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Benevento - GRIMOALDO III - ADELCHI - Denaro - Monogrammi.


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Ben volentieri condivido una delle ultime entrate in collezione sul fronte delle "beneventane" in argento.

Agli occhi dei più "esperti" l'ardua sentenza.... 

Lotto 25 dell'asta Varesi n. 79 del 10-11/05/2022 di cui allego foto (sito web) e descrizione in catalogo:

BENEVENTO - GRIMOALDO III, Principe (788-806) Denaro MIR 196 Ag g 1,58 mm 19  RRRR • Bellissimo esemplare con patina di vecchia raccolta SPL.

 

Su tale Principe (https://www.treccani.it/enciclopedia/grimoaldo_(Dizionario-Biografico)?

Principe di Benevento, primo di questo nome, era figlio del duca Arechi (II) e di Adelperga, figlia di Desiderio, re dei Longobardi, un'unione che avrebbe fortemente contribuito a indirizzare la politica del giovane principe. Suo padre era salito al trono ducale verso la fine degli anni Cinquanta dell'VIII secolo, poco meno di vent'anni prima della caduta del Regnum Langobardorum a opera di Carlo Magno.

Gli anni della giovinezza di G. - la cui data di nascita potrebbe essere collocata entro il settimo decennio del secolo - furono segnati dal progressivo deterioramento dei rapporti con il re franco.

Il padre di G. aveva contribuito a rinnovare e a potenziare il potere ducale ponendosi per molti aspetti sullo stesso piano di una figura regia con tutto quello che ciò implicava, e non solo nel quadro di una politica tradizionalmente indipendentistica dal Regnum. Aveva infatti radicalmente mutato il valore della sua titolatura da ducale a principesca, esprimendo così un più alto senso della propria autorità e imponendosi quale effettivo erede della tradizione regia longobarda. Sue dunque erano le nuove, altisonanti definizioni del potere quasi-regio in area beneventana dal 774; e sempre sue furono le migliorie legislative che con un predicato, sia pure non propriamente regio, apportò al già cospicuo corpus di leggi emanate dai re longobardi. Migliorie, che - sebbene inquadrate in un contesto storico-geografico relativamente ristretto e in un panorama politico particolare - furono pur sempre pensate in una prospettiva che, va ribadito, era decisamente quasi-regia. Riforme in linea con l'aulico programma e con la nuova coscienza principesca beneventana vennero attuate anche in campo monetario, nei rapporti con l'episcopato locale e la Chiesa romana, negli usi cancellereschi e nel cerimoniale di corte.

Studi recenti (Albertoni, p. 23; Gasparri, p. 110) hanno ribadito l'estraneità dei Beneventani alla sfortunata sommossa antifranca del 776, anche se l'assenza di prove, nelle fonti documentarie e cronachistiche, di una complicità del padre di G. non basta certo a fugare tale sospetto. Tuttavia, l'orgogliosa insofferenza del Ducato meridionale nei confronti del potere franco doveva apparire una vera e propria sfida. Carlo d'altra parte, pressato dalle richieste di intervento della Chiesa di Roma, si accordò anticipatamente con papa Adriano I per la donatio di quell'area al Patrimonium S. Petri. Per mantenere un certo equilibrio politico-territoriale locale raggiunse inoltre un'intesa con i Bizantini e, infine, con l'indipendente Ducato napoletano. Nel 787 Carlo, benché forse non del tutto convinto a invadere il Beneventano, territorio che nel complesso mosaico di dominazioni in area meridionale poteva servirgli da cuscinetto, specie nei confronti dell'Impero orientale, dopo una rapida avanzata raggiungeva il Ducato apprestandosi a occuparlo. Arechi, per scongiurare rappresaglie franche, inviò sia doni al nemico sia, quali ostaggi, due suoi figli: G. e Adelchisa (il Poeta Saxo, Vita, II, ad annum 786, si riferisce invece all'invio di G. e di suo fratello Romualdo). La fedeltà giurata del duca al sovrano poneva momentaneamente fine alle ostilità con i Beneventani. Anche Carlo auspicava questa pace sia perché si era imbattuto in una decisa quanto inaspettata resistenza dei Longobardi di Capua, sia in quanto temeva, e con ragione, un'assai prossima ribellione dei Bavari del duca Tassilone (III). Si trattava di episodi che, se concomitanti, avrebbero reso problematica la difesa, se non la permanenza, di truppe franche in Italia, intrappolate tra due fronti nemici.

Pochi mesi dopo, nell'agosto 787, Arechi moriva lasciando vacante il trono per la prematura scomparsa di suo figlio Romualdo (luglio 787) che avrebbe dovuto succedergli. G., che nel frattempo era stato condotto da Carlo alla corte di Aquisgrana, ottenne dal re franco di poter tornare a Benevento, dove la reggenza era stata presa da Adelperga, esaudendo così le reiterate richieste di lei e dei locali magnates in tal senso. G., a questo scopo, dovette giurare fedeltà a Carlo facendo giurare anche il suo popolo e promettendo altresì, una volta giunto in patria, di porre il nome del sovrano franco sui diplomi e le monete che avrebbe emesso.

Tra le condizioni di Carlo cui G. non acconsentì una volta giunto in patria con l'incarico di amministrare il Principato - non è noto se per legame vassallatico - ci furono invece il taglio della barba ai suoi uomini e l'abbattimento delle mura di Salerno, Conza e Acerenza anche se va osservato che non si è certi, per quest'ultimo punto, della bontà delle fonti e dell'eventuale accoglimento di tale proposta da parte del principe.

Giunto a Benevento, G. inaugurò il suo governo rendendo grazie in cattedrale; l'inizio del suo principato è collocato concordemente (da Di Meo a Schipa, da P. Bertolini a Gasparri) nel maggio del 788, come appare dalla datazione del primo diploma da lui emanato, ma questa data non trova riscontro negli annali e nelle cronache locali che pure descrivono gli avvenimenti del tempo. Né Erchemperto infatti, né gli Annales Beneventani, né Romualdo Salernitano né il Chronicon Salernitanum offrono chiari ragguagli sul preciso momento in cui G. pervenne al potere. È stato giustamente supposto, al riguardo, che, tacendo i particolari dell'assunzione al trono di G., si evitava abilmente di chiarire il ruolo decisivo ricoperto al proposito dal sovrano franco (P. Bertolini, pp. 34 ss.).

G. optò per il temporaneo mantenimento di una linea politica che, per quanto possibile autonoma, pur nella formale dipendenza dai Franchi, in breve lo rese ostile alle ingerenze papali e a quelle bizantine. Il papa Adriano I, dal quale si erano recati in ambasceria alcuni longobardi capuani restii a sottomettersi a Carlo, aveva nel tempo chiaramente fatto intendere, con la sua politica genericamente antilongobarda ancor più che filofranca, di avere delle mire verso i territori della Campania, tra il Liri e il Volturno. D'altra parte G., sottomettendosi ai Franchi e favorendone la politica, aveva in un certo senso reso più difficile quell'espansione a Sud cui il Papato avrebbe invece mirato, specie stando alle promesse e agli accordi con Carlo Magno, stipulati a metà degli anni Settanta.

Nel 788, durante il suo primo anno di principato, G. ebbe occasione di adempiere fattivamente al giuramento di fedeltà a Carlo. Il re franco aveva infatti rifiutato la proposta della corte orientale, che avrebbe desiderato ottenere per promessa sposa del giovane imperatore Costantino VI una delle figlie di Carlo Magno. Lo sdegno bizantino sfociò in una spedizione punitiva organizzata ai danni di alcuni territori ormai franchi, come quelli beneventani. G. si impegnò vigorosamente a favore dei Franchi contro i Bizantini, particolarmente in Calabria.

Probabilmente verso il 791, con una politica oscillante nelle sue alleanze, G. si unì in matrimonio con Ewanzia che, per Erchemperto (cap. 5; Chronicon Salernitanum, cap. 13), sarebbe stata una nipote dell'imperatore Costantino VI, mentre in realtà era cognata di quest'ultimo. L'unione tuttavia, è bene sottolinearlo, coronava un più articolato progetto di politica matrimoniale che era stato pianificato e parzialmente concordato, a suo tempo, dal padre di G. con l'imperatore d'Oriente. È altresì da rimarcare, nella disinvolta politica estera di G., il tentativo, momentaneamente riuscito, di scollare il Principato beneventano dall'orizzonte piatto di un'alleanza con la Corona franca, alleanza che sarebbe comunque stata senza speranze di autonomia.

Da quel momento (791) cominciarono le incursioni franche in territorio beneventano ma, come è stato ampiamente posto in rilievo dall'attuale storiografia, si trattò di una serie di scaramucce senza gravi conseguenze per i contendenti. In un primo scontro G. ebbe facilmente la meglio sulle truppe condotte da Winichis, duca franco di Spoleto che, dopo una rapida penetrazione tra Abruzzo e Molise con l'occupazione dei gastaldati di Chieti e Ortona, venne fermato e catturato da G. a Lucera.

Dall'unione con Ewanzia almeno per qualche tempo si ebbe un riavvicinamento alla corte orientale ma, come non manca di sottolineare Erchemperto (cap. 5, che tuttavia non chiarisce i motivi di un probabile disagio nella coppia), tra i due coniugi in pochi anni (forse nel 795) l'amore si trasformò in odio. Il ripudio di Ewanzia avvenne probabilmente durante i continui scontri con i Franchi. Era stato reso possibile, sempre secondo Erchemperto, dall'occasio, realistica, dell'opposizione d'Oltralpe all'unione di G. con la principessa bizantina, fatto che parve un chiaro riavvicinamento beneventano alla corte orientale. Forse il ripudio, cui già era ricorso l'imperatore, che a sua volta aveva lasciato la moglie (sorella di Ewanzia) per risposarsi, significò per G. la possibilità di far cessare le incursioni franche (ibid., dove acutamente si rileva la sua astuzia). G. mirava così al duplice riconoscimento, e dei Carolingi e di Costantino VI, per l'ossequio dimostrato a entrambe le corti. Narrando delle ostilità tra G. e i Franchi (in Italia ormai sotto la guida di Pipino), la partecipazione emotiva di Erchemperto, sebbene scrivesse a distanza di circa un secolo dagli avvenimenti, è fortissima: è palese il suo entusiasmo per l'indipendentismo dimostrato da G. quando usa, in senso partecipativo, la prima persona plurale (cap. 6). Non mancarono momenti di maggiore tensione quando alle azioni di guerriglia - perché di questo realmente si trattava - da parte franca parteciparono anche Pipino e Ludovico, figli di Carlo Magno (probabilmente nel 793, e ancora tra l'800 e l'801). L'entusiasmo per la fermezza di G. che risalta nelle pagine di Erchemperto non corrispose, nei fatti, a un sostanziale mutamento della situazione, che si mantenne più o meno invariata, in una sorta di stallo nel panorama politico meridionale.

La tensione antifranca aveva caratterizzato i suoi circa diciotto anni di principato, dal maggio del 788 all'aprile dell'806, quando, morendo senza lasciare eredi diretti, gli succedette il suo "storesaiz" (probabilmente il tesoriere), Grimoaldo, che proseguì decisamente la linea politica del suo predecessore cercando di mantenere indipendente il Principato dall'ormai esteso dominio dei Carolingi.

Quella della morte di G. è un'altra data che ha dato origine, dal Settecento a oggi, a una serie di complicate riflessioni sulla cronologia ducale-principesca beneventana, senza che tuttavia siano mai state rilevate delle particolari variazioni, se non nel riferimento al giorno della settimana o al mese.

 

Saluti,

Domenico

25.jpg

Modificato da Oppiano
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Inviato (modificato)
56 minuti fa, numa numa dice:

Cosa vuoi sapere Oppiano ? 

 

Grazie @numa numa,

la tematica dei Monogrammi mi affascina e, penso, che questo sia uno degli esemplari forse più significativi di questa monetazione.

Mia intenzione di approfondire questo aspetto.

 

Modificato da Oppiano

  • Oppiano ha rinominato il titolo in Benevento - GRIMOALDO III - ADELCHI - Denaro - Monogrammi.
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Inviato

A proposito di Monogrammi, aggiungo questo ulteriore esemplare sempre acquisito nella precitata asta e così descritto in Catalogo:

BENEVENTO - ADELCHI, Principe (853-878) Denaro MIR 235 Ag g 1,20 mm 19  RRRR • Bellissimo esemplare con patina di vecchia raccolta SPL.

Monogrammi veramente belli a mio avviso pensando peraltro all’epoca di tali monete.

d

p.s.: a questo punto, ho pensato di modificare il titolo della discussione.

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Supporter
Inviato

MONOGRAMMA (dal gr. μόνος "solo" e γράμμα "scrittura")
 

 

II monogramma è l'abbreviazione di una parola intera mediante l'unione o l'intreccio delle singole lettere. Si distingue dalla legatura e dalla sigla, in quanto queste sono abbreviazioni di una sola parte della parola. Inoltre, mentre nella legatura e nella sigla le lettere vengono unite in senso orizzontale, nel monogramma si possono constatare anche altre disposizioni. I monogrammi vengono di solito usati a significare i nomi proprî di persona; non è però raro il caso di monogrammi formati dal legamento e dall'intreccio delle lettere componenti uno o più vocaboli, o un'intera frase.

Un primo tentativo di forma monogrammatica dato alle parole è costituito da quella foggia di scrittura in cui la lettera iniziale è più grande delle altre, e attorno a essa sono disposte le rimanenti lettere. In altri casi le lettere di minori dimensioni sono inserite entro la grande iniziale, e non mancano esempî di monogrammi con alcune lettere inserite entro l'iniziale e altre disposte fuori. Non si può stabilire che per la formazione dei monogrammi vi sia stato un vero e proprio sistema. Essa dipese molto dalla maggiore o minore genialità dell'artista, tuttavia si ebbe sempre per principio di mettere in rilievo l'iniziale del nome col darle maggiori dimensioni, e di curare il più possibile la simmetria delle altre lettere.

Antichità. - In Grecia i monogrammi appaiono sulle monete fino dal sec. V a. C., e abbondano nei secoli seguenti per indicare popoli o città o anche nomi di magistrati. Si potrebbero forse anche considerare come monogrammi le cifre del sistema decadico adoperate in Grecia e in Roma per indicare i nomi delle monete, per es., il denaro (*). Prescindendo da ciò, per quanto sappiamo, i monogrammi cominciarono a essere usati nel sec. I a. C., dapprima parcamente, in testi sepolcrali e su oggetti di carattere industriale (vasi fittili di Pompei); poi l'uso dei monogrammi andò sempre più diffondendosi e la loro forma si fece sempre più complicata, onde più essi appaiono artificiosi, più si devono ritenere di età tarda. Nei secoli V e VI si rende di uso più frequente una foggia di monogrammi, già nota nell'età precedente, in cui le lettere appaiono disposte in modo da formare una specie di quadrato. Se ne hanno esempî in plutei e capitelli di Roma, di Ravenna, di Napoli, di Parenzo, ecc.

La lettura di taluni monogrammi si rende difficile anche perché talora nel nesso è indicata una sola volta una lettera che nel nome o nella parola torna più volte. Tale difficoltà fu intesa anche dagli antichi, e per l'appunto Simmaco, scrivendo al suo amico Nicomaco Flaviano, diceva del proprio nome monogrammato inciso nella gemma del suo anello: magis intelligi quam legi promptum est (epist., II, 12).

Celebre è il monogramma del nome di Cristo ???, formato dalle due prime lettere della voce greca Χριστός. Fu forse dapprima usato quale compendium scripturae, facente cioè parte di una frase (es.: δόξα ἐν ???). Fu adottato dall'imperatore Costantino, come simbolo di vittoria e posto entro una corona d'oro, in cima all'asta del labaro. Con la pace della Chiesa, divenne un segno distintivo dei cristiani e fu segnato su oggetti di uso sacro e civile e sulle tombe dei fedeli. Il monogramma costantiniano cedette a poco a poco il posto alla croce monogrammatica, formata anch'essa dalle due iniziali del nome Χριστός, ma la lettera X è fatta girare di un quadrante in modo da rendere la figura di una croce cui è unita nell'asta verticale la P (???, ???). Altro monogramma è quello formato dalle iniziali dei nomi 'Ιησοῦς e Χριστός, e cioè dalle lettere I e X insieme intrecciate (???); appare in monumenti cristiani di ogni genere, almeno dall'età di Costantino in poi.

Medioevo ed età moderna. - L'uso dei monogrammi si protrae nel Medioevo, e giunge sino ai giorni nostri. Il monogramma sacro composto delle lettere intrecciate I.H.S. sembra relativamente recente (sec. XIV?), certo più di quanto per lungo tempo si credette. Uno dei più antichi monogrammi medievali è quello di Teodorico. Molti re di Francia, dai Merovingi a Filippo VI, apposero il loro monogramma a decreti e diplomi. Notissimo il monogramma di Carlomagno, che figura anche nelle sue monete, e il cui uso Eginardo attribuisce all'inabilità scrittoria dell'imperatore. I papi, gli alti dignitarî della Chiesa adoperarono anch'essi sovente il monogramma per contrassegnare bolle, decreti, lettere; e monogrammi di pontefici si trovano molte volte apposti a opere architettoniche o scultorie: così, per esempio, quello di Niccolò I nella basilica di S. Clemente, quelli di Sisto III e di Leone III in S. Maria Maggiore, quello dello stesso Leone III nella chiesa dei Ss. Nereo e Achilleo, ecc. Pure in edifizî, oltre che su libri e documenti, si trova uno dei monogrammi regali più noti, l'H.D. di Enrico II e Diana di Poitiers. Notevole la differenza che corre, propriamente parlando, tra il monogramma composto di lettere fuse insieme (per es., due L opposti con l'asta in comune) e quello in cui ogni lettera è riprodotta integralmente (lettere intrecciate), com'è d'uso nei monogrammi più moderni. Sino dagl'inizî dell'arte tipografica stampatori ed editori imprimono i loro monogrammi sui frontespizî dei libri: monogrammi che formano un gruppo importante delle marche tipografiche (v. marca). Molti pittori, incisori, fonditori, orefici, apposero monogrammi alle loro opere: così H. Aldegrever, A. Dürer, F. Hals, Rembrandt, S. van Ruisdael, ecc. Alcuni artisti si specializzarono poi nella composizione e nel disegno di monogrammi (monogrammisti). In tempi più recenti, i monogrammi acquistano un maggior valore ornamentale (sulla biancheria, sulle livree, ecc.). Questo tipo di monogramma è ancor oggi il più diffuso, insieme con quelli artistici o industriali, e con quelli che adornano la carta da lettere o gli oggetti ai quali si vuole conferire un crisma di proprietà o di ricordo.

Da: https://www.treccani.it/enciclopedia/monogramma_(Enciclopedia-Italiana)/

 


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