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Nuove interessanti ipotesi sull’origine dei Bronzi di Riace.

 

di Kasia Burney Gargiulo

 

Dalla mostra “Serial Classic”, curata a Milano da Salvatore Settis e Anna Anguissola presso la Fondazione Prada e dedicata alla scultura classica e al rapporto ambivalente tra originalità e imitazione nella cultura romana, giunge alla ribalta una nuova ipotesi interpretativa sull’identità dei Bronzi di Riace formulata dallo studioso tedesco Vinzenz Brinkmann e commentata dal professor Settis in un articolo apparso su Il Sole24 Ore di ieri. La mostra si sofferma innanzitutto sulla diffusione presso gli antichi romani di multipli intesi come omaggi all’arte greca, ma i nuclei dell’esposizione che ci riportano all’interrogativo, in auge da anni, sulla vera identità e paternità dei Bronzi di Riace, sono quelli dedicati ai temi dei materiali e del colore dei bronzi e dei marmi classici.

Il Bronzo di Riace A nella ricostruzione di Vinzenz e Ulrike Brinkmann, Liebieghaus di Francoforte

Il Bronzo di Riace A nella ricostruzione di Vinzenz e Ulrike Brinkmann – Liebieghaus, Francoforte

A fare da termini di riferimento per una riflessione sul colore originario del bronzo nelle sculture antiche, sono tre opere che testimoniano il tentativo di ricostruire il possibile aspetto dei bronzi in età classica: la prima è una riedizione del Doriforo di Policleto che nel 1910 Georg Roemer, allievo di Adolf von Hildebrand, realizzò a Stettino, in Polonia; la seconda, una versione in gesso, ricoperto di lamina metallica, dell’Apollo di Kassel, del 1991; la terza è un clone del 2015 del Bronzo di Riace A realizzato secondo quella che si suppone sia stata la cromìa originaria. Di quest’ultima scultura, opera di Vinzenz e Ulrike Brinkmann, esperti che al Liebieghaus di Francoforte fanno ricerca da anni sul colore dei bronzi antichi, vi avevamo dato notizia già lo scorso dicembre 2014. Come si può vedere nella foto a sinistra, la cromìa del Bronzo è profondamente diversa da quella verdastra (dovuta all’azione del tempo e degli elementi) alla quale siamo abituati: al suo posto, una compatta ”abbronzatura” va ad unirsi ai dettagli policromi già noti, come i denti d’argento, i capezzoli e le labbra di rame, e a quelli ricostruiti come l’elmo, lo scudo e la lancia in bronzo dorato.

La prima impressione che si ha osservando tale ricostruzione è quella di un risultato tremendamente kitsch, eppure, a parte il colore naturale del bronzo non ossidato, è ormai provato da tempo che sculture e templi nell’antichità erano il più delle volte concepiti in ”technicolor”, a dispetto della visione austera tradizionalmente penetrata nell’immaginario collettivo. Oggi, una nuova frontiera della ricerca archeologica si occupa proprio di questo aspetto, andando a sfatare le maggior parte dei luoghi comuni sul tema. Ed è muovendo da questi studi – nonchè prendendo in considerazione numerosi altri aspetti storico-artistici – che Vinzenz Brinkmann nel catalogo della mostra “Serial/Portable Classic”, edito da Fondazione Prada, ha formulato una nuova ipotesi interpretativa sull’identità dei Bronzi di Riace.

 

 
 

 

L’ipotesi è giocata sulla lettura dello stile che da tali opere, come dalle altre esposte nella mostra, emerge quale cifra identificativa di ogni autore. Accomunate dalla valenza etico-sociale che nell’antichità assumeva la celebrazione scultorea del corpo maschile, le tre opere del V sec. a.C. messe a confronto dalla Fondazione Prada si distinguono appunto per quella serie di dettagli in cui si sostanzia la “personalità” unica dell’artista. Del Bronzo di Riace A – a differenza del Doriforo (di Policleto) e dell’Apollo (di Fidia) accanto ai cui cloni è esposto a Milano – non è dato al momento conoscere con certezza l’autore, sebbene nel tempo si siano fatti molti nomi fra cui quelli celebri di Fidia e di Mirone. Partendo tuttavia dai dettagli “narrativi” delle statue, letti con maggiore attenzione proprio attraverso la loro ricostruzione sperimentale in bronzo, secondo Brinkmann è possibile tentare una identificazione dei personaggi, premessa indispensabile per passare poi alla formulazione di ipotesi ragionate sull’autore (o sugli autori).

Nella ricostruzione della Liebieghaus, vediamo il Bronzo A munito di un elmo corinzio,  che in tre punti frontali lascia intravedere il regale diadema che cinge la capigliatura. Con la mano destra regge una lancia che poggia sull’avambraccio, mentre con la sinistra impugna un grande scudo circolare. L’espressione del volto leggermente in torsione è resa vibrante dalle labbra socchiuse che svelano l’argentea dentatura. Un atteggiamento che nell’insieme sembrerebbe suggerire l’esistenza di un rapporto di interazione e di sfida con un altro personaggio. Brinkmann prova ad argomentare se questo ”altro personaggio” possa essere il Bronzo di Riace B il quale, nello stato attuale, risulta privo di elmo, arma e scudo. Sulla testa vi sono tuttavia tracce (in particolare due placchette in rame) che portano alla presenza di un copricapo, a dire di Brinkmann costituito molto probabilmente dal raro (ma ben noto) alopekis o berretto di pelle di volpe, che lasciava intravedere, dalla bocca aperta dell’animale, una calotta di cuoio alla quale sarebbero appunto riconducibili le placchette. Questo, secondo lo studioso, consentirebbe di dare ragione di altri elementi, finora non decifrati, presenti sulla statua, come ad esempio un supporto presente sulla spalla sinistra e probabilmente destinato a bloccare una delle ipotizzate zampe della volpe. Tale copricapo, tipico della Tracia, dice Brinkmann sarebbe un indizio forte per identificare il personaggio, la cui figura andrebbe completata immaginando l’aggiunta di un’ascia bipenne nella mano destra, e forse un arco con freccia nella sinistra, oltre ad uno scudo leggero. In sintesi, le due statue, connotate da tutti questi attributi, potrebbero raffigurare un Greco e un Trace.

E a questo punto prende corpo il secondo livello di ipotesi sulla identità dei due personaggi: secondo Brinkmann le descritte caratteristiche non possono che ricondursi ad una coppia mitica ben precisa, ossia il re di Atene Eretteo ed il suo avversario Eumolpo, figlio di Poseidone. Nella contesa per il possesso dell’Attica, la lotta di questi due personaggi è ricordata da Tucidide, oltre a figurare nel fregio del tempio di Efesto. Inoltre il geografo Pausania, vissuto intorno al II secolo d.C., racconta che sull’Acropoli di Atene c’erano “due grandi statue di bronzo, che rappresentano due uomini disposti in battaglia, e li chiamano l’uno Eretteo e l’altro Eumolpo”.

Da qui il cruciale interrogativo se le due statue citate da Pausania possano essere proprio i Bronzi di Riace. E’ evidente – sottolinea Settis, nel suo commento – che si tratta di una congettura, ma essa non è avanzata da Brinkmann secondo criteri di arbitrarietà bensì basandosi su una valutazione storico-artistica dei dati archeologici. E nel richiamare Pausania lo studioso va ancora oltre, ricordando come nel Libro nono della sua Descrizione della Grecia, il geografo puntualizzi che “un Dioniso sull’Elicona è, fra le statue di Mirone, la più degna di esser vista dopo l’Eretteo che è ad Atene”. Ecco allora affacciarsi l’idea che il Bronzo A (l’ipotizzato re greco Eretteo) possa attribuirsi al grande scultore Mirone, autore del celebre Discobolo. Ipotesi nient’affatto inedita – spiega Settis – se si pensa che, sia pure su basi puramente stilistiche, era stata già formulata nel 1984 dall’archeologo greco Georgios Dontàs, seguita da una più recente analoga attribuzione da parte di Giuseppe Pucci, che però preferisce l’identificazione del personaggio con il Tideo descritto in un epigramma di Posidippo (III secolo a. C.) redatto su un papiro dell’Università di Milano.

E’ chiaro – conclude Settis – che queste congetture non hanno nulla di definitivo e non garantiscono alcuna certezza, considerato anche che tanti altri elementi relativi alle due statue, sfuggono ancora a qualsiasi ricostruzione. Eppure è quanto mai suggestiva l’idea che le evidenti differenze fra le due sculture siano interpretabili in chiave narrativa (con la eventualità quindi che anche il bronzo B sia di Mirone), riportandoci a due possenti guerrieri, uno greco e l’altro tracio, che si fronteggiano. Il prossimo passo potrebbe a questo punto essere la realizzazione di un nuovo clone, questa volta del Bronzo B, in modo dar corpo materiale e visivo all’ipotesi di Brinkmann. Se quest’ultima prendesse dunque ancora più forza, i Bronzi di Riace –  a detta di Settis “i più importanti originali greci in bronzo oggi conservati” – non sarebbero più il “vecchio” e il “giovane”, ma l’immagine di due avversari di cui uno vincitore e l’altro vinto, nella inesorabile battaglia per la supremazia.

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3 minuti fa, torpedo dice:

Nuove interessanti ipotesi sull’origine dei Bronzi di Riace.

 

di Kasia Burney Gargiulo

 

Dalla mostra “Serial Classic”, curata a Milano da Salvatore Settis e Anna Anguissola presso la Fondazione Prada e dedicata alla scultura classica e al rapporto ambivalente tra originalità e imitazione nella cultura romana, giunge alla ribalta una nuova ipotesi interpretativa sull’identità dei Bronzi di Riace formulata dallo studioso tedesco Vinzenz Brinkmann e commentata dal professor Settis in un articolo apparso su Il Sole24 Ore di ieri. La mostra si sofferma innanzitutto sulla diffusione presso gli antichi romani di multipli intesi come omaggi all’arte greca, ma i nuclei dell’esposizione che ci riportano all’interrogativo, in auge da anni, sulla vera identità e paternità dei Bronzi di Riace, sono quelli dedicati ai temi dei materiali e del colore dei bronzi e dei marmi classici.

Il Bronzo di Riace A nella ricostruzione di Vinzenz e Ulrike Brinkmann, Liebieghaus di Francoforte

Il Bronzo di Riace A nella ricostruzione di Vinzenz e Ulrike Brinkmann – Liebieghaus, Francoforte

A fare da termini di riferimento per una riflessione sul colore originario del bronzo nelle sculture antiche, sono tre opere che testimoniano il tentativo di ricostruire il possibile aspetto dei bronzi in età classica: la prima è una riedizione del Doriforo di Policleto che nel 1910 Georg Roemer, allievo di Adolf von Hildebrand, realizzò a Stettino, in Polonia; la seconda, una versione in gesso, ricoperto di lamina metallica, dell’Apollo di Kassel, del 1991; la terza è un clone del 2015 del Bronzo di Riace A realizzato secondo quella che si suppone sia stata la cromìa originaria. Di quest’ultima scultura, opera di Vinzenz e Ulrike Brinkmann, esperti che al Liebieghaus di Francoforte fanno ricerca da anni sul colore dei bronzi antichi, vi avevamo dato notizia già lo scorso dicembre 2014. Come si può vedere nella foto a sinistra, la cromìa del Bronzo è profondamente diversa da quella verdastra (dovuta all’azione del tempo e degli elementi) alla quale siamo abituati: al suo posto, una compatta ”abbronzatura” va ad unirsi ai dettagli policromi già noti, come i denti d’argento, i capezzoli e le labbra di rame, e a quelli ricostruiti come l’elmo, lo scudo e la lancia in bronzo dorato.

La prima impressione che si ha osservando tale ricostruzione è quella di un risultato tremendamente kitsch, eppure, a parte il colore naturale del bronzo non ossidato, è ormai provato da tempo che sculture e templi nell’antichità erano il più delle volte concepiti in ”technicolor”, a dispetto della visione austera tradizionalmente penetrata nell’immaginario collettivo. Oggi, una nuova frontiera della ricerca archeologica si occupa proprio di questo aspetto, andando a sfatare le maggior parte dei luoghi comuni sul tema. Ed è muovendo da questi studi – nonchè prendendo in considerazione numerosi altri aspetti storico-artistici – che Vinzenz Brinkmann nel catalogo della mostra “Serial/Portable Classic”, edito da Fondazione Prada, ha formulato una nuova ipotesi interpretativa sull’identità dei Bronzi di Riace.

 

 
 

 

L’ipotesi è giocata sulla lettura dello stile che da tali opere, come dalle altre esposte nella mostra, emerge quale cifra identificativa di ogni autore. Accomunate dalla valenza etico-sociale che nell’antichità assumeva la celebrazione scultorea del corpo maschile, le tre opere del V sec. a.C. messe a confronto dalla Fondazione Prada si distinguono appunto per quella serie di dettagli in cui si sostanzia la “personalità” unica dell’artista. Del Bronzo di Riace A – a differenza del Doriforo (di Policleto) e dell’Apollo (di Fidia) accanto ai cui cloni è esposto a Milano – non è dato al momento conoscere con certezza l’autore, sebbene nel tempo si siano fatti molti nomi fra cui quelli celebri di Fidia e di Mirone. Partendo tuttavia dai dettagli “narrativi” delle statue, letti con maggiore attenzione proprio attraverso la loro ricostruzione sperimentale in bronzo, secondo Brinkmann è possibile tentare una identificazione dei personaggi, premessa indispensabile per passare poi alla formulazione di ipotesi ragionate sull’autore (o sugli autori).

Nella ricostruzione della Liebieghaus, vediamo il Bronzo A munito di un elmo corinzio,  che in tre punti frontali lascia intravedere il regale diadema che cinge la capigliatura. Con la mano destra regge una lancia che poggia sull’avambraccio, mentre con la sinistra impugna un grande scudo circolare. L’espressione del volto leggermente in torsione è resa vibrante dalle labbra socchiuse che svelano l’argentea dentatura. Un atteggiamento che nell’insieme sembrerebbe suggerire l’esistenza di un rapporto di interazione e di sfida con un altro personaggio. Brinkmann prova ad argomentare se questo ”altro personaggio” possa essere il Bronzo di Riace B il quale, nello stato attuale, risulta privo di elmo, arma e scudo. Sulla testa vi sono tuttavia tracce (in particolare due placchette in rame) che portano alla presenza di un copricapo, a dire di Brinkmann costituito molto probabilmente dal raro (ma ben noto) alopekis o berretto di pelle di volpe, che lasciava intravedere, dalla bocca aperta dell’animale, una calotta di cuoio alla quale sarebbero appunto riconducibili le placchette. Questo, secondo lo studioso, consentirebbe di dare ragione di altri elementi, finora non decifrati, presenti sulla statua, come ad esempio un supporto presente sulla spalla sinistra e probabilmente destinato a bloccare una delle ipotizzate zampe della volpe. Tale copricapo, tipico della Tracia, dice Brinkmann sarebbe un indizio forte per identificare il personaggio, la cui figura andrebbe completata immaginando l’aggiunta di un’ascia bipenne nella mano destra, e forse un arco con freccia nella sinistra, oltre ad uno scudo leggero. In sintesi, le due statue, connotate da tutti questi attributi, potrebbero raffigurare un Greco e un Trace.

E a questo punto prende corpo il secondo livello di ipotesi sulla identità dei due personaggi: secondo Brinkmann le descritte caratteristiche non possono che ricondursi ad una coppia mitica ben precisa, ossia il re di Atene Eretteo ed il suo avversario Eumolpo, figlio di Poseidone. Nella contesa per il possesso dell’Attica, la lotta di questi due personaggi è ricordata da Tucidide, oltre a figurare nel fregio del tempio di Efesto. Inoltre il geografo Pausania, vissuto intorno al II secolo d.C., racconta che sull’Acropoli di Atene c’erano “due grandi statue di bronzo, che rappresentano due uomini disposti in battaglia, e li chiamano l’uno Eretteo e l’altro Eumolpo”.

Da qui il cruciale interrogativo se le due statue citate da Pausania possano essere proprio i Bronzi di Riace. E’ evidente – sottolinea Settis, nel suo commento – che si tratta di una congettura, ma essa non è avanzata da Brinkmann secondo criteri di arbitrarietà bensì basandosi su una valutazione storico-artistica dei dati archeologici. E nel richiamare Pausania lo studioso va ancora oltre, ricordando come nel Libro nono della sua Descrizione della Grecia, il geografo puntualizzi che “un Dioniso sull’Elicona è, fra le statue di Mirone, la più degna di esser vista dopo l’Eretteo che è ad Atene”. Ecco allora affacciarsi l’idea che il Bronzo A (l’ipotizzato re greco Eretteo) possa attribuirsi al grande scultore Mirone, autore del celebre Discobolo. Ipotesi nient’affatto inedita – spiega Settis – se si pensa che, sia pure su basi puramente stilistiche, era stata già formulata nel 1984 dall’archeologo greco Georgios Dontàs, seguita da una più recente analoga attribuzione da parte di Giuseppe Pucci, che però preferisce l’identificazione del personaggio con il Tideo descritto in un epigramma di Posidippo (III secolo a. C.) redatto su un papiro dell’Università di Milano.

E’ chiaro – conclude Settis – che queste congetture non hanno nulla di definitivo e non garantiscono alcuna certezza, considerato anche che tanti altri elementi relativi alle due statue, sfuggono ancora a qualsiasi ricostruzione. Eppure è quanto mai suggestiva l’idea che le evidenti differenze fra le due sculture siano interpretabili in chiave narrativa (con la eventualità quindi che anche il bronzo B sia di Mirone), riportandoci a due possenti guerrieri, uno greco e l’altro tracio, che si fronteggiano. Il prossimo passo potrebbe a questo punto essere la realizzazione di un nuovo clone, questa volta del Bronzo B, in modo dar corpo materiale e visivo all’ipotesi di Brinkmann. Se quest’ultima prendesse dunque ancora più forza, i Bronzi di Riace –  a detta di Settis “i più importanti originali greci in bronzo oggi conservati” – non sarebbero più il “vecchio” e il “giovane”, ma l’immagine di due avversari di cui uno vincitore e l’altro vinto, nella inesorabile battaglia per la supremazia.

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Inviato

Avevo già letto questa versione su Archeo e francamente mi è sembrata campata per aria ,non vi è nessun collegamento canonico con l'iconografia classica del mito citato.

Non si capisce perché si afferma che non vi siano ipotesi convincenti sull' identificazione dei due bronzi quando Paolo Moreno l'ha fornita con prove alla mano indicando Tideo e Anfiarao dei "sette contro Tebe ".

La ricerca del colore originale è ancora più incomprensibile e bizzarra sapendo che il bronzo è estremamente sensibile alle condizioni ambientali e allo scorrere del tempo che continuamente possono cambiare tonalità alle patine che quasi immediatamente si formano dopo la fusione.

Vogliamo parlare poi del cappello di volpe ? Davvero ?


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