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Arte trafugata al Metropolitan Museum


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Arte trafugata al Metropolitan Museum di New York: nel museo statunitense oltre mille opere rubate anche in Italia

Nel suo catalogo compaiono 1.109 statue, vasi e reperti archeologici che appartenevano a collezionisti e mercanti incriminati o condannati per furti e ricettazioni. Più di 300 sono esposti. L’inchiesta dell’Espresso con il consorzio Icij e altre testate internazionali

di Paolo Biondani e Leo Sisti
 

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Oltre mille opere presenti nel catalogo ufficiale del Metropolitan Museum di New York nascondono una storia giudiziaria imbarazzante: a possederle in passato erano collezionisti o mercanti che risultano incriminati o condannati per presunti furti e traffici clandestini di reperti archeologici e preziosi pezzi d’arte antica. Su un totale di 1.109 opere di provenienza sospetta, ben 309 sono tuttora in mostra nelle sale del prestigioso museo americano. E più di 800 erano di proprietà di un unico mediatore internazionale, che era stato indagato in Italia, ma è stato salvato dalla prescrizione.

A svelare questi retroscena del mercato mondiale dell’arte è un’inchiesta giornalistica chiamata Hidden Treasures (Tesori nascosti), durata cinque mesi e coordinata dall’International Consortium of Investigative Journalists (Icij) in collaborazione con L’Espresso (in esclusiva per l'Italia), il sito investigativo Finance Uncovered e altre testate internazionali. Una ricerca che solleva pesanti dubbi sulle procedure di verifica e controllo del Met, considerato il più importante museo americano, con le sue gallerie piene di tesori provenienti dall'Italia e da molte altre nazioni, dalla Grecia all’Egitto, dall’India al Nepal, dal Medioriente alla Cambogia. Collezioni che richiamano schiere di appassionati e influenzano molti altri musei in tutto il mondo.

Un collezionista di New York, Jonathan P. Rosen, è il «mister 800» di questa storia. Professione: banchiere. E investitore immobiliare. Segni particolari: ricchissimo. Il suo nome è ripetuto molte volte nelle 1.500 pagine della sentenza del tribunale di Roma che alla fine del 2004 ha condannato un suo fornitore italiano, Giacomo Medici, come uno dei più grandi trafficanti internazionali di reperti archeologici trafugati. Con la sua Atlantis Antiquities di New York, il banchiere Rosen si mette in società, negli anni ‘80 e ’90, con Robert Hecht, altro raffinato esperto d’arte e mercante americano. La sentenza ricostruisce i primi affari italiani di Rosen. Nel 1987, in particolare, la sua società cede al Getty Museum della California, per 80 mila dollari, un tripode etrusco, insieme a un antico candelabro di bronzo da 65 mila, dichiarando che erano stati esportati legalmente dall’Italia e quindi acquistati regolarmente due anni prima a Ginevra. Sono bugie clamorose. I due reperti, come si accerta nelle successive indagini e processi, erano stati rubati dalla collezione di famiglia del marchese Guglielmi.

I due soci americani, Rosen ed Hecht, vengono quindi indagati nel 1997 dalla Procura di Roma per furto e traffico internazionale di opere d’arte. Con l’italiano Medici, secondo l’accusa, formano un trio specializzato nel business dei reperti archeologici. In primo grado, nel marzo 2005, il giudice di Roma Guglielmo Muntoni, al termine di un processo svoltosi con rito abbreviato, ha condannato Medici a 10 anni di reclusione: una pena poi ridotta in appello a 8 anni e quindi confermata in via definitiva dalla Corte di Cassazione.

Sempre il giudice Muntoni, in udienza preliminare, si è espresso sulle posizioni di Hecht e della ex curatrice delle antichità del Museo Getty, Marion True, che erano accusati di associazione per delinquere e ricettazione di beni archeologici trafugati da tombaroli. Il 7 luglio 2005 li ha rinviati a giudizio davanti al tribunale di Roma. Il processo, lentissimo, si è chiuso diversi anni dopo con un proscioglimento all’italiana: entrambi, tra il 2010 e il 2012, hanno ottenuto la prescrizione dei reati.

Quanto a Rosen, il fornitore del Getty non è mai stato giudicato, come ha spiegato all’Espresso lo stesso giudice Muntoni, per la stessa ragione: «A differenza di Hecht e True, il signor Rosen era stato incriminato solo per ricettazione, non per associazione per delinquere. Gli episodi a lui attribuiti risultavano commessi prima del 1987 e, quindi, erano vicinissimi alla prescrizione già quando era stato aperto il procedimento a suo carico. Per questo motivo, Rosen non è mai stato rinviato a giudizio e di conseguenza non è stato sottoposto al processo». Intanto il tripode e il candelabro che risultavano trafugati sono stati restituiti dal Museo Getty all’Italia.

In passato Rosen era stato chiamato in causa anche per un altro scandalo, che riguarda 10 mila antiche tavolette mesopotamiche, donate dalla sua famiglia alla Cornell University. Era stato il Los Angeles Times, nel 2013, a ipotizzare, citando il parere di alcuni esperti, che quei reperti fossero stati saccheggiati dall’Iraq dopo la prima guerra del Golfo del 1991. Sul caso aveva aperto un’indagine la procura federale degli Usa. Alla fine, le tavolette sono state restituite a Baghdad. Rosen, tramite un avvocato, ha precisato che le tavolette erano state «acquistate legalmente» e che «nessuna prova di illeciti» era mai emersa dall'inchiesta americana.

Ma c'è anche un altro personaggio italiano collegato alla società Atlantis Antiquities di Hecht e Rosen: è Gianfranco Becchina, un mercante d’arte di Castelvetrano. Che ha fatto diversi affari trattando personalmente con Hecht. L’Espresso ha pubblicato il 29 gennaio scorso un primo articolo («Ruba l'arte e mettila al museo») che ha rivelato, grazie al parere di alcuni archeologi, come almeno sette opere di provenienza furtiva, ora ritrovate al Met, provenivano dalla sua galleria svizzera, chiamata Galerie Antike Kunst Palladion. In questi anni Becchina è stato bollato dalla Commissione antimafia presieduta da Rosy Bindi come un uomo d’affari «vicino sia alla famiglia mafiosa di Campobello di Mazara sia a quella di Castelvetrano», che è risultata «attiva nel commercio illecito di reperti archeologici provenienti da scavi clandestini nell'area di Selinunte», con «interessi facenti capo a Matteo Messina Denaro e, prima ancora, a suo padre Francesco». Becchina si è sempre proclamato innocente. Ma per gli stessi presunti legami si è visto sequestrare il patrimonio dai giudici del tribunale delle misure di prevenzione. 

Questo allarme viene ora confermato ai giornalisti di icij anche da Bruce McNail, ex partner di Robert (Bob) Hecht, fornitore del Met fin dagli anni ’50: «Non penso che Bob rivelasse in modo specifico al museo da dove provenivano quelle cose. Mi chiedete se io sapevo che arrivavano da siti illegali? No, ma lo intuivo». McNail, che oggi è pentito di quegli affari, fa dichiarazioni ancora più esplicite sui fornitori iniziali di quelle opere d’arte, in Italia e Turchia: «È un business gestito dalla mafia, bisogna stare molto attenti. Questa è gente dura. Io mi sono sempre detto: "Se la veda Bob, non voglio avere niente a che fare con persone del genere”».

Parole pesanti. Che trovano riscontro anche in un libro di memorie scritto da Thomas Hoving, direttore del Met dal 1967 al 1977. Nel saggio, Hoving si vanta di aver trasformato il Met in un museo di caratura mondiale per il livello delle opere contenute. Sono stati, racconta, dieci anni di transazioni spericolate. Essere complici di trafficanti, scrive lui stesso, era necessario per il ruolo che ricopriva. Hoving rivela tra l’altro di aver approvato l'acquisto di grandi collezioni di antichità indiane e cambogiane, anche se già sospettava che fossero state contrabbandate. E quando le autorità turche gli chiesero la restituzione di presunti reperti trafugati, l’allora direttore del Met lo ammise, dichiarando al curatore di un museo greco: «Sappiamo tutti che quel materiale è stato scavato illegalmente… Per l'amor di Dio, se i turchi troveranno delle prove, finirà che dovremo restituiremo il tesoro dell’arte greca antica. Questa è la politica. Abbiamo corso dei rischi facendo quegli acquisti».

Secondo Erin Thompson, docente di Art Crime al John Jay College of Criminal Justice di New York, il problema è l’ambizione al primato globale. «Il Met è stato fondato per essere in competizione con i maggiori musei del mondo, quindi voleva avere di tutto». Alla fine del suo mandato al Met, lo stesso Thomas Hoving ha tuttavia cercato di cambiare le pratiche di acquisto. All'inizio degli anni Settanta, ha preso parte alle sessioni dell'Unesco sulle antichità saccheggiate. E si è subito reso conto che «l'era della pirateria era finita». Per questo, poco dopo, ha deciso di modificare i criteri e i metodi seguiti dal Metropolitan Museum per creare le sue collezioni. Nonostante queste riforme interne, però, il numero delle opere di provenienza sospetta è continuato ad aumentare.

I giornalisti di Icij hanno chiesto all’attuale direzione del Met un commento su tutte queste notizie. Il portavoce Kenneth Weine non ha smentito i dati, ma ha risposto così: «Il Metropolitan Museum è impegnato nel collezionismo responsabile di opere d'arte. Si impegna a fondo per garantire che gli acquisti degli oggetti della sua collezione siano conformi alle leggi e alle politiche più rigorose in vigore al momento dell'acquisizione. Le linee guida del collezionismo sono mutate nel tempo. Quindi, sono cambiate anche le politiche e le procedure del Museo. Oggi il Met effettua continue ricerche sull’origine delle sue collezioni, in collaborazione con esperti di tutto il mondo».

Questo articolo è il frutto del lavoro collettivo dei giornalisti dell'Espresso e di altre testate internazionali, in particolare di Spencer Woodman (Icij), Malia Politzer (Finance Uncovered), Delphine Reuter (Icij), Namrata Sharma (Nepal, Free Lance), Emilia Díaz-Struck (Icij), Karrie Kehoe (Icij), Jelena Cosic (Icij), Agustin Armendariz (Icij).

https://espresso.repubblica.it/inchieste/2023/03/20/news/metropolitan_museum_new_york_opere_rubate-392985046/

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Inviato

Il traffico di reperti rubati per i grandi musei: nei sequestri in Usa sono coinvolti anche trafficanti italiani

Dal Met di New York al Getty di Los Angeles, statue e reperti d’epoca greco-romana sono finiti nelle sale espositive più famose del mondo. L’indagine americana svela il ruolo di un ricco mercante siciliano collegato a Matteo Messina Denaro

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Castelvetrano, 1985. Jiri Frel, già curatore del museo Getty di Los Angeles, entra nella casa di un mercante d’arte siciliano. Lo studioso di origine cecoslovacca non sa nulla di mafia, ignora di trovarsi in un centro storico dominato da una delle più potenti famiglie di Cosa nostra. A riceverlo è Giovanni Franco Becchina, detto Gianfranco, classe 1939. Frel lo conosce solo come valido fornitore di pezzi d’arte antica, con clienti dalla Svizzera agli Stati Uniti, che ha già venduto al Getty più di cinquanta preziosi reperti classici.

https://espresso.repubblica.it/inchieste/2023/01/30/news/arte_furti_musei-385341333/


Inviato (modificato)
10 ore fa, petronius arbiter dice:

Niente di particolarmente nuovo, purtroppo, si sa da tempo che i musei americani sono pieni di reperti archeologici che non dovrebbero essere lì :glare:

Valga per tutti uno "delle nostre parti", il Lisippo di Fano

https://it.wikipedia.org/wiki/Atleta_di_Fano#Contesa_tra_Stato_italiano_e_Getty_Museum

petronius

 

Ma a volte possono anche tornare, e proprio dal Getty:

Forse ci sarebbe bisogno di un po' più di costanza e fermezza....

Ma già a gennaio si è tornato a parlare del rientro pure del Lisippo:

https://www.msn.com/it-it/notizie/italia/vittorio-sgarbi-“riprendo-in-mano-il-caso-lisippo”/ar-AA17Ilhc

Sperando che non siano solo parole...

Modificato da ARES III

Supporter
Inviato

Niente di nuovo....
E costanza e fermezza con gli Americani... a cui siamo sottom... (ah, no, pardon, scusate... è il T9 che ha fatto casino, volevo dire di cui siamo alleati paritari) non è proprio semplicissimo. 😉😁


Inviato (modificato)
1 ora fa, Vel Saties dice:

Americani

Dovremmo spiccare dei mandati di arresto internazionale...ops non si può perché non hanno firmato nessun accordo/trattato, per cui restano impuniti tranquillamente, come quelli che hanno usato il fosforo bianco a Fallujah in Irak o quando il 4 marzo 1999 la corte marziale di Camp Lejeune, negli Stati Uniti, dichiarò il capitano Richard Ashby e il suo navigatore Joseph Schweitzer non colpevoli per la strage del Cermis. Il pilota dei marines era alla guida del jet che tranciò i cavi della funivia in Trentino provocando venti morti.....

C'è chi può e chi no nel mondo!

Modificato da ARES III

Supporter
Inviato
19 ore fa, ARES III dice:

Dovremmo spiccare dei mandati di arresto internazionale...ops non si può perché non hanno firmato nessun accordo/trattato, per cui restano impuniti tranquillamente, come quelli che hanno usato il fosforo bianco a Fallujah in Irak o quando il 4 marzo 1999 la corte marziale di Camp Lejeune, negli Stati Uniti, dichiarò il capitano Richard Ashby e il suo navigatore Joseph Schweitzer non colpevoli per la strage del Cermis. Il pilota dei marines era alla guida del jet che tranciò i cavi della funivia in Trentino provocando venti morti.....

C'è chi può e chi no nel mondo!

 

Sai che pensavo proprio a questi episodi... del tutto casuali ed involontari? alla fine sono dei ragazzi... lasciamo che si divertano, no?


Inviato
1 ora fa, Vel Saties dice:

divertano

A casa loro, se glielo fanno fare...

1 ora fa, Vel Saties dice:

ragazzi

Mi sembra che hanno tutti più di vent'anni. Quindi ragazzi non lo sono più, o al meno non per quello che riguarda la maturità intellettuale.

Vorrei vedere cosa ne penserebbero loro se qualcuno gli rigasse la macchina o gli sfasciasse la bici elettrica....

Sono stato educato a rispettare tutti a patto della reciprocità.


  • 1 mese dopo...
Inviato
 
 
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 Alcune delle opere d'arte cambogiane che secondo l'inchiesta dell'ICIJ sarebbero state trafugate (Metropolitan Museum of Art)

Il Met di New York ha un grosso problema di reperti archeologici rubati

Un'inchiesta internazionale ha raccontato come per anni abbia allargato la propria collezione con metodi spericolati

 

Da oltre un decennio, l’ufficio del procuratore distrettuale di Manhattan (l’equivalente della nostra procura, più o meno) ha un’intera unità dedicata all’individuazione e al rimpatrio di reperti archeologici e opere d’arte antiche che sono arrivati nelle collezioni di gallerie, musei e privati statunitensi dopo essere stati dissotterrati o trafugati illegalmente nei paesi d’origine.

 

Dal 2011 l’ufficio dice di aver recuperato quasi 4.500 di questi pezzi: il caso più recente è quello del Metropolitan Museum of Art di New York – uno dei più grandi e importanti musei al mondo, noto anche solo come “il Met”, e dove si è appena tenuto un famoso annuale evento mondano – a cui sono stati sequestrati a marzo 15 reperti provenienti originariamente da Turchia e India. I procuratori stanno indagando sulla possibilità che siano stati ottenuti dal museo attraverso Subhash Kapoor, noto contrabbandiere di manufatti antichi recentemente condannato al carcere da un tribunale indiano per traffico di oggetti d’antiquariato per un valore superiore ai 100 milioni di dollari.

Negli ultimi anni, soprattutto negli Stati Uniti, le indagini incentrate sull’identificazione e la restituzione di oggetti di valore artistico e culturale importati illegalmente da commercianti e collezionisti si sono moltiplicate: dal 2007 sono state più di 20mila le opere restituite ai paesi di origine. «Per dirla senza mezzi termini, ogni museo [statunitense, ndr] che colleziona reperti archeologici ne ha alcuni ottenuti attraverso saccheggi. La scala del fenomeno è enorme e inquietante» ha detto al San Francisco Standard Donna Yates, criminologa esperta di traffici illegali di oggetti culturali.

 

Il Met è particolarmente coinvolto in questo fenomeno. Secondo una recente inchiesta giornalistica a cui ha lavorato il Consorzio internazionale dei giornalisti investigativi (ICIJ) insieme ai giornalisti di varie testate internazionali – tra cui L’Espresso in Italia – sono almeno un migliaio gli oggetti nella collezione del Met che erano precedentemente di proprietà di individui che sono stati incriminati o condannati per reati tra cui saccheggio e traffico di opere d’arte. E soltanto tra il 2021 e il 2022 i procuratori di Manhattan hanno ordinato sei operazioni di sequestri di reperti archeologici appartenenti al museo.

 

Un caso che ha fatto particolarmente discutere è stato quello dell’antica bara egizia accanto a cui ha posato l’influencer Kim Kardashian durante il gala annuale organizzato dal Met nel 2018. Il fatto che la foto della bara fosse stata vista da milioni di persone ha permesso di scoprire che era stata rubata nel 2011 – e non acquistata legalmente nel 1971, come diceva una finta licenza di esportazione – e che era passata per Dubai, Germania e Francia prima di arrivare al Met. Il suo contenuto, la mummia di un sommo sacerdote, era stato invece gettato nel Nilo dai contrabbandieri.

 

«Dopo aver appreso che il museo è stato vittima di una frode e aver partecipato inconsapevolmente al commercio illegale di antichità, abbiamo collaborato con l’ufficio del procuratore distrettuale per il suo ritorno in Egitto» ha detto il presidente del Met, Daniel H. Weiss. Ma in realtà il fatto che un museo abbia acquisito in buona fede un’opera antica rubata, senza sapere che era stata saccheggiata, non ha importanza secondo la legge statunitense: non si può mai legalmente essere in possesso di un’opera rubata.

 

Fondato nel 1870, fino agli anni Settanta del Novecento il Met ha utilizzato metodi piuttosto aggressivi per allargare la propria collezione. Il museo non poteva ottenere opere d’arte e altri manufatti dalle colonie, come facevano spesso inglesi e francesi, ma aveva l’ambizione di competere comunque con il Louvre di Parigi e il British Museum di Londra: per farlo, si affidò molto frequentemente a grossi acquisti sul mercato dell’arte internazionale, trascurando il fatto che le opere in questione fossero spesso state portate via dal paese d’origine in modo illegale.

 
 

Già negli anni Cinquanta del secolo scorso, per esempio, il museo acquistò vari reperti archeologici provenienti dall’Italia dal trafficante statunitense Robert E. Hecht. Tra il 1959 e il 1961, Hecht fu formalmente accusato di contrabbando di opere d’arte antiche dalle autorità italiane, che nel 1973 emisero anche un mandato di arresto nei suoi confronti, ma il Met continuò comunque ad acquistare oggetti da lui e dai suoi soci. In un caso acquistarono anche un vaso greco molto raro per un milione di dollari. Secondo Bruce McNall, ex socio di Hecht che lo aiutò nella vendita delle opere al Met, il museo non fece molte domande su come fosse entrato in loro possesso: «Sapevano che gli oggetti erano stati trafugati in modo illegale? No, ma esisteva il sospetto. Non ci siamo mai veramente addentrati nel merito», ha detto ai giornalisti dell’ICIJ.

Il Met possiede tuttora una ventina di pezzi che sono passati per le mani di Hecht, tra cui sette vasi greci: il museo non offre alcuna informazione sulla loro provenienza o su come abbiano lasciato il paese d’origine. Inoltre possiede 800 oggetti che sono stati di proprietà di Jonathan P. Rosen, un altro stretto socio di Hecht che nel 1997 è stato accusato insieme a lui di contrabbando di opere d’arte antiche. Altre istituzioni statunitensi, come il Cleveland Museum of Art e l’Università Cornell, negli ultimi anni hanno restituito ai paesi d’origine dei reperti che erano stati donati da Rosen, sospettando che fossero stati trafugati.

La persona che più lavorò per trasformare il Met in un museo che potesse rivaleggiare con le grandi istituzioni europee – anche a costo di fare affari con personaggi loschi – fu però Thomas Hoving, direttore del museo tra il 1967 e il 1977. Nella sua autobiografia, pubblicata nel 1994, Hoving si vantò esplicitamente di avere una lunghissima rubrica di «contrabbandieri e trafficanti» e scrisse che avere a che fare con questo genere di figure era necessario per poter dirigere al meglio il Met.

Tra i vari aneddoti citati nel libro, Hoving ricorda di aver approvato l’acquisto di un grande lotto di reperti indiani e cambogiani pur sospettando che fossero stati contrabbandati, e anche di aver avuto dubbi sul fatto che un’opera in ceramica dell’antica Grecia fosse stata trafugata da un sito archeologico. Il libro riporta anche una conversazione tra Hoving e un curatore greco in cui il direttore del Met dice che «crediamo tutti che [le opere acquistate dal Met] siano state dissotterrate illegalmente. E per l’amor di Dio, se i turchi tirano fuori le prove che è andata così, restituiremo loro le opere. Quella è la nostra politica. È il rischio che abbiamo corso quando abbiamo acquistato le opere».

Soltanto negli anni Settanta, dopo aver partecipato a varie udienze dell’Unesco sul tema, Hoving cambiò il proprio approccio all’acquisizione di opere, dicendo che «l’era della pirateria è finita» e che il Met non avrebbe più fatto ricorso a «metodi di raccolta imprudenti».

Rispondendo alle accuse dei giornalisti dell’ICIJ, il Met ha detto che oggi il museo «fa di tutto per garantire che tutte le opere che entrano nella collezione rispettino le leggi in vigore nel momento dell’acquisizione. Inoltre, poiché le leggi e le linee guida sul collezionismo sono cambiate nel tempo, anche le politiche e le procedure del museo sono cambiate. Il Met fa ricerca continuamente sulla storia delle opere nella collezione, spesso in collaborazione con colleghi in paesi di tutto il mondo, e ha una lunga esperienza nell’agire in base alle nuove informazioni, se è il caso di farlo».

La principale convenzione internazionale a cui fa riferimento il Met è la Convenzione concernente le misure da adottare per interdire e impedire l’illecita importazione, esportazione e trasferimento di proprietà dei beni culturali, firmata nel 1970. La convenzione vieta il commercio di opere che non si trovassero già al di fuori dei loro paesi d’origine nel 1970 e impegna le nazioni firmatarie a cooperare e seguire le migliori pratiche per frenare l’importazione di oggetti rubati.

A ciò si aggiunge il fatto che non tutti gli stati concordano sul fatto che gli oggetti ottenuti prima del 1970 possano continuare a circolare nel mercato dell’arte: vari paesi hanno infatti delle leggi nazionali sul patrimonio culturale che erano già in vigore nel 1970 e che determinano che è illegale esportare determinati manufatti senza una licenza ufficiale. In Italia, per esempio, una legge simile risale al 1909.

Nella pratica, però, queste leggi si sono rivelate insufficienti a mettere fine a pratiche di saccheggio e traffico illegale che si verificano soprattutto in situazioni di conflitto armato, instabilità politica, sociale ed economica o disastri naturali. Per esempio, per anni dopo l’invasione dell’Iraq sul mercato dell’arte si sono trovati a prezzi piuttosto bassi reperti archeologici trafugati durante la guerra. E si ritiene che quasi tutte le opere provenienti dal Nepal e dalla Cambogia che si trovano nei musei occidentali siano state portati via dai due paesi illegalmente.

«Il mercato dei reperti antichi è stato definito il più grande mercato non regolamentato del mondo. Si autoregola e nessuno sa bene cosa succede a porte chiuse», ha detto al Guardian Angela Chiu, ricercatrice esperta di arte asiatica antica. La National Gallery of Australia, uno dei più grossi musei del paese, ha recentemente deciso di smettere di acquistare opere d’arte antiche dopo che si era scoperto che varie sculture nella sua collezione, acquistate a New York dalla galleria del trafficante Subhash Kapoor, erano state molto probabilmente rubate. Le opere sono state restituite al governo indiano.

Musei diversi si stanno approcciando alla questione in modo diverso: nel 2010, per esempio, il Museum of Fine Arts di Boston ha creato la carica di “curatore della provenienza”, incaricato di identificare l’origine di tutti gli oggetti nella collezione. «La strategia adottata dai musei finora è fingere che questi oggetti si siano materializzati dal nulla. Ma stiamo scoprendo sempre più spesso che alcuni sanno esattamente da dove provengono questi pezzi e decidono di mentire al riguardo», ha detto al New York Times Patty Gerstenblith, esperta di patrimonio culturale.

https://www.ilpost.it/2023/05/03/met-reperti-archeologici-trafugati-icij/


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