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Le aste numismatiche ed i siti di vendita soprattutto stranieri sono subissati da monete chiaramente provenienti dal Medio Oriente. Certamente guerre e vuoti di potere nella regione lasciano mano libera al commercio di tali reperti archeologici.
 

Parla Matthiae: «In Siria ci sono altri tesori, dobbiamo scavare ancora»

Alcune delle scoperte degli italiani a Ebla

«La mia ultima campagna di scavi in Siria è finita nel 2010. Dal 1964 e fino a quel momento, ho trascorso lì due o tre mesi l’anno». In queste parole è racchiusa tutta la dedizione di Paolo Matthiae. Ha insegnato Archeologia e Storia dell’arte del Vicino Oriente antico all’Università La Sapienza di Roma e a 70 anni continuava a seguire i lavori sul campo, nonostante fosse «un po’ faticoso a quell’età». E nonostante quei «piccoli problemi» dovuti all’attività archeologica: «Il sole, la polvere, il vento, e poi lo stare fermo per osservare con attenzione, il che non giova alla circolazione». Per Matthiae, la Siria è «il secondo Paese», protagonista del suo libro La Siria antica. Arte e architettura (Einaudi, pagine 304, euro 36,00).

Nel volume afferma che nell’archeologia orientale la Siria dell’Età del bronzo è stata trascurata e sottostimata. Che cosa intende?

«L’esplorazione delle grandi civiltà dell’Oriente classico cominciò nel 1842 nella Mesopotamia settentrionale. In Siria, invece, le prime spedizioni risalgono a mezzo secolo dopo. A questo ritardo si aggiunge la casualità. Soprattutto in passato, l’avvio di una campagna poteva dipendere da un interesse da parte degli archeologi, che sceglievano un particolare sito ritenendo che potesse contribuire a risolvere problemi storici già noti. Uno scavo, però, poteva iniziare anche per un fatto occasionale, per esempio dopo un ritrovamento. È il caso delle due scoperte più importanti della prima metà del Novecento in Siria, cioè le città di Ugarit sulla costa mediterranea e di Mari sull’Eufrate. Questi scavi iniziarono in seguito a scoperte accidentali e, per controllare se fossero siti d’interesse, a Ugarit fu inviato il professor Schaeffer, a Mari il professor Parrot. Non si erano posti un problema storico, ma da grandi archeologi quali erano capirono subito l’importanza dei due siti».

A Ebla, dove fu lei a intraprendere gli scavi, quali fattori spinsero ad avviare una campagna?

«Gli scavi di Ebla sono legati a un fatto occasionale, anche se scelsi quest’area a partire da un problema storico. Nel 1962, con la mia tesi di laurea, avevo studiato la Siria del II millennio a. C. ed ero interessato a trovare un sito che, per la dimensione o la cronologia, potesse offrire risultati importanti. Quando chiesi di avere la concessione di scavo per l’Università di Roma, il sito si chiamava Tell Mardikh. Ancora non sapevamo che fosse Ebla, ma lo accertammo nel 1968 grazie al ritrovamento di un’iscrizione. Questa città era stata cercata a nord, a ovest e a est di Aleppo, anche in Turchia. Tell Mardikh, invece, si trova 55 chilometri a sud di Aleppo».

La scoperta di Ebla gettò luce sull’interno della Siria, trascurato dalle spedizioni precedenti. Scavare in zone diverse della Siria significa indagare civiltà differenti?

«La Siria ha una struttura geografica, e quindi anche storica, molto varia. La zona costiera è una stretta fascia di pianura mediterranea. Poi incontriamo le catene montuose note come Libano e Anti-Libano. Spingendoci verso l’interno, troviamo una regione pianeggiante e, andando verso e oltre l’Eufrate, un’area desertica. Questa conformazione ha avuto un impatto sulle esplorazioni archeologiche, perché uno scavo sulla costa, uno nella Siria centrale e un altro più a oriente hanno esiti diversi. Sono sintomatici quelli di Ugarit, Ebla e Mari. Tutti e tre mostrano una certa frammentazione delle culture. Ugarit è sempre stata definita proto-fenicia, perché è del XIV-XIII secolo a. C. e, nel XII secolo, a nord e a sud di questa zona cominciò a svilupparsi la civiltà fenicia. Mari, invece, è situata nell’estremo oriente della Siria ed è considerata la più occidentale delle città mesopotamiche».

Ebla, invece?

«Ebla si trova tra Aleppo e Damasco ed è tipicamente siriana. La sua storia si divide in tre fasi e copre un arco temporale che va dal 2500 al 1600 a. C. circa. È del 2350 a. C. il Palazzo Reale in cui, nel 1975, trovammo gli archivi reali di Ebla. 17mila frammenti che formano tra i 4 e i 5mila testi interi. Un tesoro epigrafico straordinario. Di Ebla conosciamo molto: templi, palazzi, fortificazioni, anche una parte della Necropoli Reale. Una superficie di circa 60 ettari di cui, però, abbiamo scavato tra il 5% e l’8%, nonostante le 47 campagne di scavo che ho condotto».

Che influenza ha avuto sull’attività archeologica la guerra civile siriana?

«Ovunque, la situazione politica, sociale ed economica influenza la conduzione degli scavi. Quando cominciai le esplorazioni, erano in corso sette o otto campagne straniere. Nel 2010 ce n’erano 120. Poi, con lo scoppio della guerra civile, lasciammo la Siria. Prima di questo momento, il Paese era diventato un paradiso dell’archeologia orientale, in parte grazie alla scoperta degli archivi di Ebla. Questo spinse molti Paesi a prestare più attenzione alla Siria, capendo che anche lì si potevano trovare testi cuneiformi così antichi. All’epoca, infatti, si riteneva che in Siria questa scrittura avesse cominciato a diffondersi verso il 1800 a. C. Alcuni miei colleghi mi dissero: “Allora possiamo trovare altre città come Ebla”. Ma nel 2010 l’attività archeologica si è interrotta. Alcuni scavi, anche se condotti dalle autorità siriane, sono continuati nella zona costiera, abitata dagli alauiti. Il governo, infatti, era di minoranza alauita».

Secondo lei, ora che in Siria la situazione sta cambiando, quale potrebbe essere la prospettiva futura per l’attività archeologica?

«Non è facile immaginare come si possa comportare la nuova Siria. Quel che è certo è che ha ancora molto da offrire. Altro aspetto indubbio sono i seri problemi che il patrimonio artistico, archeologico e architettonico ha corso, nonostante la Direzione delle antichità abbia messo in salvo i reperti di molti musei. Gli eserciti dell’Isis hanno danneggiato il tempio di Baalshamin, a Palmira. Essendo antecedente all’Islam, rappresenta un’eredità considerata riprovevole dagli jihadisti. Dicevano anche che se avessero conquistato Damasco, avrebbero distrutto il mausoleo di Saladino. Rimasi perplesso quando lo sentii: Saladino cacciò i crociati dalla Siria e restituì al mondo islamico quello che era stato portato in Occidente. Secondo l’ideologia jihadista, però, non ci può essere un uomo che si elevi verso Allah. Quello che auspico è che la Siria sia un Paese in cui coloro che appartengono alle molte minoranze siano tutti cittadini in ugual modo. Avendo io 85 anni, vorrei che facessero un po’ presto, in maniera che possa vederlo».

 

 


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