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Inviato

Buongiorno a tutti! Dopo averci rimuginato parecchio su, sentivo il desiderio di condividere con voi qualche appunto raccolto dalle mie ultime letture... letture che a molti sembreranno ormai “classiche” e scontate, ma che per me sono state “rivelatrici”, dal momento che mi hanno finalmente chiarito alcuni concetti spesso richiamati o implicitamente dati come assioma in molte discussioni che trattavano di economia monetaria medioevale... cercherò quindi di riassumere qui ciò che mi è parso di comprendere... laddove sembri confuso o impreciso, pregherei chi ne sa di più di correggermi, per favore!

Partirò dal già più volte citato (in altre discussioni precedenti) “Moneta e civiltà mediterranea” pubblicato da Carlo Cipolla nel 1957... in particolare, tra i brevi saggi in esso contenuti, volevo focalizzarmi sul terzo, intitolato “Il grosso problema della moneta piccola”, che deve aver avuto un certo impatto sulla riflessione successiva dato che il titolo è stato ripreso o citato in saggi successivi ad opera di altri studiosi di storia economica.

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Cipolla si concentra in questo saggio sulla “moneta piccola” (quella utilizzata per i piccoli scambi quotidiani, gli “spiccioli” insomma) partendo dall’analisi delle regole per mantenere un “sano sistema di moneta divisionale”... regole tutt’altro che scontate, dato che sono state riconosciute diffusamente come valide solo dal XVII secolo ed applicate per la prima volta in Gran Bretagna solo nel 1816: tra le cause  che avevano impedito, nei secoli precedenti, la piena ed efficace attuazione di tali regole Cipolla cita la limitata sovranità monetaria, fenomeno tipico dell’età Medioevale e tanto più sviluppato nella realtà italiana, fatta di entità politiche territorialmente poco estese, con dinamiche di potere in costante confronto e concorrenza con quelle delle entità vicine.
La moneta “divisionaria“ è pero davvero tale solo quando le diverse specie monetarie sono “in rapporto razionale e costante” tra loro, cioè quando la moneta “piccola” rappresenta un’effettiva frazione del valore dell’”unità monetaria”. Passando ad analizzare il periodo prettamente medioevale, Cipolla precisa che in quegli anni la “moneta piccola” non era davvero “divisionaria”, ma si poneva con la moneta “grossa” in un rapporto più complesso. “Moneta piccola” e “moneta grossa” NON costituivano cioè (come potevo inizialmente pensare, abituato all’euro ed ai suoi centesimi) elementi  differenti, ma raccordati, di un unico sistema organico, bensì proprio due sistemi monetari paralleli, con situazioni di “contatto” ma a loro modo indipendenti, e con diversi contesti di circolazione sia dal punto di vista economico sia dal punto di vista sociale... e quindi con diverse evoluzioni nel tempo e diverse funzioni.
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Inviato (modificato)
Che la “moneta grossa” fosse la moneta “dei ricchi e dei potenti”, usata per la finanza e per i grandi commerci internazionali, lo si è detto molte volte: il grosso è nato a Venezia, dove serviva e si è imposto come moneta “franca” degli scambi con il Mediterraneo Orientale... i “fratelli” e “cugini” italiani del “Matapan” ne sono stati epigoni, magari (ma non sempre!) con raggi d’azione e vastità di diffusione minori ma (per quel che mi è parso di capire) pur sempre concepiti soprattutto per il rapporto con realtà “estere” rispetto alla comunità in cui nascevano, o comunque per una dimensione economica più ampia di quella quotidiana.
Meno chiaro è sempre stato per me, finora, il ruolo della “moneta piccola”, cioè di quel denaro che in Italia (ma anche in area francese) era ormai, nel XIII secolo, solo un pallido riflesso del denaro carolingio. In questo saggio Cipolla ricorda che la “moneta piccola” era la moneta di liquidazione dei salari del popolo, la moneta del piccolo commercio e delle transazioni al minuto: la moneta che finiva nelle tasche della gente comune ed in cui si esprimevano i costi delle merci di uso quotidiano; per questo costituiva la moneta su cui si imperniava il sistema dei prezzi dei beni al consumo. Una moneta forse “piccola” (anche se non “piccolissima”, almeno fintantoché contenne ancora una quota “rilevabile” d’argento, grazie all’elevato potere d’acquisto dell’argento stesso in età medioevale), ma con un ruolo comunque di fondamentale importanza.
La “moneta grossa”, infatti, dovendo sostenere i circuiti dell’alta finanza e dovendo fungere da mezzo di scambio nei commerci internazionali, quindi dovendo essere accettata in realtà economiche “altre” rispetto a quelle di produzione, e con alto valore di scambio, doveva garantire la fiducia in essa riposta, pena la perdita di “mercato” e di affidabilità negli scambi commerciali di grosse partite di merci, tantopiù se pregiate: una svalutazione della “moneta grossa” emessa da una realtà politica rischiava di far cadere l’affidabilità stessa di quel potere agli occhi dei partner economici, evento assolutamente inaccettabile perché poteva portare all’esclusione dai grandi circuiti a favore di realtà concorrenti e, soprattutto per le Repubbliche mercantili italiane, di fatto minare il loro stesso prestigio e potere politico.

Nella mia ignoranza di dinamiche economiche ho però scoperto con Cipolla l’esistenza di meccanismi che possono portare alla svalutazione della moneta: meccanismi che, non potendo essere lasciati “sfogare” sulla “moneta grossa” per i motivi appena indicati, dovevano trovare un contesto in cui potersi liberamente manifestare, per evitare di innescare un processo di deflazione, potenzialmente dannoso per le necessità espansive di un’economia in crescita quale era quella delle Repubbliche mercantili italiane tra XII e XIV secolo. Per i ceti al potere in queste realtà politiche, il “contesto” ideale in cui permettere a questi meccanismi di manifestarsi fu costituto proprio dalla “moneta piccola”. La svalutazione di quest’ultima non fu quindi, secondo Cipolla, un fenomeno da inquadrare negativamente nel contesto di economie “deboli” ed incapaci di mantenere la stabilità monetaria, ma da considerare positivamente come la consapevole strada percorsa da economie sviluppate per mantenere il dinamismo del proprio mercato e, contemporaneamente, salvaguardare la fiducia nella propria “moneta grossa”, continuando così ad imporre il proprio ruolo nei mercati e nella finanza internazionali

Modificato da Ulpianensis
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Ne Il grosso problema della moneta piccola, Cipolla accenna ancora in maniera generale ai rapporti tra moneta grossa, moneta piccola ed alle dinamiche sociali associate alle relazioni tra questi due diversi “livelli” economici, ma tale argomento viene di fatto ulteriormente ripreso ne Il fiorino e il quattrino, pubblicato nel 1982.

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In questo saggio, le categorie ed i meccanismi generali tratteggiati ne Il grosso problema della moneta piccola assumono tutta la concretezza di un preciso contesto cronologico, politico, sociale ed economico.
I rapporti tra “moneta grossa” e “moneta piccola” sono quelli tra le due monete del titolo, il fiorino fiorentino, moneta grossa europea per eccellenza del tardo Duecento e dei due secoli successivi, ed il quattrino, ormai affermatosi come moneta “spicciola” di riferimento per il popolo fiorentino, data la perdita di valore del denaro “picciolo”. La società è quella della Firenze della metà del Trecento, metropoli di respiro europeo alle prese, dopo un’età di fiorente sviluppo, con una crisi che farà emergere tutte le contraddizioni insite nella sua ascesa. Dopo aver tratteggiato il groviglio di avvenimenti politici, calamità naturali e congiunture economiche degli anni Quaranta del XIV secolo, Cipolla mostra chiaramente i due piani differenti di circolazione di fiorino e quattrino: il primo, moneta che alimenta il commercio di merci pregiate di esportazione (panni di lana; seta; pellicce; spezie) e in cui si regolavano le rendite fondiarie e gli onorari dei grandi professionisti (giudici e notai, medici e speziali, cambiavalute); il secondo, metro dei prezzi al consumo e valuta in cui si regolavano i salari del popolo ed i compensi degli artigiani e dei piccoli professionisti appartenenti alle Arti minori (beccai, fornai, vinattieri, oliaroli, calzolai, corazzai, legnaiuoli, albergatori…).

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Inviato

Il rapporto tra le due valute, o “corso del fiorino” (cioè il valore di un fiorino in soldi di denari piccioli) risultava stabilito pressoché giornalmente in base all’andamento del mercato e costituiva un fenomeno di interesse generale, non solo per chi i fiorini se li trovava in tasca, ma anche per chi non ne aveva mai visto uno, dal momento che  il potere d’acquisto delle classi meno agiate subiva una flessione in occasione dei rialzi del corso del fiorino e si stabilizzava o aumentava allo stabilizzarsi o al ridursi di questo.
I rapporti di forza tra le diverse componenti sociali ed i rivolgimenti politici finivano per avere un rapporto di mutua influenza con gli avvenimenti monetari e dunque sugli equilibri economici.
Finché l’oligarchia mercantile fiorentina riuscì a garantirsi un contesto economico inflattivo, con costante e progressivo incremento del corso del fiorino, poté accrescere e consolidare non solo la propria ricchezza, ma anche il proprio potere, di cui l’ascesa di Firenze (sia come “piazza” economico-finanziaria a livello europeo, sia come entità politica in ambito italiano) era espressione.
Alla stabilizzazione del corso del fiorino dal 1355 circa, fece invece seguito l’ascesa ed il consolidamento della classe sociale medio-bassa, che acquistò un ruolo politico crescente. Alla congiuntura monetaria degli anni Sessanta del Trecento, con penuria a Firenze di moneta piccola in mistura argentea (frutto questo, peraltro, anche di precise scelte di politica monetaria) e conseguente diffusione nell’uso comune di denari piccioli e quattrini pisani svalutati, fece seguito un’articolata manovra di svalutazione della “moneta piccola” fiorentina che ne allineò sostanzialmente i nominali a quelli pisani coevi: proprio questi avvenimenti monetari contribuirono, favorendo un rapido e consistente rialzo del corso del fiorino, ad un peggioramento delle condizioni economiche per le classi sociali più basse che sfociò nella rivolta dei Ciompi prima (1378) e poi in un governo a maggioranza popolare (1378-1382).
A proposito della diffusione a Firenze di moneta pisana senza possibilità di controllo da parte delle autorità cittadine, mi preme sottolineare come le vicende trattate ne Il fiorino e il quattrino riescano a mostrare plasticamente il modo in cui la “limitata sovranità monetaria” degli Stati medioevali contribuisse a mantenere un disallineamento non colmabile tra il sistema della “moneta grossa” e quello della “moneta piccola”, come già citato da Cipolla ne Il grosso problema della moneta piccola.

Il grosso problema della moneta piccola e Il fiorino e il quattrino mi sono sembrati in ideale continuità nel mostrare, con considerazioni teoriche e con calzanti esempi concreti, i complessi rapporti tra moneta “piccola” e “moneta grossa” ed i risvolti sociali e politici di questi.
Questi due testi descrivono tuttavia una situazione ormai “di fatto”: i due sistemi  monetari ci sono ed “interagiscono”… resterebbe da chiedersi: “perché?” Cioè, perché sono venuti a formarsi due sistemi monetari paralleli? come mai il denaro carolingio si è trasformato nella “moneta piccola” del XIII secolo, rendendo di fatto necessaria la nascita della “moneta grossa”? (anche se dovrei precisare questa espressione come “moneta grossa prodotta nel Medioevo dai Paesi dell’Europa occidentale”, dato che solidi bizantini e dinar e dirhem musulmani circolavano già, prima dei e parallelamente ai denari carolingi, e hanno continuato a circolare anche dopo mantenendo, almeno per una fase e rispetto agli svalutati denari di mistura dell’Europa occidentale, il loro valore).
Si è parlato in molte discussioni di “svalutazione dei denari”, di svilimento e di contenuto di fino… ma mi era sempre rimasta la curiosità del perché questo fenomeno, dato per “naturale”, si fosse verificato…

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Quasi a chiudere il cerchio aperto con i due saggi precedenti, ancora Cipolla mi è venuto in aiuto con un suo ulteriore brevissimo ma denso saggio del 1963: Currency depreciation in Medieval Europe, a cui non avevo ancora trovato rimandi nel forum ma che mi è parso davvero illuminante.

Currency depreciation in Medieval Europe.pdf

Cipolla inizia enunciando una “legge universale”: “a lungo andare ogni unità monetaria è soggetta ad un processo di svalutazione”.
Per l’Età medioevale Cipolla fa riferimento ad una gran massa di informazioni raccolte dai casi di debasement documentati, riuscendo a discernere una serie di situazioni - o, meglio, di “condizioni problematiche” - che storicamente le società europee hanno dovuto fronteggiare e che solitamente hanno condotto ad una manovra di svalutazione (potremmo chiamarli “fattori di pressione svalutativa”):
 
  1. l’incremento della domanda di moneta, per incremento della popolazione o per incremento della monetizzazione dell’economia;
  2. l’incremento di spesa pubblica e debito pubblico, spesso dovuto alle spese militari;
  3. gli squilibri nella bilancia di pagamenti (tra utili da esportazioni e spese da importazioni);
  4. la pressione di gruppi sociali verso un’inflazione “speculativa”;
  5. la malagestione delle zecche;
  6. il logoramento della massa monetaria circolante, sia per il semplice uso sia per il fenomeno della “tosatura”;
  7. le fluttuazioni di mercato del prezzo relativo di oro ed argento.
 
In realtà - sottolinea Cipolla - in ciascuna di queste situazioni e per ovviare agli inconvenienti da esse posti in campo monetario, si sarebbero potute trovare diverse “soluzioni”… ad esempio, con l’incremento di domanda di moneta si sarebbe potuto decidere di sviluppare un sistema creditizio, o usare forme di moneta differenti da quella di metallo pregiato; così come, con l’incremento di spesa pubblica, si sarebbe potuto cercare di ridurre tale spesa, o per uno squilibrio nella bilancia dei pagamenti procedere ad una politica economica “di austerità”… di fatto, però, la svalutazione della moneta risultava una possibile soluzione PER TUTTE queste situazioni e quindi, in presenza di più di una di queste condizioni contemporaneamente, essa finiva per essere la soluzione più “economica”; la svalutazione, per giunta, risultava anche la soluzione più semplice da far accettare, perché attuabile “in sordina”, grazie alla difficoltà di distinguere, tra monete di tipologia e peso identici, quelle a contenuto di fino inferiore.

Con questo ragionamento, Cipolla mostra un possibile fondamento alla “legge universale della svalutazione” enunciata inizialmente. Ecco i principali “motivi” che probabilmente portarono alla gran parte delle svalutazioni che afflissero e “plasmarono”, talora con varianti e variantine date da “segni” di riconoscimento, molte serie monetali che collezioniamo.
Ovviamente, i “fattori di pressione svalutativa” non furono sempre operanti tutti insieme in diversi tempi e luoghi, e Cipolla sottolinea come la scelta di procedere o non procedere a svalutazione in loro risposta sia dipesa anche e soprattutto dall’assetto politico, economico e sociale del contesto in cui tali fattori operarono. Analizzando quindi diversi contesti, cioè l’Italia settentrionale, l’Inghilterra e la Francia, Cipolla giunge a mostrare come, in una prospettiva “orizzontale”, in uno stesso periodo in Europa vi furono aree dove la svalutazione monetaria fu più marcata e progressiva ed aree dove fu quasi inesistente, e questo come semplice “adattamento” alle diverse condizioni dei contesti. L’enorme svalutazione del denaro in area italiana centro-settentrionale viene quindi chiaramente messa in relazione ad un maggiore dinamismo economico e ad una società in espansione sia numerica sia per complessità e, come era già stato anticipato ne Il grosso problema della moneta piccola, è stata una scelta in grado di favorire ulteriormente tale crescita, impedendo un processo deflattivo.
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In qualche modo, la svalutazione ha condotto alla vera e propria ”invenzione” della “moneta piccola”, forse presupposto e seme per la nascita della “moneta grossa” e forse proprio per questo antesignana, prima ancora di quest’ultima, del magnifico sviluppo dei Comuni italiani.
I denaretti sviliti dei nostri Comuni, passati per mille mani e per mille tasche permettendo gli scambi quotidiani e la vita della gente comune, sono a loro modo testimonianza della “piccola storia” che ha costruito la Storia… inoltre, spesso avvicendandosi in molte serie successive, talora con svariati segni distintivi o sottili differenze stilistiche, riescono ad essere inesauribile fonte di diletto per collezionisti “dai gusti strani” come noi “medioevali”! (vedi discussioni-fiume esemplari come “DENARO GENOVA” o la mitica “Denari di Lucca”😉)

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Complimenti per la sintesi di una serie di argomenti complessi, peraltro affrontati in modo esemplare da Carlo Maria Cipolla. Lo studio della storia economica non può prescindere dall’analisi delle dinamiche legate alla circolazione monetaria ed al valore correlato di oro ed argento. Le implicazioni legate all’esistenza di un doppio livello di circolazione tra moneta grossa e piccola nell’economia medievale (e non solo) sono difficili da comprendere ai nostri giorni, in quanto siamo abituati all’ omogeneità del circolante fiduciario. Questa estrema complessità, che porta a periodici riassetti delle monetazioni locali, fornisce continuamente interrogativi e problematiche affascinanti per gli studiosi e gli appassionati di numismatica medievale.

Federico

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Ciao!

Complimenti per il tuo elaborato; certamente il Cipolla è una garanzia e i suoi lavori rispecchiano in generale delle situazioni che nel medioevo tutti gli Stati hanno provato, chi in maniera superficiale, chi in maniera proattiva; infatti alcuni Stati più "attrezzati" finanziariamente, non hanno gestito stuazioni di svalutazioni con acquiescenza, giocando "in difesa" (se posso usare questo termine), ma anzi hanno sfruttato (e a volte creato) queste situazioni a loro beneficio per creare danni ai loro concorrenti economici o solo confinanti.

Venezia è stata un esempio di lucidità nel generare inflazione o moneta cattiva (legge di Gresham) per raggiungere i suoi scopi ai danni dei "nemici".

saluti

luciano

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Grazie Federico @ceolo! Hai ragione, questa storia del doppio livello di circolazione monetaria è una miniera di interrogativi e non per nulla, tra i tanti ambiti della numismatica medioevale, la nascita del (dei) grosso (grossi) con il suo contesto storico e monetario è proprio l’argomento che più mi affascina e il cui studio finora mi ha più impegnato…

E grazie anche a te, Luciano @417sonia! Hai richiamato giustamente la legge di Greesham, e mai citazione potrebbe essere per me più azzeccata! Perché, se è vero che il grosso è nato come moneta di grande valore unitario e di intrinseco affidabile e “stabile” (al punto da “apprezzarsi”, nel tempo, sulla “moneta piccola”), sono convinto che fosse in realtà ancora qualcosa di più…

Tra i tanti contributi che ho letto finora, infatti, quello che più mi ha “segnato” è stato questo articolo pubblicato ormai più di 30 anni fa da @Andreas

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Inviato (modificato)

…in cui si spiega come forse, tra gli eventi che “ispirarono” ai veneziani l’introduzione del grosso “matapan” vi fu la precedente circolazione dei denari frisacensi “al prezzo” di un numero di denari veneziani in realtà sopravvalutato rispetto al reale intrinseco dei frisacensi stessi… cosa che avrebbe reso i frisacensi, di buon peso e di buon intrinseco, una moneta in realtà “cattiva” secondo la legge di Greesham! Ebbene, se nel progettare il matapan i veneziani “capirono l’antifona”, mi sembra che anche in giro per l’Italia si fece rapidamente tesoro di questa caratteristica significativa: in fondo, monete “troppo buone”’ sarebbero rapidamente sparite dalla circolazione in accordo con Greesham, bisognava dar loro un buon motivo per poter continuare a “fare il loro lavoro” nelle grandi transazioni commerciali!

Modificato da Ulpianensis
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Inviato

…se poi consideriamo che, per la “moneta piccola”, i costi di produzione erano maggiori di quelli per la “moneta grossa”, per cui “poteva starci” nella prima un contenuto di fino proporzionalmente inferiore a quello nella seconda, trovarci invece con un rapporto invertito (contenuto di fino proporzionalmente inferiore nella “moneta grossa” rispetto alla “moneta piccola”) mi fa davvero pensare che nella progettazione della “moneta grossa” l’aspetto speculativo avesse una parte consapevolmente importante…

A questo proposito non ricordo però dati precisi che vadano oltre il caso del matapan, e forse, dei primi grossi milanesi… voglio dire, per i grossi genovesi, ad esempio, o per quelli toscani, mi mancano dati sull’intrinseco della “moneta piccola” di riferimento coeva… qualcuno (@fra crasellame, @dizzeta, @monbalda, @magdi) avrebbe dati in proposito? 

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9 ore fa, Ulpianensis dice:

…se poi consideriamo che, per la “moneta piccola”, i costi di produzione erano maggiori di quelli per la “moneta grossa”, per cui “poteva starci” nella prima un contenuto di fino proporzionalmente inferiore a quello nella seconda, trovarci invece con un rapporto invertito (contenuto di fino proporzionalmente inferiore nella “moneta grossa” rispetto alla “moneta piccola”) mi fa davvero pensare che nella progettazione della “moneta grossa” l’aspetto speculativo avesse una parte consapevolmente importante…

A questo proposito non ricordo però dati precisi che vadano oltre il caso del matapan, e forse, dei primi grossi milanesi… voglio dire, per i grossi genovesi, ad esempio, o per quelli toscani, mi mancano dati sull’intrinseco della “moneta piccola” di riferimento coeva… qualcuno (@fra crasellame, @dizzeta, @monbalda, @magdi) avrebbe dati in proposito? 

 

Ciao!

mi sono ricordato di una discussione dove, appunto, si accenna ai due livelli di monetazione, entrambi in uso nello stesso periodo, senza che ci fosse una reale commistione tra loro; da una parte la buona moneta d'argento (Grosso) e dall'altra la moneta "nera"(Denari o Piccoli o Bagattini), che conteneva comunque argento seppur unitariamente in una percentuale infima, ma che sulla quantità aveva una valenza importante.

Bella discussione, complimenti

saluti

luciano

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Inviato
Il 26/03/2025 alle 11:26, Ulpianensis dice:

Buongiorno a tutti! Dopo averci rimuginato parecchio su, sentivo il desiderio di condividere con voi qualche appunto raccolto dalle mie ultime letture... letture che a molti sembreranno ormai “classiche” e scontate, ma che per me sono state “rivelatrici”, dal momento che mi hanno finalmente chiarito alcuni concetti spesso richiamati o implicitamente dati come assioma in molte discussioni che trattavano di economia monetaria medioevale... cercherò quindi di riassumere qui ciò che mi è parso di comprendere... laddove sembri confuso o impreciso, pregherei chi ne sa di più di correggermi, per favore!

Partirò dal già più volte citato (in altre discussioni precedenti) “Moneta e civiltà mediterranea” pubblicato da Carlo Cipolla nel 1957... in particolare, tra i brevi saggi in esso contenuti, volevo focalizzarmi sul terzo, intitolato “Il grosso problema della moneta piccola”, che deve aver avuto un certo impatto sulla riflessione successiva dato che il titolo è stato ripreso o citato in saggi successivi ad opera di altri studiosi di storia economica.

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Cipolla si concentra in questo saggio sulla “moneta piccola” (quella utilizzata per i piccoli scambi quotidiani, gli “spiccioli” insomma) partendo dall’analisi delle regole per mantenere un “sano sistema di moneta divisionale”... regole tutt’altro che scontate, dato che sono state riconosciute diffusamente come valide solo dal XVII secolo ed applicate per la prima volta in Gran Bretagna solo nel 1816: tra le cause  che avevano impedito, nei secoli precedenti, la piena ed efficace attuazione di tali regole Cipolla cita la limitata sovranità monetaria, fenomeno tipico dell’età Medioevale e tanto più sviluppato nella realtà italiana, fatta di entità politiche territorialmente poco estese, con dinamiche di potere in costante confronto e concorrenza con quelle delle entità vicine.
La moneta “divisionaria“ è pero davvero tale solo quando le diverse specie monetarie sono “in rapporto razionale e costante” tra loro, cioè quando la moneta “piccola” rappresenta un’effettiva frazione del valore dell’”unità monetaria”. Passando ad analizzare il periodo prettamente medioevale, Cipolla precisa che in quegli anni la “moneta piccola” non era davvero “divisionaria”, ma si poneva con la moneta “grossa” in un rapporto più complesso. “Moneta piccola” e “moneta grossa” NON costituivano cioè (come potevo inizialmente pensare, abituato all’euro ed ai suoi centesimi) elementi  differenti, ma raccordati, di un unico sistema organico, bensì proprio due sistemi monetari paralleli, con situazioni di “contatto” ma a loro modo indipendenti, e con diversi contesti di circolazione sia dal punto di vista economico sia dal punto di vista sociale... e quindi con diverse evoluzioni nel tempo e diverse funzioni.
 

Una visione un po' più articolata e complessa al riguardo della effettiva circolazione del fiorino d'oro a Firenze nel quattrocento si può leggere nell'interessante volume di Goldthwaite " La costruzione della Firenze rinascimentale"...

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Altre immagini...

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Molto interessante, @talpa! Questo cambia decisamente la sensazione che mi ero fatto leggendo Il fiorino e il quattrino, in cui mi sembrava fosse descritta quasi una dicotomia tra l’élite che  “guadagnava a fiorini e pagava a quattrini” e tutti gli altri… mi chiedo se il milieu economico-sociale fosse in realtà sovrapponibile tra XIII-XIV secolo e XV-XVI secolo, periodo quest’ultimo a cui fanno riferimento gli esempi descritti in queste pagine… e credo che la differenza possa esserci stata, tuttavia immagino che si sia trattato di un “trapassare” graduale, con comunque una certa circolazione di fiorini nelle classi basse anche prima del XV secolo… in effetti Cipolla faceva riferimento a quei popolani che, in qualche modo, cercavano di mettere da parte un gruzzolo di risparmi proprio in fiorini per mettersi al riparo da eventi inflattivi… gli esempi di queste poche pagine, in cui anche dei carrettieri potevano sperare di ricevere in paga dei fiorini, esemplifica come evidentemente si fosse affermato un benessere “diffuso”, e mi chiedo se il vero punto di svolta in questa evoluzione non si sia avuto proprio nel periodo di stabilità del corso del fiorino nel terzo quarto del XIV secolo, il cosiddetto periodo delle “vacche grasse” come accennato (mi pare, cito a memoria) da Cipolla stesso!


Inviato (modificato)
29 minuti fa, Ulpianensis dice:

Molto interessante, @talpa! Questo cambia decisamente la sensazione che mi ero fatto leggendo Il fiorino e il quattrino, in cui mi sembrava fosse descritta quasi una dicotomia tra l’élite che  “guadagnava a fiorini e pagava a quattrini” e tutti gli altri… mi chiedo se il milieu economico-sociale fosse in realtà sovrapponibile tra XIII-XIV secolo e XV-XVI secolo, periodo quest’ultimo a cui fanno riferimento gli esempi descritti in queste pagine… e credo che la differenza possa esserci stata, tuttavia immagino che si sia trattato di un “trapassare” graduale, con comunque una certa circolazione di fiorini nelle classi basse anche prima del XV secolo… in effetti Cipolla faceva riferimento a quei popolani che, in qualche modo, cercavano di mettere da parte un gruzzolo di risparmi proprio in fiorini per mettersi al riparo da eventi inflattivi… gli esempi di queste poche pagine, in cui anche dei carrettieri potevano sperare di ricevere in paga dei fiorini, esemplifica come evidentemente si fosse affermato un benessere “diffuso”, e mi chiedo se il vero punto di svolta in questa evoluzione non si sia avuto proprio nel periodo di stabilità del corso del fiorino nel terzo quarto del XIV secolo, il cosiddetto periodo delle “vacche grasse” come accennato (mi pare, cito a memoria) da Cipolla stesso!

 

In linea di massima gli assunti di Cipolla sul sistema monetario del tardo medioevo restano validi in generale, ma ovviamente la storia non si presta mai a schemi universali di interpretazione validi sempre e comunque, bisogna andare a vedere caso per caso con tutte le distinzioni e situazioni specifiche in base ai luoghi e ai periodi, Firenze indubbiamente è un caso molto particolare con la sua economia eccezionalmente prospera e vitale in determinati periodi e con le relative ricadute sul piano dell'utilizzo e circolazione delle specie monetarie, nel suo caso il fiorino d'oro, soprattutto tra la fine del trecento e tutto il quattrocento, non era solo e semplicemente la valuta degli scambi internazionali, ma era il riferimento tout court di tutti gli scambi anche interni e sicuramente anche i ceti meno agiati ne potevano avere una certa consuetudine nella loro esperienza lavorativa, ovviamente se un artigiano avrebbe potuto maneggiarne quantità di poche decine di pezzi ogni anno un banchiere ne avrebbe maneggiato sacchetti di centinaia e migliaia di pezzi (Ci sarebbe inoltre tutto un discorso alquanto complesso da fare sulla qualità dei vari fiorini in corso e sul cosiddetto fiorino di suggello, vi era una articolata distinzione di valore in base ai livelli di qualità e usura dei fiorini, con quelli nuovi di zecca che facevano premio in varie percentuali su tutti gli altri e con la distinzione operata mediante l'uso di sacchetti sigillati con colori diversi)... Con una certa probabilità la situazione in tante altre piazze era diversa e più segnata da una marcata distinzione di uso delle diverse specie monetarie tra i differenti ceti...

Modificato da talpa
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Ritornando sull'argomento, semplificando in modo estremo, è come se ci fossero stati due livelli di circolazione: quello della moneta piccola che, nel prosieguo degli anni, assume quasi un valore fiduciario legato al suo nominale, pur conservando per secoli un contenuto sempre minore di metallo prezioso, anche collegato ad un trend inflazionistico costante, e quello della moneta grossa, la cui impronta per l'identificazione dell'emittente costituiva una garanzia (ducato e grosso veneziani, fiorino di Firenze, ecc.), paragonabile ad una sorta di moneta merce, il cui rapporto rispetto alla moneta piccola variava sulla base della quotazione internazionale del metallo (oro o argento) e del variabile rapporto di valore oro/argento nell'ambito delle monete argentee ed auree. Per quanto riguarda i metalli preziosi, questi erano disponibili in quantità limitate, la cui scarsità nel tempo aveva limitato anche la crescita economica e gli scambi internazionali, questo fattore aveva poi stimolato l'elaborazione di strumenti finanziari atti a superare la scarsità di metalli preziosi. Allo stesso modo, la scarsità di metalli, a livello locale, aveva contribuito a spingere i governi locali alla soddisfazione precipua della domanda di moneta, portando all'emissione di numerario piccolo sempre più svilito e con un rapporto sempre più svalutato rispetto alla moneta grossa. A questo punto si potrebbe parlare di una sorta di circolazione fiduciaria della moneta piccola, alla quale era sul mercato locale veniva riconosciuto un valore reale superiore a quello effettivo legato al contenuto di metallo, che invece si rifletteva nel suo rapporto con la moneta grossa. Come evidenziato in uno degli articoli esposti in precedenza, lo scopo dei governi locali era il mantenimento della pace sociale attraverso il supporto del valore reale dei salari corrisposti in moneta piccola. In poche parole, quello che contava veramente era che l'emolumento fosse sufficiente a soddisfare le necessità primarie della famiglia del salariato e del piccolo artigiano. Alla fine, si può affermare che i governi cittadini dell'Italia del basso medioevo avevano adottato empiricamente, più o meno consapevolmente, alcune delle leggi economiche che saranno compiutamente teorizzate nei secoli a venire. 

Saluti

Federico

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Inviato (modificato)
20 ore fa, ceolo dice:

Alla fine, si può affermare che i governi cittadini dell'Italia del basso medioevo avevano adottato empiricamente, più o meno consapevolmente, alcune delle leggi economiche che saranno compiutamente teorizzate nei secoli a venire. 

Diciamo - ribaltando il rapporto causa-effetto - che quanto accadeva di fatto - monetariamente parlando - in epoca medioevale - avrebbe permesso nei secoli successivi la  formulazione del le teorie monetarie ed economiche che spiegano il fenomeno 

Modificato da numa numa
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Il 27/03/2025 alle 07:56, Ulpianensis dice:

A questo proposito non ricordo però dati precisi che vadano oltre il caso del matapan, e forse, dei primi grossi milanesi… voglio dire, per i grossi genovesi, ad esempio, o per quelli toscani, mi mancano dati sull’intrinseco della “moneta piccola” di riferimento coeva… qualcuno (@fra crasellame, @dizzeta, @monbalda, @magdi) avrebbe dati in proposito? 

 

Buongiorno, ti ringrazio per avermi indegnamente citato insieme a dei veri studiosi della materia ma io posso solo indirizzarti agli studi più recenti che sono usciti e puoi trovare in rete:

Monica Baldassarri - Daniele Ricci: I grossi d'argento e la monetazione di Genova tra. Due e Trecento: nuovi dati ed osservazioni per vecchi problemi.

Ma anche

Monica Baldassarri: I denari della zecca di Genova e i loro frazionati tra il XII e il XIV secolo (Nac 2009)

Monica Baldassarri: Coniazioni ed economia monetaria del Comune di Genova dalle origini al Trecento (Nac 2016)

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