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Le attività di recupero e restauro conservativo dei reperti presso il ricovero austro-ungarico in caverna di Monte Scorluzzino PER APPROFONDIRE https://www.archaeoreporter.com/it/20... Le attività sono state effettuate su incarico del Parco Nazionale dello Stelvio - Lombardia da SAP - Società Archeologica srl nell’ambito del Progetto d’area Grande Guerra - Strategia Area Interna Alta Valtellina scheda 5.1 “Progetto d’area Grande Guerra: valorizzazione delle testimonianze e recupero dei manufatti (itinerari trincee)” (Spesa agevolata a valere sul Programma POR FESR Lombardia 2014 2020 Asse VI) Lotto 1 ID Operazione: 19014 30, CUP G99E19002020009. L'intervento si è svolto previa autorizzazione e sotto la direzione scientifica della Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per le province di Como, Lecco, Monza-Brianza, Pavia, Sondrio e Varese.
 

 

L’ultimo pomeriggio della Grande Guerra intrappolato tra i ghiacci dello Stelvio: archeologia dei conflitti nella caverna dello Scorluzzino

26 Dicembre 2023
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Archeologia della Grande Guerra: una capsula del tempo tra i ghiacci della caverna sullo Scorluzzino sopra lo Stelvio - Elmetto autroungarico ritrovato (ph.ArchaeoReporter)

La vanga, l’elmetto, i caricatori, persino i giornali. Tutto si è fermato all’ultimo pomeriggio della Grande Guerra, il 3 novembre 1918, imprigionato nel ghiaccio del ricovero in caverna scavato a quasi 3.000 metri, sul Monte Scorluzzino, a guardia del Passo dello Stelvio. Gli austro-ungarici avevano tenuto la posizione, uno dei presidi più in alta quota della Prima guerra mondiale, fin dal maggio 1915.

Dopo tre anni e mezzo, però, era arrivato il momento di andarsene il più velocemente possibile. Proprio in quelle ore in una sala di Villa Giusti, al limitare della campagna padovana, la delegazione imperiale firmava l’armistizio. Si era attorno alle 15 e 20, e – per volontà italiana – si sarebbe ancora combattuto per un giorno, nella corsa in avanti ormai inarrestabile del Regio Esercito che dilagava ben oltre il Piave. Il peggior momento per morire in azione, o essere presi prigionieri e rischiare di lasciarci la pelle mesi dopo, per privazioni e malattie in qualche baracca lontana da casa. Così, il presidio austro-ungarico dello Scorluzzino, come quelli circostanti, abbandonò le linee.  Tutto quanto poteva essere considerato inutile nella disperata discesa verso la Val Venosta venne lasciato sul posto. L’inverno molto nevoso, e quello successivo del 1919 fecero il resto, e di fatto sigillarono la situazione. Con il tempo appassionati, cercatori di cimeli e semplici curiosi, nel corso di un secolo fecero visita al ricovero, ma la parte più profonda, con l’acqua penetrata tra le rocce solidificata in duro ghiaccio, riuscì a resistere e a conservare preziose informazioni. Ecco quindi emergere reperti, proprio quando le temperature sempre più alte in montagna stavano mettendo a rischio il sito archeologico, perché di questo ormai si tratta: archeologia dell’età contemporanea, archeologia della Grande Guerra.

Il concetto di “capsula del tempo”, spesso abusato, ha una ragion d’essere dove le basse temperature hanno aiutato a preservare il materiale e a tenere alla larga fattori esterni, per non parlare delle attività antropiche. E allo Scorluzzino il concetto può essere parzialmente applicato. Ora sappiamo che l’esercito austroungarico a così grande distanza dal mare utilizzava pagliericci riempiti non con paglia ma con alghe, molto adatte per le peculiarità antisettiche. Una catena logistica impressionante che partiva dall’Istria per arrivare ai 2.995 metri di quota. Che la propaganda italiana lanciava giornali irredentisti nelle trincee anche laddove la guerra bianca rendeva molto più rarefatta la presenza di militari. Il ghiaccio ha conservato le pagine dei giornali, note, corrispondenze. Ci sono i caricatori per le armi a ripetizione, le vanghette di ordinanza, i chiodi dove appendere le giberne e le giberne stesse. Scatolette di cibo raschiate a fondo per la fame, provata anche i noccioli di albicocca spessati per poterne mangiare il contenuto, chiaro segno di inedia. Questo nei 12 metri di profondità scavati nella roccia, per tre metri di larghezza e circa un paio di metri di altezza, completamente rivestiti di legno della Val Venosta accuratemente lavorato e ancora orgogliosamente sul posto a svolgere la sua funzione, anche se ormai compromesso dagli anni in alcuni punti come centinatura.

Le attività di recupero e restauro conservativo dei reperti presso il ricovero austro-ungarico in caverna di Monte Scorluzzino, realizzate in condizioni climatiche e logistiche naturalmente complesse, sono state effettuate su incarico del Parco Nazionale dello Stelvio – Lombardia,  da SAP – Società Archeologica, seguite dal professor Stefano Morosini dell’Università degli studi di Bergamo. Si tratta di progetto nato per valorizzare le testimonianze e recuperare importanti manufatti della Grande Guerra, svolto sotto la direzione scientifica della Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per le province di Como, Lecco, Monza-Brianza, Pavia, Sondrio e Varese (funzionario archeologo Stefano Rossi). Cosa non scontata, perché non tutte le Soprintendenze sono così attente all’archeologia dell’età contemporanea. Negli anni precedenti (2017-2020) si era messo in luce e recuperato, con l’intervento dei volontari del Museo della Guerra Bianca di Temù il ricovero, ancora più grande, del vicino Scorluzzo, denso di testimonianze materiali.

Lo  Scorluzzino, tra l’altro, è indubbiamente un’opera di ingegneria militare che merita di essere studiata e documentata a fondo: l’ingegner Pietro Azzola (Università di Bergamo) ha quindi svolto rilievi con metodologia integrata 3D laser-scanning e fotogrammetria terrestre e con drone per fissare su modelli tridimensionali scientifici il manufatto.

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