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Henry Dunant nasce a Ginevra l’8 maggio 1828. Appartiene ad una famiglia agiata, di religione calvinista, il padre è un commerciante ed è consigliere alla Camera delle Tutele per la sorveglianza e protezione degli orfani.

La madre, donna pia e devota, sviluppa in lui l’amore verso il prossimo, accompagnandolo a visitare poveri e malati. Nel 1843 entra a far parte di un gruppo di giovani della Chiesa Libera. Era il momento delle idee antischiaviste, circolavano gli scritti dell’americana M. Beecher-Stowe, autrice de “La Capanna dello zio Tom” (pubblicato nel 1852) e luminosa si presentava la figura caritatevole di Florence Nightingale, l’eroina della guerra di Crimea. Dunant ragazzo conosce le due giovani donne e ne rimane affascinato. Nel 1855 fonda a Parigi l’Alleanza delle Unioni Cristiane dei Giovani.

Qualche anno più tardi si reca in Algeria per la “Compagnia delle colonie svizzere di Sétif”, si affeziona alla cultura locale, studia l’Islam e prende lezioni di arabo. Nel 1858 vi fonda una società agricola, la “Società Anonima dei Mulini di Mons-Djemila”, tentando di sviluppare l’ambizioso progetto di installare mulini per la produzione di cereali. Per fare ciò ha bisogno di concessioni per la lavorazione di terreni e per la loro irrigazione, che il governo algerino non gli riconoscerà mai. Contro questo ostacolo, essendo quel territorio colonia francese, decide di parlare personalmente con Napoleone III, allora impegnato alla testa del suo esercito, in Italia contro gli Austriaci. Quando Dunant arriva in Lombardia, si è nel pieno della seconda guerra d’indipendenza italiana: scoppia a Solferino una delle battaglie più sanguinose che l’Europa abbia mai vissuto. Dunant rimane sconvolto dal numero impressionante dei feriti e dei morti, ma soprattutto dal fatto che essi vengano abbandonati più o meno a loro stessi; più di 40.000 persone giacciono sul campo di battaglia. Cosciente che l’unica cosa da fare è quella di ricorrere alla buona volontà dei civili, Dunant stesso si improvvisa infermiere, raduna uomini e donne, procura acqua, brodo, biancheria e bende, ritorna sui campi di battaglia per raccogliere altri feriti.

Nonostante tutto è ben consapevole dell’insufficienza dei soccorsi in rapporto alle necessità. Dopo la fine della guerra, torna a Ginevra, ma non riesce a dimenticare gli avvenimenti italiani. Trasferisce tutta la sua amarezza, le emozioni, l’angoscia e l’impotenza provate in un libro, “Un Souvenir de Solferino” che vede la luce nel 1862. Il suo fine è quello di scuotere le coscienze sensibilizzando l’opinione pubblica per la realizzazione del suo progetto: creare una Società di soccorso volontario in ogni Stato, con il compito di organizzare ed addestrare squadre per l’assistenza dei feriti in guerra. Propone che i feriti ed il personale sanitario vengano ritenuti neutrali dalle parti belligeranti, protetti da un segno distintivo comune. Il libro (1600 copie stampate a proprie spese) è un vero successo, ha una vasta risonanza in tutta Europa e crea immediatamente un clima favorevole alla realizzazione concreta degli ideali in esso contenuti. Nello stesso anno Dunant fonda una Commissione di lavoro, il “Comitato ginevrino di soccorso dei militari feriti”, prima cellula di quello che diventerà il Comitato Internazionale della Croce Rossa. Dunant diffonde la sua idea senza risparmio di energie e di risorse, a tal punto che si ritrova nel 1867 sul lastrico. Nello stesso anno il Credito Ginevrino, che aveva finanziato i lavori in Algeria, conduce contro di lui un’azione che lo porta al fallimento.

La sentenza del tribunale civile di Ginevra compare in prima pagina sul “Giornale di Ginevra”. Un colpo tremento: la sua vita e soprattutto il suo lavoro sono ad una svolta. Nel 1872, otto anni dopo la Prima Convenzione di Ginevra, a Plymouth ( Inghilterra ), presenta una sua relazione sulla condizione e il trattamento dei prigionieri di guerra (che sarà poi soggetto della III Convenzione di Ginevra nel 1929) e un progetto sull’Alta Corte Internazionale di Arbitraggio. Al termine dell’intervento sta male, sviene e confessa di non aver mangiato quasi nulla per diversi giorni. L’ultima apparizione in pubblico per Henry Dunant sarà a Londra il 1° febbraio 1875 (a 47 anni) durante il congresso internazionale convocato da un’associazione da lui stesso fondata 5 anni prima, il cui scopo è “l’abolizione completa e definitiva della tratta dei negri e del commercio degli schiavi”. Seguono 20 anni di buio dei quali non si hanno notizie certe, probabilmente in quel periodo Dunant vive senza fissa dimora, di carità e dell’ospitalità di qualche amico. Fino ad un giorno dell’anno 1895 quando il giornalista svizzero George Baumberger lo ritrova ad Heiden, un piccolo villaggio sulle colline a sud del lago di Costanza in Svizzera, nella pensione Paradiso. Sempre qui, nella stanza n.12 dell’ospedale distrettuale, trascorre i rimanenti diciotto anni della sua vita, senza muoversi, nemmeno quando il mondo non può più fare a meno di ignorarlo, nemmeno dopo che il Papa e la zarina madre gli scrivono di pugno accorate lettere, nemmeno in seguito all’intervento dei Governi che gli offrono cariche, riconoscimenti e denaro; nemmeno dopo l’assegnazione, nel 1901, del Premio Nobel per la Pace.

Negli ultimi anni, ad ulteriore testimonianza di grandezza morale, Dunant scrive le sue ultime volontà riguardo la propria sepoltura che sarebbe dovuta avvenire “come un cane”, ovvero in una fossa comune, a significare quanto l’uomo, di per sé, sia irrilevante rispetto alle sue Idee. Nel cimitero di Zurigo c’è un monumento a lui dedicato, ma non custodisce le sue spoglie, poiché l’eredità di Dunant consiste nella continuità del suo pensiero, negli uomini che lo hanno seguito, lo seguono e lo seguiranno. Non tocca un soldo del denaro legato al premio Nobel che destinerà, in testamento, ad opere umanitarie in Norvegia e Svizzera, oltre che a garantire un “letto pagato” per i vecchi bisognosi di Heiden.
Muore a 82 anni il 30 ottobre 1910.
 

https://www.solferinoesanmartino.it/henry-dunant/


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