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Inviato

Sono alcuni giorni che mi arrovello sull'oggetto di questo post, derivante dalla lettura (tuttora in corso) dell'ottimo volume "Moneta Pontificia" di Luigi Londei e Silvana Balbi De Caro, Edizioni Quasar, Roma 1984.

Dal Medioevo fino all'epoca moderna più o meno inoltrata il compito di battere moneta veniva in genere affidato dall'autorità emittente, tramite contratto di appalto, a un imprenditore/finanziere, lo Zecchiere appunto, che si assumeva l'obbligo di battere una certa quantità di moneta, nei vari nominali previsti, per conto dell'autorità. Sullo zecchiere gravavano tutte o la maggior parte delle spese di conduzione dell'attività di Zecca, dall'acquisto delle paste metalliche da monetare al pagamento dei dipendenti (dal Mastro di Zecca in giù) alla manutenzione dei macchinari. A fronte di queste spese (per le quali percepiva in genere un modesto rimborso, del tutto insufficiente a coprire le spese) lo Zecchiere ricavava profitti principalmente dalla facoltà di battere liberamente moneta sia in proprio che per conto terzi (ricavandone quindi un diritto di signoraggio), spesso integrata da altri privilegi quali la possibilità di liberamente importare/esportare moneta (poteva quindi effettuare manovre speculative sfruttando la differente quotazione in moneta di conto dei diversi tipi monetali sulle varie piazze), l'esenzione dai diritti doganali (visto che spesso lo Zecchiere operava anche in altri campi del commercio) eccetera.

Ora mi domando: se lo Zecchiere doveva sostenere di tasca propria (sia pure a volte potendo godere di "prestiti agevolati", per così dire, da parte dell'autorità emittente) spese così ingenti per onorare il contratto di appalto (su cui in genere non percepiva alcun compenso rilevante), come faceva a ricavare profitti così ampi dalle attività "collaterali" da rifarsi di queste spese e guadagnarci pure? Quant'era grande l'aggio tra la pasta metallica e la moneta monetata per riuscire a compensare il costo della coniazione? Oppure il grosso della monetazione avveniva per conto terzi, per cui il signoraggio era la prima fonte di introito? O ancora l'attività di Zecca era comunque in perdita, in pratica un "favore" per accedere ad altre facilitazioni? O c'è qualche altro meccanismo che mi sfugge, tanto che riuscire a far quadrare i conti dell'attività di Zecca mi sembra praticamente impossibile? Esistono rendiconti completi delle attività di Zecca che spieghino in dettaglio entrate ed uscite?

Attendo i vostri pareri ...

Ciao, P. :)


Inviato

ciao, argomento interessante. Anch'io ho letto qualcosa in merito ed ecco quello che posso aggiungere. Ci sono situazioni diverse, secondo l'organizzazione dell'officina. Abbiamo quelle molto semplici sorte nel Seicento quando è esplosa la moda dei Luigini. Tanto per fare un nome, la principessa Violante Doria ha elargito numerose concessioni (ad esempio a Torriglia), regolate da precisi contratti. La controparte era in genere un'artigiano, che chiamarlo zecchiere forse è un po' troppo entusiastico. Otteneva in affitto un locale dove lavorare, e la materia prima. Questa poteva venire da altre monete a titolo più alto, posate, vasellame in argento e quant'altro. L'unico obbligo era di battere escusivamente Luigini. Cosa guadagnava? Tolto l'affitto non credo ci fosse molto da rosicchiare. Comunque la moda è finita presto.

Diversa è la situazione di officine grandi, secolari , con diverso personale organizzato gerarchicamente secondo precisi regolamenti, come ad esempio quella di Siena.

Di essa abbiamo copiose documentazioni, con riferimenti alle autorizzazioni per ogni emissione e bilanci di entrate e uscite, che dovevano essere approvati dai funzionari comunali. Sulle monete che producevano, gli zecchieri senesi dovevano mettere una loro sigla, però non doveva poter essere riconducibile al loro casato.

Ci sono zecchieri che potevano inserire la loro sigla (es. Genova) o addirittura il loro blasone sulla moneta (es. Lucca, Firenze) e questo naturalmente aumentava il loro prestigio.

Solitamente gli zecchieri provenivano da famiglie nobili o mercanti e avevano già il loro guadagno dalle rendite agricole o dal prestito del denaro.

Sicuramente ho trascurato molti aspetti, ma l'argomento è complesso. Se hai la possibilità ti consiglio apposite letture come: Le monete della Repubblica Senese, edito a cura del Monte dei Paschi.

Attendiamo comunque altri eventuali pareri.

;)

Awards

Inviato

A riguardo della tuo quesito, ho trovato interessante la lettura del testo di Carlo Maria Cipolla:

Il governo della moneta a Firenze e a Milano nei secoli XIV-XVI ed Il Mulino Bologna.

Nella Parte seconda, il capitolo La Moneta a Milano nel Quattrocento – Monetazione argentea e svalutazione secolare - , tratta in modo particolare del signoraggio.

L’autore precisa che, “il saggio è dedicato appunto ai vari aspetti della monetazione argentea e di biglione nel ducato milanese durante il secolo XV. Parecchi dati ed i risultati però travalicano nel loro significato i confini del ducato milanese, essi possono servire alla comprensione dei criteri e delle tecniche di emissione e di allineamento delle varie specie nei sistemi di moneta metallica prevalenti in Europa prima dell’età moderna.”

“I dati su cui si fonda il saggio sono derivati dagli =Ordini di battitura= e dai =Capitolati di appalto= che si sono conservati relativi all’attività delle zecche ducali.”

Riporto in sintesi alcuni passi del capoverso 6

Prezzo di zecca del metallo, costi di produzione e signoraggio.

I capitolati di appalto e gli ordini di battitura contengono regolarmente l’indicazione del prezzo che la zecca era obbligata a pagare a chi vi portasse metallo.

La zecca pagava il prezzo del metallo ricevuto con il suo stesso prodotto, cioè con la moneta ricavata dal metallo acquistato. L’ammontare di moneta che la zecca ricavava dal metallo era determinato dagli ordini di battitura e dai relativi capitolati di appalto. Il valore nominale della moneta battuta da una data quantità di metallo superava sempre il prezzo pagato dalla zecca per il metallo stesso. La differenza serviva a compensare la zecca per i suoi costi di produzione (manifactura) e per il diritto di signoraggio (honorantia) che in misura varia veniva spartito tra appaltatori di zecca e camera ducale. In sintesi si aveva:

M = P+ (C+S)

Dove P sta per prezzo del metallo pagato dalla zecca, C sta per costi di produzione e S sta per signoreggio, M per la somma di moneta ricavata dal metallo venduto dalla zecca.

Il rapporto ( C+S)/M non era costante per tutti i tipi monetali: esso risultava più elevato per le denominazioni minori. Anzitutto i costi di coniazione venivano ad incidere in maniera proporzionatamente più elevata sulle denominazioni minori. Le coniazioni erano effettuate a mano. Trarre da un dato peso di metallo un numero maggiore di pezzi comportava un numero proporzionalmente più elevato di ore lavorative. I dirigenti delle zecche cercavano di ovviare all’inconveniente pagando gli operai a cottimo per marco lavorato indipendentemente dal numero di pezzi ricavati per marco. Questa era la pratica seguita per esempio a Firenze.

A Milano, nel capitolato dell’ottobre 1447 si prescrisse che nella coniazione dei grossi da sol. 2 ( da coniarsi alla rata di 100 pezzi per marco) il compenso agli operai fosse di den. 21 per marco di moneta ed il compenso ai Monetieri fosse di den. 11 ½ per marco.

Il compenso agli operai e monetieri che nel caso specifico totalizzava den. 32 ½ rappresentava normalmente più della metà del costo totale di produzione ( che includeva anche i costi fissi). Questo costo totale era stimato nel capitolato del 1447 a den. 54.

Nel 1452 si batterono grosso da sol.2, sesini e quattrini con i seguenti rapporti:

grossi a 102 sesini a 220 denari a 400 pezzi per marco di lega.

Il capitolato di quell’anno prescrive che i lavoratori della zecca venissero pagati in base alla seguente tariffa:

per marco lavorato in grossi gli operai den.21, monetieri den. 11 ½ totale den. 32 ½ ;

per marco lavorato in sesini gli operai den. 24, monetieri den. 13 totale den. 37;

per marco lavorato in denari gli operai den. 28, monetieri den. 15 totale den. 43.

In sintesi il costo del lavoro degli operai e dei monetieri sul nominale di un grosso dal sol. 2 veniva incidere per 1,33 per cento, nel caso del sesino saliva al 2,80 per cento, e nel caso del misero denaro raggiungeva il 10,75 per cento. S’aggiunga che i costi di produzione non si esaurivano nel compenso a operai e monetieri. V’erano in aggiunta altri costi tra cui i costi fissi rappresentati dal costo delle attrezzature impiegate e dalla remunerazione a personale quale i custodi, i tagliatori di ferri e i soprastanti di zecca. Proprio in tanto in quanto erano costi fissi essi venivano ad incidere in maniera proporzionalmente più pesante sulle specie minori.

Oltre i costi di produzione i carichi di zecca includevano il signoraggio (honorantia).

Nel caso della zecca di Milano la quale veniva di regola appaltata il signoreggio doveva verosimilmente essere diviso tra gli appaltatori sotto forma di loro profitto e la Camera ducale sotto forma di “honorantia” versata dagli appaltatori. Poiché al momento attuale non si conoscono conti di zecca, non si è in grado di calcolare i profitti della stessa.

Per quanto riguarda la parte di spettanza alla Camera ducale, stranamente i capitolati non sempre accennano al problema. Si può supporre che la questione venisse regolata su documenti a parte.

Non così però nei capitolati del 1447 d 1474.

Nel 1447 si specifica che gli appaltatori dovevano versare alla Camera ducale signoraggio nella misura di:

den. 42 per ogni marco lavorato in grossi da sol. 2

den 33 per ogni marco lavorato di sesini da den. 6

den.30 per ogni marco lavorato di denari da den.1.

Il signoraggio veniva ad incidere sul valore nominale della moneta coniata nelle misure seguenti:

grossi 100 = den 2400 su cui den.42 rappresentavano l’ 1,75per cento

sesini 216 = den 1296 su cui den. 33 rappresentavano il 2,55 per cento

denari 400 = den. 400 su cui den. 30 rappresentavano il 7,50 per cento.

In valore assoluto quindi il signoraggio decresceva per marco lavorato man mano che si passava dalle specie superiori alle specie inferiori ma poiché la riduzione era meno che proporzionale alla diminuzione del valore nominale della moneta coniata il peso fiscale veniva ad incidere percentualmente in maniera sensibilmente più elevata sulle specie minori.

Riassumendo quanto esposto, resta chiaro che sia i costi di produzione che il signoraggio venivano ad incidere in misura proporzionalmente molto più elevata sulle denominazioni minime. Il duplice effetto della maggior incidenza proporzionale del costo di produzione e del carico fiscale si traduceva in una più accentuata differenza tra il prezzo del metallo pagato dalla zecca ed il valore nominale della moneta ricavata dal metallo stesso man mano che si passava dalle specie superiori a quelle inferiori, infatti i carichi di zecca ( C+S) passavano in percentuale del valore della moneta ricavata da un 1 – 1 ½ per cento per i grassoni ad un 2,4 per cento per il grosso da sol. 2, ad un 5 – 11 per cento per i sesini, ad un 20-28 percento per il denaro. Va evidenziata la diversa incidenza dei carichi di zecca per la monetazione di una stessa specie da un anno all’altro, per le variazioni del signoraggio che riflettevano le condizioni finanziarie della Camera ducale.

La differenza a livello macro tra prezzo del metallo acquistato dalla zecca ed il valore nominale della moneta ricavata dal metallo stesso ( cioè, facendo uso dei simboli succitati, la differenza M-P) si rifletteva a livello micro, cioè a livello della singola moneta, nella differenza tra valore nominale della moneta in questione e valore del metallo in essa contenuta.

Il divario tra valore nominale e valore intrinseco delle diverse specie monetali andava da un minimo dallo 1,2 – 1,4 per cento per le specie monetali d’argento superiori ad un buon 20-28 percento per le monete infime.

Penso che da quanto esposto sopra, non vengono tutte le risposte ai tuoi quesiti, però qualche punto dovrebbe essere più chiaro, come l’attività della zecca era sicuramente redditizia, soprattutto per le finanze del Principe; per quanto consta e ci riferisce il Cipolla, di rendiconti di zecche, alla data della stesura del libro, non se ne conoscevano, di conseguenza un dettaglio particolareggiato dei costi e ricavi sembrerebbe oggi non riscontrabile, però chissà dagli archivi potrà in futuro saltar fuori qualche documento interessante.


Inviato
l’attività della zecca era sicuramente redditizia, soprattutto per le finanze del Principe;

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Ti ringrazio Tiberius per l'interessante contributo, mi sono segnato il testo di Cipolla nella lista della spesa ;)

Quanto scrivi sopra mi conferma una sensazione, che far quadrare i conti per lo zecchiere fosse tutt'altro che banale, specialmente in quelle situazioni in cui l'acquisto delle paste metalliche fosse a suo totale carico, come accadeva ad esempio generalmente nella zecca pontificia dei secoli XVII-XVIII. E questo sarebbe anche confermato dal fatto che trovare un appaltatore disposto a sobbarcarsi l'impresa era tutt'altro che semplice. Tanto che mi vado sempre più convincendo che il profitto per lo zecchiere derivava non dall'appalto in sè (cioè la battitura di moneta per conto dell'autorità emittente, che era sempre in perdita, tanto che possiamo considerarlo il "prezzo" per acquisire l'appalto), ma dalle attività collaterali quali la battitura di moneta in proprio o per conto terzi (ammesso che questo rappresentasse una percentuale significativa del volume delle emissioni) oppure, più ancora, la possibilità di godere di esenzioni doganali e/o condizioni commerciali favorevoli per altri traffici (ad esempio lo zecchiere aveva facoltà di trasportare gratuitamente le proprie merci sulle galere pontificie). Non a caso infatti gli zecchieri erano in genere imprenditori del commercio già attivi in campi anche diversi da quello del traffico di metalli preziosi.

Altri contributi sono graditi :)


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