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La siccità, il grande fiume e le
Atlantidi del Po: viaggio nella storia

Quando si percorre, a piedi, uno spaggione del Po, è normale incontrare resti di coppi, di mattoni, di vasellame e quant’altro. In apparenza, per chi li “incontra” con superficialità, solo poche e povere macerie. In realtà, anche il più piccolo di quei pezzi è una traccia del nostro passato

Il Grande fiume va sempre più giù e le quote che sta arrivando a toccare sono da record. A Cremona (fonte Aipo), all’idrometro già da ieri è arrivato a toccare gli 8 metri e 40 centimetri sotto lo zero idrometrico ed è ormai ridotto ad un rigagnolo, con tutta una serie di problemi che, salvo “miracoli” sono destinati a peggiorare.

In queste condizioni di secca, il Po non finisce di regalare sorprese e di mettere di nuovo in luce ricordi del passato che erano sepolti da tempo. Un “libro di storia” a cielo aperto, da leggere, da studiare e da percorrere, sull’una e sull’altra riva, per conoscere pagine in più del nostro passato.

In questi giorni all’altezza dello spiaggione che si trova di fronte a Isola Giarola, in territorio di Stagno Lombardo (nella zona compresa tra Gerre del Pesce, casotti e Gerra Bassa, a poca distanza da Brancere), il fiume ha restituito resti di antiche mura. Con ogni probabilità ulteriori resti dell’antica Polesine di San Vito, uno dei numerosi borghi che, tra Parmense, Cremonese e Piacentino, nel corso dei secoli, sono stati “divorati” dal Po.

Pezzi di storia, la nostra storia, custoditi per anni ed anni, dal fiume: oggi tornati a vedere la luce ed a parlarci, quindi, di un passato importante, che non va dimenticato.

Sono le “Atlantidi del Po”, così potremmo definirle. Resti di antiche realtà paesane, spazzate via dal fiume, ma non dalla memoria, che oggi seppur ridotte a poche macerie, tornano a vivere.

Quando si percorre, a piedi, uno spaggione del Po, è normale incontrare resti di coppi, di mattoni, di vasellame e quant’altro. In apparenza, per chi li “incontra” con superficialità, solo poche e povere macerie. In realtà, anche il più piccolo di quei pezzi è una traccia del nostro passato: e già solo per questo è prezioso e va osservato con rispetto. Il sottoscritto, appassionato di storia, preferirebbe dire con venerazione, e in silenzio.

E’ giusto, a questo punto, andare a ripercorrere la storia, e le denominazioni, di queste “Atlantidi del Po”, a partire appunto da Polesine di San Vito.

Un tempo, come ricorda anche Dario Soresina nella sua Enciclopedia Diocesana Fidentina, di Polesine ne esistevano di fatto due: Polesine dè Manfredi, situata nei pressi di Stagno Parmense e Polesine di San Vito, situata invece nelle immediate vicinanze dell’attuale Polesine Parmense. La prima (Polesine dè Manfredi) con chiesa dedicata a San Martino sottoposta alla giurisdizione della pieve di San Genesio (San Secondo Parmense) e l’altra con chiesa dedicata ai santi Vito e Modesto, sottoposta alla pieve di Cucullo (Pieveottoville) in diocesi, allora, di Cremona. Polesine dè Manfredi scomparve a causa delle erosioni create dal Po: il Della Torre, in un suo manoscritto del 1564 che elenca le chiese, i monasteri ed i benefici esistenti a quella data nella diocesi di Parma cita la sua chiesa quale “Ecclesia Polesini curata”, da molti anni occupata dai cremonesi aggiungendo la seguente postilla “Quae noncupabatur Polesini Manfredorum et erat in Parmensi, sed Ecclesia et tita villa fluit a flumine Padi consumpta et exportata: ideo de ea nulla est habenda ratio”. L’ultimo atto che faccia esplicito riferimento al paese è del 12 luglio 1219 (L. Astegiano: Codex diplomaticus Cremonae, vo.II, pag.137) e riguarda il pagamento di dazi al vescovo di Cremona, che esercitava nella zona anche potere temporale. Nell’opera dell’Astegiano tanti sono i riferimenti anche a Polesine di San Vito, a partire dal 1186, ma in nessuna delle pergamene comunali pubblicate è citata la sua chiesa, tradizionalmente ritenuta di antica fondazione. Bisogna arrivare alla bolla di Eugenio IV del 9 luglio 1436 che vederla figurare, per la prima volta, accanto alle chiese della diocesi cremonese, che erano sottoposte alla collegiata di Busseto, eretta su istanza di Orlando Pallavicino, feudatario del luogo, e da lui ampiamente beneficiata. La storia informa che la prima chiesa parrocchiale di Polesine di San Vito venne demolita nel 1400 perchè gravemente danneggiata dalle acque del Po. La successiva, costruita intorno al 1400 in sostituzione della precedente, fu a sua volta distrutta dalle acque del Po nel 1720. E’ tra l’altro certo che il Marchesato di Polesine e Santa Franca ebbe un castello, come informa anche Guglielmo Capacchi nel suo libro “Castelli Parmigiani”. Castello ce era posto a difesa di quell’importante porto fluviale che si apriva immediatamente a nord ovest del “Palazzo delle Due Torri” (l’odierna Antica Corte Pallavicina). Fonti storiche alla mano, un duplice ordine di fortificazioni esisteva in Polesine poiché il trattato di pace e di alleanza tra il Duca di Milano Filippo Maria e il Marchese Orlando Pallavicino del 5 gennaio 1431 parla espressamente di “castrum et rocha Polesini” lasciando intendere che l’abitato intorno al porto era cinto di mura e difeso da una piazzaforte. Polesine di San Vito, nel corso dei secoli, di fatto fu due volte spazzato via dalle acque del Po e poi ricostruito. L’attuale paese è, in pratica, il terzo ed è stato realizzato a maggiore distanza dal fiume e, quindi, in un luogo più sicuro. Il tutto grazie all’iniziativa del marchese Vito Modesto Pallavicino, ultimo signore di Polesine, sepolto sotto il presbiterio dell’attuale chiesa dei santi Vito e Modesto. Per entrare maggiormente nelle pieghe della storia va ricordato che agli inizi del XVI secolo il fiume spostò il suo letto più a sud, fino a lambire le fondamenta della rocca, che nel 1547 crollò e la stessa sorte toccò pochi anni dopo anche alla chiesa costruita da Giovan Manfredo nei pressi dello stesso maniero Successivamente il fiume riprese il suo corso e il borgo di Polesine rifiorì, con la costruzione di abitazioni e di due palazzi marchionali; la situazione precipitò ancora agli inizi del XVIII secolo, quando il Po deviò nuovamente verso sud e, straripando, distrusse nel 1720 la cinquecentesca chiesa di San Vito e, alcuni anni dopo, il palazzo delle Fosse, residenza di Vito Modesto Pallavicino. Quest’ultimo finanziò i lavori di costruzione di una nuova chiesa (l’attuale) in una posizione più distante dalla riva, fulcro dello sviluppo successivo del paese. Vito Modesto morì nel 1731, nominando erede universale il “ventre pregnante” della moglie, che tuttavia partorì una femmina, Dorotea e, quindi, il feudo fu assorbito dalla Camera ducale di Parma, che lo assegnò, unitamente a Borgo San Donnino, alla duchessa Enrichetta d’Este, vedova del duca di Parma e Piacenza Antonio Farnese.

Il legame tra Polesine e il fiume è sempre stato molto profondo, lo si intuisce fin dal nome stesso del paese, che potrebbe derivare dal latino “Laesus a Pado” , vale a dire “distrutto dal Po”. Scritta, questa, che era stata inserita anche nello stemma dell’ex comune di Polesine Parmense (fuso da alcuni anni con quello di Zibello). Stemma su cui comparivano anche il dio Eridano, personificazione del fiume Po, il castello a rappresentare il Palazzo delle Due Torri (l’odierna Antica Corte Pallavicina) considerato il simbolo del paese; l’aquila e lo scaccato simboli dei Pallavicino, signori del luogo fino al XVI secolo. E’ più che probabile quindi che le mura emerse in questi giorni possano appartenere a una delle due chiese, a al vecchio castello, sommersi dalle acque del Po. A questo proposito va ricordato che, negli anni Ottanta del Novecento, un palombaro venne inviato a far esplodere, in acqua, i resti degli antichi edifici che ostruivano il passaggio delle bettoline. Parte di questi resti si trovano tuttora dietro al vecchio municipio di Polesine Parmense; altri compongono invece la massicciata che delimita il corso del Po in territorio di Stagno Lombardo e sono ben visibili specie nei periodi di magra, come quello attuale. Non è comunque escluso che i resti possano appartenere all’antico centro di Vacomare che, a sua volta, sorgeva nei pressi dell’odierna Polesine Parmense. Per quanto riguarda invece Polesine dè Manfredi, come già anticipato, questo sorgeva nelle vicinanze dell’attuale Stagno Parmense, del grande e leggendario bosco detto “del Vajro” (in larga parte spazzato via dalle piene del Po) e di altri due luoghi di cui non resta che la memoria storica: Tolarolo e Rezinoldo (o Rezzenoldo o Arzenoldo). Tolarolo sorgeva tra Roccabianca e Stagno e tuttora, a poche centinaia di metri dal centro di Roccabianca, esiste un’arteria comunale denominata “Tolarolo” e si trovano pochi, poveri resti di un antico cimitero. A Tolarolo già nel 1058 sorgeva un castello che Arrigo IV, Re di Germania e d’Italia, concedette ai Borghi (o Da Borgo) di Cremona. Nuove notizie su questo luogo compaiono nel 1316 quando vi trovò rifugio un nerbo di truppe fedeli a Giberto da Correggio (e forse Giberto stesso), appena cacciato dalla Signorìa di Parma. Proprio da Tolarolo, Giberto attendeva aiuti cremonesi proprio per muovere alla riscossa, ma dopo pochi giorni perse anche quella signoria e, furioso, si diede a saccheggiare la campagna parmense, scatenando così la reazione dei cittadini che, alternandosi per “Porte” avvicendarono forze sempre fresche all’assedio di Tolarolo (18 ottobre – 22 novembre 1316. I correggeschi alla fine vennero a patti e, se il Podestà di Parma si era accontentato di presidiare il forte con truppe fedeli alla città, il capitano del Popolo, Guiscardo, della Società dei Crociati, cavalcò a Tolarolo spianandolo fino alle fondamenta e colmando i fossati. Un ultimo documento, che parla del castello di Tolarolo ormai distrutto, è datato 1375. Oggi non resta alcun rudere di quell’edificio come non resta nulla della sua chiesa che era dedicata a San Michele e della vicina fortezza di Rezinoldo (o Rezzenoldo o Arzenoldo), località che per la prima volta compare nell’elenco di ville di cui Federico Barbarosssa infeuda, nel 1189, Oberto Pallavicino ed è opinione di Francesco Luigi Campari, nel suo libro “Un castello del Parmigiano attraverso i secoli” che il nome del luogo derivasse da “argine” (la forma dialettale è “àrzen). A Rezinoldo, di fatto “inglobato” nell’odierna Roccabianca esisteva anche un chiesa dedicata a San Bartolomeo. L’attuale chiesa di Roccabianca, dedicata ai “Santi Bartolomeo e Michele” rappresenta, di fatto, una sintesi, e quindi un ricordo, dei due sacri edifici scomparsi. Altro castello scomparso è quello di Torricella di Sissa Trecasali, anticamente detta San Donnino del Castello di Torricella, per distinguerla da Torricella ultra Padum, vale a dire Torricella del Pizzo, posta sulla sponda casalasca del fiume. E’ probabile che il castello, citato ufficialmente per la prima volta nel 1284, esistesse quando le due “Torricella” erano di fatto una unica località. Il maniero venne distrutto, al termine di una cruenta battaglia fluviale nel 1427.

Sempre in terra parmense non resta alcuna traccia di Isola dei Bozardi, località situata tra Gambina e Polesine di San Vito che, nel 1219, figurava come Insula de Committibus e successivamente denominata Ysoleta Domini Bozardi De Burgo nella quale si trovava anche una chiesa, dedicata a San Domenico. Nei presi di Pieveottoville, anticamente, sorgevano invece le località di Caprariola (a sud del paese, nella zona che conduce a Samboseto), Tecledo e Brivisula. In particolare, come si può leggere anche nel Codice Diplomatico della Lombardia Medievale (sec. VIII-XII) Carlo II imperatore, su richiesta di Benedetto, vescovo di Cremona, assunse sotto la sua protezione tutti i beni e i diritti pertinenti alla Chiesa cremonese, confermando i diplomi di immunità e protezione, già emanati da Carlo Magno, Ludovico I, Lotario I e Ludovico II, e ribadisce le concessioni alla Chiesa cremonese, contenute nei citati diplomi di Carlo Magno, Lotario I e Ludovico II relative alle località di Tecledo, Brivisula e Cucullo, al porto sul Po e ai diritti di passaggio, molitura e attracco fino alla confluenza dell’Adda nel Po; conferma infine il diritto della Chiesa cremonese ad esigere le tasse di palifictura e ripaticum senza alcuna contestazione. Anticamente, in epoca longobarda, tra le odierne Pieveottoville e Ragazzola, sorgeva inoltre la località di Carpaneta, di cui non resta tracia alcuna.

Passando quindi al territorio cremonese, e in particolare all’area casalasca. i luoghi spazzati via, nel tempo, dall’azione del Po sono Barcello,Cella, Casale dè Ravanesi, Scurdo e Gurgo. Di tutti restano solo documenti in cui vengono menzionati, in gran parte di carattere ecclesiastico. Come nel caso di Cella (sulla cui storia a breve uscirà un libro) che era sottoposto alla giurisdizione del vicariato di Casalmaggiore. Dall’arciprete di Casalmaggiore riceveva l’olio santo e nominava i. reggente della chiesa di Cella stessa. Una carta topografica di Antonio Campi datata 1583 vede Cella situata sulla sponda destra del Po e, pertanto, il suo distacco dalla riva casa lascia va collocato anteriormente a quella data. L’esistenza di Cella coincide dunque con il tempo in cui Casalmaggiore godeva di un più vasto diritto sui territori staccatisi dalla sua sponda. All’inizio del 1600 Cella esisteva ancora e aveva 140 abitanti, oltre ad una piccola chiesa dedicata a San Pietro, composta da una sola navata, con un tetto basso e piuttosto pericolante. La chiesa, tra l’altro, non consacrata, non aveva la sagrestia ed era priva di Sacramento a causa della povertà degli abitanti. Tra i suoi titolari, il benedettino padre Angelo Dè Tei. Le attività principali erano quelle legate all’agricoltura e ai mulini sul Po.

Infine, nel terzo volume della “Storia di Casalmaggiore” dell’Abate Giovanni Romani, sono citate anche le località di Casale dè Bellotti che dipendeva dalla curia di Fossacaprara e Casale dè Zani, che dipendeva dal territorio di Cogozzo.

Ma le “Atlantidi” del fiume non finiscono qui. Proprio a due passi da Cremona, importanti furono i mutamenti del corso del Po che interessarono, in modo particolare, la dirimpettaia zona del basso piacentino dal 1816-21 fino al 1978, come si può osservare anche dai rilievi che emergono dalla sovrapposizione del primo catasto ordinato da Napoleone Bonaparte (1816-21) con le mappe eseguite dall’Istituto Geografico Militare datate 1974. Tutto è ampiamente e minuziosamente descritto anche nell’Enciclopedia Diocesana Fidentina di Dario Soresina: tre volumi, in tutto, che non possono mancare a coloro che intendono approfondire meglio la storia dei territori, dell’una e dell’altra riva, bagnati dal Po. Per quanto riguarda Monticelli d’Ongina, internandosi con potenza nel torrente Chiavenna, il Po creò un vero e proprio smembramento che interessò soprattutto le località Castelletto o Rottino (che scomparve praticamente del tutto a causa della progressiva erosione culminata nel 1868) e Tinazzo, sommersa con le sue case e la chiesa dedicata alla Beata Vergine del Tinazzo nel medesimo anno. Si formò così un’isola, poi divenuta penisola, detta America del Seminario, posta tra lo scomparso Rottino e la parte rimasta dell’Isola Mezzadra. Determinando inoltre una diversa e più ampia ansa, il Po lasciò in direzione Nord Ovest un ampio arenile entrato a far parte di Isola Serafini. Il nuovo corso del Po, fissandosi lungo l’asse Nord Est partendo dal Tinazzo di Monticelli d’Ongina, sommerse gran parte della frazione di Olza, che unitamente alla chiesa parrocchiale scomparve definitivamente durante l’alluvione dell’autunno 1857. Da evidenziare comunque che, per la costante minaccia delle acque, l’abitato era già andato a spostarsi gradualmente nella zona più interna, quella delle cosiddette Campagne d’Olza. Per l’allargamento dell’ansa in direzione Nord Ovest, nel 1839 il Po tagliò di fatto a metà l’Isola Mezzadra, che faceva parte della parrocchia di Olza nonostante fosse situata nell’Oltrepò e, ridotta notevolmente in ampiezza, nel 1854 passò sotto la giurisdizione della provincia e della diocesi di Cremona. L’esondazione del 1839 creò il presupposto ai mutamenti che si verificarono durante le successive alluvioni per la rottura di argini e l’indebolimento di altre difese. Grazie alle memorie dell’epoca conservate nell’archivio parrocchiale di Olza, è noto che in quell’anno il fiume ruppe gli argini dell’Isola dei Guerci, sommergendola quasi interamente. Dalla stessa Isola dei Guerci le acque strariparono invadendo, ad Olza, le località Mortesino (fino all’argine del Tavello), e Marianne, raggiungendo la vecchia chiesa, difesa dal Tavello e già lambita per la prima volta dalle acque del Grande fiume nel 1801. Proprio davanti alla chiesa il Po creò una grande erosione, successivamente colmata da un bosco detto di Santa Valeria. Tra questo e la riva si formò un canale in cui le acque, raccogliendosi copiosamente, avrebbero poi dilagato durante l’alluvione del 6 ottobre 1868. Dopo il Castelletto, Olza fu il paese che subì i maggiori danni causati dagli straripamenti del Po il quale, oltre a spazzare via ogni traccia di Olzula Vetula, centro attivo di commercio e di vita, ne ridusse considerevolmente il territorio. Da notare che fino ai primi decenni del Novecento il campanile della vecchia chiesa distrutta era visibile sul lato cremonese ed era, di fatto, il solo superstite della furia devastante delle acque. Furono invece di lieve entità i mutamenti nella vicina Fogarole e riguardarono la cessione del fiume di una porzione di terreno a Nord. Passando a Croce Santo Spirito (parte integrante di Castelvetro Piacentino), l’alluvione del 1857, variando il corso del Po, modificò la zona nella parte a Nord e ad Est. Il fiume tagliò in mezzo l’Isola Capelli ed asportò una fascia litoranea di terreno a Mezzano Chitantolo, in località Bondiocca. Castelvetro, San Giuliano Piacentino e Soarza trassero invece vantaggio dai mutamenti che riguardarono il corso del Po. In particolare Castelvetro incorporò parte del territorio di Bosco Ex Parmigiano, San Giuliano l’Isola Boscone mentre Soarza la parte ad Est del suo territorio oltre il Gorrile, comprendente, tra l’altro, Isola Costa.

Tornando ad Olza, ecco che la sua chiesa, di remota fondazione, faceva parte della pieve di San Giuliano e, nel secolo XI fu compresa nella giurisdizione della chiesa di Sant’Agata in Cremona che, per un certo raggio, si estendeva anche nell’Oltrepò. Olza era allora un attivo centro di commercio che gravitava ampiamente su Cremona ed il benessere degli abitanti è dimostrato anche dai tanti benefici e legati che furono eretti e fondati nelle sue due chiese. Dalle pergamene cremonesi pubblicate da Lorenzo Astegiano si rileva che la chiesa di Olzula Vetula possedeva, e mantenne, nei secoli X, XI e XII, cospicue proprietà terriere e che ben provvista era anche l’altra chiesa olzanese di San Lorenzo, scomparsa da secoli. Le ampie erosioni operate dal fiume Po sottrassero alla chiesa gran parte del suo patrimonio e quando, nel 1436, fu sottratta alla chiesa cremonese di Sant’Agata per passare alla collegiata di Busseto, la sua importanza era già venuta meno. Nel 1470 passò poi sotto la giurisdizione della collegiata di Monticelli d’Ongina divenendo una semplice chiesa filiale curata, inizialmente retta da sacerdoti incaricati della cura d’anime dal prevosto di Monticelli. Fu con l’erezione della diocesi di Borgo San Donnino (l’attuale Fidenza), nel 1601, che la parrocchia acquistò la propria autonomia. I maggiori danni al paese, e alla chiesa, furono causati dal fiume nel secolo XIX. Un registro di memorie iniziate dal priore don Antonio Ricci (1773-1826) e proseguite poi dai suoi successori descrive i danni provocati dalle diverse alluvioni che interessarono una vasta fascia di terreno nell’area compresa proprio tra Olza, Castelletto e Tinazzo, con queste ultime due ormai scomparse. Come già evidenziato, gran parte del vecchio abitato di Olza fu sommerso dal fiume rendendo inevitabile il graduale spostamento del paese in una zona più interna e quindi più sicura. Anche per questo, in passato, la chiesa era comunemente definita “delle campagne d’Olza” e non più “di Olza”. Il pericolo di ulteriori e più gravi danni veniva rilevato anche nel 1875 dal parroco don Andrea Sperzagni (nato nella stessa Olza nel 1821) che, nelle sue memorie, annotava che il Po premeva in modo minaccioso contro l’abitato erodendo il terreno per un tratto di quasi tre miglia dal cosiddetto Rottino fino alle case di Olza, internandosi poi con forza nello scolo del Tinazzo e in località Marianne. Questa costante minaccia, motivo continuo di preoccupazione tra la gente, fu poi sventata con il rafforzamento degli argini. Opera, quest’ultima, attuata grazie al concreto interessamento del parroco don Valentino Guzzoni che sollecitò ed ottenne l’intervento dello Stato. Delle varie chiese di Olza coinvolte nell’azione distruttiva del Po non si hanno moltissime notizie. Una chiesa fu demolita nel 1677 e, quindi, riedificata per iniziativa del priore Simone Ferrari e consacrata l’8 giugno 1687 dal vescovo di Fidenza monsignor Nicolò Caranza. Il sacro edificio non durò nemmeno due secoli; fu infatti pesantemente danneggiato dall’azione del fiume e, quindi, raso al suolo nell’agosto del 1858 per essere sostituito dalla chiesa odierna, realizzata tra il 1864 ed il 1866 e dedicata a Santa Valeria Vergine e Martire. Chiesa, quest’ultima, che tra il proprio patrimonio comprende anche l’organo del cremonese Antonio Picenardi (ma in gran parte ricostruito dalla ditta Giovanni Tonelli di Mantova); la Via Crucis con i quadretti eseguiti nel 1828 dal cremonese Giuseppe Pagliari e il coro ligneo i cui scanni settecenteschi in noce intagliato e scolpito furono acquistati dalla chiesa cremonese dei frati Cappuccini (come i due confessionali ed il pulpito) La parrocchia, come anticipato, divenne rettorato nel 1608 e vide ridursi i propri confino quando fu sottratta alla sua giurisdizione l’Isola Mezzadri, che le apparteneva da antica data. Questa faceva parte del Ducato di Parma, Piacenza e Guastalla nonostante si estendesse sulla sponda opposta del Po, per poi essere annessa alla Diocesi di Cremona, e alla provincia di Cremona, con decreto concistoriale del 20 marzo 1854 e civile del 21 agosto del medesimo anno.

Tra le località scomparse spicca anche il Castelletto la cui parrocchia era dedicata a San Nicola di Bari. Era detta anche del Rottino e si trovava nell’area compresa tra il Po e Isola Serafini. In una carta topografica diocesana di inizio Ottocento è indicata nella zona monticellese più vicina al fiume. Oggi la località Rottino, di fatto la sola superstite della scomparsa parrocchia di Castelletto, si trova nella zona Sud est di Isola Serafini, mentre Isola Mezzadri, che faceva parte della parrocchia di Castelletto, dipende civilmente ed ecclesiasticamente da Cremona. Nel 1800 la popolazione di castelletto era di 370 persone, scese a 291 nel 1840 ed a 93 nel 1868. Nel 1913 erano appena una trentina. Nel 1723 chiesa e canonica furono demolite dalla furia delle acque ed era, quello, solo l’inizio di una catastrofe che nel secolo successivo aveva poi coinvolto tutta la fascia tra il Rottino e Olza. Da allora, per la costanza dei parroci e della popolazione, furono erette in parrocchia tre altre chiese e quattro oratori. Edifici tutti spazzati via, nel tempo, dal Po. L’ultima chiesa crollò nel 1879 ed un ulteriore progetto di ricostruzione della parrocchiale incontrò l’opposizione dell’autorità pubblica nonostante fosse già stato dato inizio ai lavori. Con decreto regio del 2 luglio 1890 ne fu ordinata la sospensione destinando al prevosto del Castelletto (allora era don Carlo Cavezzali) la cappella e l’altare del Santissimo Sacramento nella collegiata di Monticelli d’Ongina dove avrebbe potuto comunque continuare tutte le funzioni riguardanti la cura delle anime che gli erano state affidate. Proprio per la situazione che si era venuta a creare, don Cavezzali, prevosto di castelletto dal 1882, non risiedette un solo giorno in parrocchia. Stessa scelta la fece il suo successore, don Pio Massari, che gli succedette nel 1901. Formalmente la parrocchia continuò ad esistere e fu solo il 31 dicembre 1904 che l’autorità ecclesiastica diocesana decretò la soppressione. Nel 1913 la parrocchia fu trasferita a Villa Diversi, nuova parrocchia istituita il 6 maggio 1913 e dedicata a San Nicola di Bari e San Giuseppe e durata nemmeno mezzo secolo. Infatti venne a sua volta soppressa nel 1968.

Infine, uscendo “un attimo” dall’area cremonese, piacentina e parmense, ecco che il fiume ha restituito resti di antichi villaggi anche nella zona compresa tra le province di Alessandria e di Pavia, un’area che nel Medioevo era densamente popolata. Dal Po, in quella zona, sono stati spazzati via Sparvara, Borgofranco Lomellino, Bric di San Martino, Cambiò Vecchia e Villanova di Cambiò.

Pagine di storia che, nel tempo della grande e storica magra, “riemergono” e confermano, se mai ce ne fosse bisogno, quanto il vecchio Eridano sia, da sempre, un protagonista assoluto del cammino delle nostre terre.

https://www.oglioponews.it/2022/07/14/la-siccita-il-grande-fiume-e-le-atlantidi-del-po-un-viaggio-nella-storia/

 

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Il Po a Boscone restituisce una "puntazza": la prova del lavoro dell'uomo legato al Grande Fiume

Il reperto, databile al 19esimo secolo, è stato scoperto per caso lungo i sabbioni vicino a Calendasco

Un reperto importante è stato ritrovato, durante una quotidiana passeggiata da due amanti del Grande Fiume, lungo l’immenso sabbione che si trova davanti alla foce del fiume Lambro a Boscone Cusani di Calendasco, tra le località lombarde di Corte Sant’Andrea e poco più a monte Le Gabbiane. Si tratta di un reperto databile perlomeno al tardo 1800, quando proprio davanti alle Gabbiane (località che fu per secoli territorio della mensa vescovile di Piacenza) ancora era attivissimo un traghetto sul Po indicato da mappe, e per questo è ipotizzabile che il manufatto sia stato proprio “mosso” dal letto del fiume in quella zona durante una piena.

Si tratta di un manufatto particolare: una puntazza da palo di ponte di barche detta anche bricola, ancora oggi in uso nel Polesine e nella laguna veneta, ricavata da un unico tronco di rovere della lunghezza di circa un metro e mezzo e del diametro di 70 centimetri con uno spuntone troncato della parte di palo che emergeva. Il curioso legno di forma conica è stato mostrato ai “vecchi” uomini di fiume della Bassa, tra Boretto e Guastalla ed anche del Polesine, i quali hanno individuato immediatamente di che tipo di manufatto si trattasse. 

Queste puntazze si ricavavano da un tronco intero di legno forte perché, anche se piantate nell’acqua, non marcivano ed anzi col tempo si ricoprivano di una patina scura che le rendeva ancor più solide; nel Polesine ne sono state ritrovate anche di antichissime, allo stato fossile e pietrificate. Si vede bene, dal moncone rimasto attaccato, che quello ritrovato oggi è stato strappato dalle piene del Po. Questo pezzo è una testimonianza del lavoro umano legato al fiume. 
Un reperto storico che meriterebbe d’essere recuperato prima che una piena lo porti via, e che andrebbe conservato proprio qui, in questo territorio di Calendasco che nei secoli passati è stato protagonista sul Po con i suoi tanti pescatori e navaroli di professione ben conosciuti e stimati nella vicina Piacenza.

https://amp.ilpiacenza.it/attualita/il-po-a-boscone-restituisce-una-puntazza-la-prova-del-lavoro-dell-uomo-legato-al-grande-fiume.html

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Inviato

La secca del fiume Po restituisce
il mistero di un antico fortino

A Cremona, tra l’acqua e la sabbia, un muro di mattoni del ‘500

Un anziano pescatore ricorda di essersi imbattuto anni fa in quei mattoni che affioravano tra l’acqua e la sabbia. Li aveva notati anche un ricercatore, ma spuntavano appena dal fiume, poi erano stati nuovamente nascosti da una piena. C’è voluta l’insolita secca di questo inverno poco piovoso perché rispuntassero dal Po con il loro mistero. Cosa sono: un fortino, una torre di avvistamento, un vecchio ponte o altro ancora?

È stato Daniele Disingrini, dinamico fondatore di Cremona Ancor, l’associazione che riunisce gli amanti delle bellezze della Bassa (specie quelle dimenticate o trascurate), a scoprire, pochi giorni fa, quella strana «cosa» in cerca di identità. «Non proprio io, a dire il vero — racconta —. Una persona ha avvisato me e un amico di quei reperti. Seguendo le indicazioni sulla loro posizione, li abbiamo trovati facilmente». In realtà, non è così semplice. Arrivati al Po, bisogna imboccare un piccolo sentiero fangoso che lo costeggia e, a un certo punto, scendere verso l’immensa spiaggia che le acque, ritirandosi, si sono lasciate dietro. In lontananza, l’autostrada. La costruzione, ripiegata su se stessa, spunta in mezzo alla sabbia. È un muro lungo circa sette metri e spezzato in due, di cui una parte consistente ancora interrata. La seconda struttura, anch’essa rovesciata, è a forma di C, con due porzioni perpendicolari alla prima.«La malta utilizzata per tenere insieme i laterizi era ricavata da un misto di sabbia e polvere di marmo, un tipo resistente e molto costoso — dice Disingrini —. La mia idea è che sia un manufatto rinascimentale e che potrebbe trattarsi del basamento di una torretta da cui controllare, militarmente ma non solo, il movimento delle imbarcazioni».

Da quando le immagini hanno cominciato a circolare, questa zona lontana dalla città sta attirando curiosi ed appassionati. Uno dei primissimi ad essere sceso alla spiaggia è l’architetto Angelo Garioni, studioso di storia locale. «Senza dubbio i mattoni sono antichi e risalgono al ‘500 per poi essere stati impiegati di nuovo per una struttura edificata tra la fine del ‘600 e gli inizi del ‘700. Siamo di fronte a un’opera tenace che è stata levigata dalla corrente, ma non intaccata nella sua possanza. Il suo obiettivo non era essere bella ma forte. Si trovano tanti frammenti simili lungo le rive. Quasi mai, invece, qualcosa di tanto grande e così ben conservato. È un reperto molto importante perché dimostra come il Po sia pieno di storia. A tal punto da poterla riscrivere». Secondo Garioni, le ipotesi sulle origini e la natura del ritrovamento sono sostanzialmente tre. La prima: «Potrebbero essere i resti di un cascinale nell’area golenale che ha inglobato parte di una struttura fortificata più antica». La seconda: «Un baluardo eretto all’epoca della Guerra dei Trent’anni, quando Cremona era sotto assedio». Le mappe militari riportano la presenza di uno di questi bastioni posti a difesa della città, ma in un’altra zona. La terza suggestione proposta dall’architetto Garioni porta direttamente ad Alessandro Capra, geniale ingegnere cremonese del ‘600. «Lui e altri suoi colleghi costruirono i cosiddetti ‘pennelli’, una sorta di moli per rallentare la corrente e allontanare le acque dalla città rendendola così più sicura. Una lotta contro il fiume durata secoli. Delle tre possibilità, però, penso che questa sia la meno accreditata».

Toccherà alla Soprintendenza sciogliere il mistero: un archeologo, già incaricato del sopralluogo, è atteso nei prossimi giorni. Meglio non aspettare troppo, anche perché il Po, così come ha restituito un altro dei suoi tesori, potrebbe riprenderselo in fretta.

https://milano.corriere.it/notizie/cronaca/17_gennaio_16/secca-po-restituisce-cremona-ritrovamento-fortino-e1b1191c-db64-11e6-8da6-59efe3faefec.shtml

 

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