamento simbolico con la festa delle rose che i romani appellavano “Rosalia”. Tale celebrazione era legata al culto dei morti ed a quella pietas che prevedeva che si portassero delle rose presso le tombe degli avi. Le rose indicavano il ristoro ed il ricordo dei vivi per gli antenati.

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Il simbolo è presente anche sulle monete dell’Impero Romano nelle quali troviamo raffigurata la fenice con il capo coronato di raggi ad indicare l’eternità di Roma e degli imperatori che sono collocati tra gli dei immortali. La fenice si trova spesso adagiata su una montagnola o su un globo nelle mani dell'imperatore.

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L’imperatore Adriano collocherà una fenice ad indicare la successione da Traiano; il simbolo viene utilizzato per indicare che il nuovo imperatore non è altro che la continuazione del precedente. La ritroviamo, poi, su monete di Faustina

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e Costantino I. Con le monete di Costante tale simbolo è accompagnato dalla legenda FEL TEMP REPARATIO che richiama la ritrovata felicità per opera e virtù del princeps.

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Enrico :)

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DE GREGE EPICURI

Bellissima discussione Enrico. Fra l'altro, il mito della fenice ha superato i secoli, ed è comparsa anche su splendide monete moderne, mi sembra di Ferdinando IV di Napoli. Ma avrei una ulteriore curiosità: mi par di ricordare (vagamente) che, come altri miti che si prestavano bene a questo passaggio, la fenice si è "travasata" in qualche modo nei primi tempi del Cristianesimo; è così?

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Grazie Gianfranco :)

E' proprio vero che la fenice è entrata a far parte a pieno titolo del repertorio simbolico del Cristianesimo e questo in virtù delle molteplici analogie che si prestano alla Resurrezione di Cristo. La più evidente è quella che vede accadere l'evento della Resurrezione dopo i tre giorni di morte effettiva. L'interpretazione cristiana del l'antico mito, vuole che il nido che la fenice si compone scegliendo le essenze più aromatiche, siano le virtù che portano il buon cristiano a meritare la vita eterna.

L'immagine della fenice, venne utilizzata anche nella simbologia alchemica ad indicare la materia che si trasforma per poi trasformarsi in un'altra sostanza.

Enrico :)

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  • 2 settimane dopo...

La rappresentazione, attraverso le immagini, di nozioni o concetti necessita sempre di un’astrazione che si avvalga, in modo sintetico e nello stesso tempo chiaro, di simboli che con un’immagine possano contenere e comunicare messaggi compiuti. In quest’occasione osserviamo come gli antichi Romani rappresentavano, sulle monete, alcune Province dell’Impero, i fiumi sacri e le idee ad essi collegate. Per esprimere tali messaggi, i Romani non utilizzarono solo dei simboli, ma idearono delle vere e proprie personificazioni.

L’estensione dell’Impero era davvero immensa e coinvolgeva la quasi totalità del mondo allora conosciuto. Le truppe romane si spinsero già in epoca augustea (per mezzo del governatore della Siria, Cornelio Palma) fino a quelle che diverranno con Traiano, nel 105 d. C., le province d’Arabia. L’Arabia era nell’antichità una delle più grandi zone geografiche e comprendeva i territori che si estendevano tra l’India e l’Egitto. Dopo la conquista romana essa venne divisa nominalmente in tre parti che rispondevano all’Arabia Felix, all’Arabia desertica ed a Petra o Arabia Rocciosa. L’Arabia Felix era così denominata per la sua caratteristica ricchezza d’incenso che i Romani apprezzavano in modo particolare e che nell’antichità era una resina estremamente preziosa tanto che alcune di queste essenze costavano molto più dell’oro. L’Arabia Rocciosa era la zona centrale di tutti questi territori che erano poi circondati dalla parte desertica abitata da Moabiti Edomiti, Madianiti ed Amaleciti.

La rappresentazione iconografica dell’Arabia la possiamo osservare in modo esemplare nelle monete dell’Imperatore Traiano e notiamo che per tale intento viene utilizzata una personificazione della Provincia che viene resa attraverso una figura femminile che reca in mano un ramo che allude all’incenso ed una canna. I simboli che accompagnano tale personificazione e che racchiudono anch’essi l’allusione alla geografia della Provincia sono il cammello

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e lo struzzo.

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Anche l’Oriente venne rappresentato dai Romani con delle personificazioni che esprimevano in particolare l’idea che è il luogo geografico dal quale quotidianamente si vede sorgere il sole e la stessa lingua latina permetteva l’assimilazione del concetto geografico di Oriente con quello del sole. In Latino, infatti, “Oriens” non indica solo un concetto geografico, ma è anche sinonimo di “sole”.

“Oriens” viene quindi espresso mediante una personificazione raffigurata mediante un giovane uomo, nudo, con la mano alzata e spesso munita di un globo ed una frusta, con la testa cinta da una corona radiata. Tale personificazione richiama ed allude chiaramente alla già consolidata raffigurazione iconografica del sole: la frusta allude al carro di Apollo, il globo all’universalità dell’astro e la corona radiata alla sua fulgida luce.

Troviamo raffigurato Oriens con il solo busto, alla stregua di un romano Imperatore, come in questo aureo di Adriano (RIC 16)

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Un giovane con la corona radiata, il globo nella mano sinistra e la destra alzata ad indicare il movimento proprio dell’astro quando spunta dall’orizzonte come in questo antoniniano di Gordiano III (RIC 213).

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Un giovane che cammina indossando una corona radiata e portando in mano una frusta come in questo antoniniano di Valeriano (RIC 12).

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Una rappresentazione più movimentata ed aggressiva la vediamo nel seguente antoniniano di Aureliano (RIC 64) dove la raffigurazione di Oriens viene ad essere resa con la solita immagine del giovane con la corona radiata sul capo, ma è nell’atto di calpestare un prigioniero, reca in mano un arco e nell’altra un ramo dall’oro. In questo caso si viene a creare una vera e propria assimilazione tra l’immagine iconografica ed il suo significato latente con la figura dell’Imperatore.

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L’Oriente, inteso come luogo di cultura antica e raffinata, ha sempre affascinato l’interesse dei Romani che nel tempo hanno assorbito e raccolto molte delle grandi suggestioni dei paesi che lo compongono. Nonostante il braccio armato di Roma abbia saputo conquistare questi remoti luoghi geografici, l’immensa cultura che hanno qui trovato ha saputo conquistare a sua volta Roma.

I Romani impiegavano delle personificazioni anche per raffigurare i fiumi ed in particolare troviamo espressi, in modo molto suggestivo ed artisticamente pregevole, i fiumi che nell’antichità erano investiti da una sacralità.

Il primo che osserviamo è il Danubio che i Romani chiamavano anche Istro. Esso viene raffigurato come una figura maschile, barbuta e distesa sulle rocce mentre si regge con un gomito. Un panno vola sulla sua testa a simboleggiare la forza della corrente. Lo troviamo così espresso nel denario di Traiano (RIC 100)

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Il Danubio rappresentava, in alcune zone, il limite naturale dell’Impero. In altre si guardava al suo corso, caratterizzante una forza naturale vantaggiosa per la supremazione bellica di Roma: le sue acque impetuose venivano viste, quindi, come alleate dei Romani. Troviamo espresso tale concetto nel sesterzio di Traiano (RIC 283) dove il fiume prevarica un barbaro della Dacia.

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La navigabilità del fiume viene resa iconograficamente mediante la presenza della prua di una nave come in questo asse di Marco Aurelio.

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Anche il Tevere ed il Nilo, fiumi sacri fin dai tempi più remoti sono stati resi iconograficamente dai Romani come figure barbute, semisdraiate. Se il Tevere presenta degli attributi specifici che alludono alla sua navigabilità come il remo o la prua di nave, il Nilo presenta una cornucopia che allude alla fertilità del suo limo. Attributi comuni un po’ alla resa artistica dei fiumi sono poi la canna palustre e l’idria dalla quale fluiscono le acque. Esemplare è il denario di Adriano (RIC 310)

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L’autorità del fiume veniva rappresentata anche mediante la raffigurazione del ritratto che lo simboleggia come avviene regolarmente per gli imperatori. Vediamo tale esempio nella seguente tetradracma di Tito (RPC II 2466).

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Tale ritratto ricalcante quello dei cesari è spesso associato ad un fiore di loto e ad una cornucopia con all’interno due canne.

In un aureo di Adriano (Cohen 982) il fiume è appoggiato ad una sfinge e nell’acqua si vedono un coccodrillo ed un ippopotamo. Il coccodrillo con le fauci spalancate è infatti uno dei simboli dell’Egitto.

Nel sesterzio di Adriano (Cohen 110) l’Egitto lo vediamo raffigurato mediante una figura femminile che si riferisce probabilmente ad Iside. Ella regge un sistro con la mano sinistra mentre su un piedistallo ai suoi piedi si vede un ibis (sacro a Thot).

Enrico :)

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Ciao Enrico, ottimo lavoro.

Aggiungo un denario di Adriano con l'Hispania

RIC 305, BMC 846, C 822 Denarius Obv: HADRIANVSAVGCOSIIIPP - Bare-headed bust right, slight drapery at shoulder.

Rev: HISPANIA - Hispania reclining left, holding branch, rabbit at her feet. 134-138 (Rome). $330 1/13/03.

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Un sesterzio con la Dacia.

RIC 849, C 528 Sestertius Obv: HADRIANVSAVGCOSIIIPP - Laureate, draped bust right.

Rev: No legend Exe: DACIA - Dacia seated left on rocks, foot on rock, holding standard and curved sword. 134-138 (Rome).

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E un sesterzio con l' Africa.

RIC 840, BMC 1708, C 144 Sestertius Obv: HADRIANVSAVGCOSIIIPP - Laureate head right.

Rev: AFRICA Exe: SC - Africa reclining left wearing elephant-skin headdress, holding scorpion and cornucopia, basket of wheat ears at her feet. 134-138 (Rome).

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Grazie Cometronio :)

Davvero interessante il denario dell'imperatore Adriano che hai postato. oo)

Il coniglio ed il ramo d'ulivo sono i simboli della Spagna fin da tempi molto antichi e li si rintraccia tutt'ora in alcuni emblemi ispanici. Per i Romani, i conigli provenivano dalla Spagna.

Il coniglio (o lepre) è stato, fin da epoche molto remote, anche uno dei simboli della Sicilia ed era allusivo alla fecondità di tale animale. In senso più esteso, quindi, richiamava la prosperità della terra.

L'elefante e la sua pelle era il simbolo di tutta l'Africa, così come il grano e lo scorpione che durante il periodo della Repubblica Romana simboleggiava solo Commagene (Armenia).

Altri animali utilizzati come simboli geografici sono: lo stambecco che indicava l'isola di Creta e la cicogna che alludeva ad Antiochia.

Enrico :)

Modificato da minerva
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Staff

A sostegno del rapporto Spagna e coniglio menzionato da Enrico:

"Verso il X secolo a.C. i Fenici, confondendolo con un roditore abbastanza simile che conoscevano bene, l' Hyrax syriacus, lo avrebbero chiamato saphan , da cui l'etimologia possibile i shefan im (paese del saphan) che avrebbe dato origine al termine Isphahania, Hispania, Spagna."

Robert Delort, François Walter - Storia dell'ambiente europeo

Per quanto riguarda l'isola di Creta... l'animale somiglia molto ad un nostro stambecco, ma più precisamente si tratta della capra kri-kri (capra aegagrus creticus).

http://numismatica-classica.lamoneta.it/moneta/R-G105/1

http://books.google.it/books?id=CkMEAAAAQAAJ&pg=PA132&lpg=PA132&dq=planciana+creta&source=bl&ots=teRdIyGgUa&sig=HtuCAeqgst7OsCJjcxANdHFHo-E&hl=it&ei=GFaqTv6tCcvBtAbWtdXyDw&sa=X&oi=book_result&ct=result&resnum=1&ved=0CB8Q6AEwAA#v=onepage&q=planciana%20creta&f=false

Perdonate l'intromissione "repubblicana" :D.

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DE GREGE EPICURI

Bellissima discussione Enrico. Fra l'altro, il mito della fenice ha superato i secoli, ed è comparsa anche su splendide monete moderne, mi sembra di Ferdinando IV di Napoli.

Ecco la fenice di cui parlava Pittini

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Modificato da dareios it
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