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Immigrazione nella Roma rinascimentale


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Roma è sempre stata una città aperta, con porte spalancate a gente di diverse etnie. Lo dimostra il fatto che per i Romani antichi, il razzismo basato sulla etnia e sul colore della pelle e fattezze fisiche non esisteva. Essi avevano schiavi bianchi: Germani, Galli, Britanni, come anche Italici e dell’Urbe stessa se ci si addebitava e si finiva alla mercé, come schiavi Numidi dalla pelle scura. Già dalla Roma Quadrata, come ci narra Tito Livio, la città fu aperta e crocevia di popoli. Narra Livio in “Ab Urbe Condita”: “Deinde ne vana urbis magnitudo esset, adiciendae multitudinis causa vetere consilio condentium urbes, qui obscuram atque humilem conciendo ad se multitudinem natam e terra sibi problem ementiebantur, locum qui nunc saeptus descendentibus inter duos lucos (ad laevam) est asylum aperit. Eo ex finitimis populis turba omnis, sine discrimine liber an servus esset, avida novarum rerum perfugit, idque primum ad coeptam magnitudinem roboris fuit”.

Anche se Roma sin dall’antichità, dal fiore della sua potenza imperiale e commerciale, fu una città caratterizzata da una moltitudine di gente straniera, l’immigrazione più fiorente la vediamo – dopo la caduta dell’Impero – dopo l’esilio avignonese . Difatti a cavallo fra XIV e XV secolo la popolazione della città va raddoppiando grazie all’insediamento di immigrati. Questa immigrazione di genti non italiane va travata nel ritorno dei papi e dei cardinali in Roma e al rilancio dell’economia cittadina. Naturalmente, con il ritorno dei papi la Curia Romana promuove i traffici commerciali attirando nell’Urbe i pellegrini. Con il fervente pellegrinaggio, sono molteplici le osterie in città aperte dai non romani e non italiani, nonché le strutture d’accoglienza. Difatti il pellegrinaggio favorisce l’avvento di stranieri non solo per una questione di fede, ma anche lavorativa, con la conseguente causa dello stanziamento in loco ed il proliferare di famiglie. Molti stranieri in Roma hanno lavori presso la corte pontificia come anche nelle corti cardinalizie. Ma questi ed i pellegrini non sono i soli stranieri in Roma. Difatti a cavallo fra XV e XVI secolo si vede un fervente numero di intellettuali, artisti , artigiani e architetti; copisti specialmente delle zone degli odierni Paesi Bassi e Germania. A loro si deve anche l’apertura delle prime tipografie in Roma.

L’immigrazione fa parte dell’essere umano, sia popolano che nobile. In effetti le nobili famiglie romane offrono anche asilo alle vittime dell’avanzata ottomana; oltre ad avere in seno dei lavoranti di origini “straniera”. Le virgolette valgono poiché si intende come i molti lavoranti di famiglie nobiliari romane provenivano da altri Stati Italiani, all’epoca visti come “Estero”. Papi non romani, ma al tempo stesso italiani, attirano numerosi conterranei in Roma e così, lo stanziamento degli stessi e famiglie. Si può ben dire che il papato ha favorito l’immigrazione in Roma, quasi come ai tempi dei Romani – però per cause e modalità naturalmente differenti - . I Corsi, ad esempio, assicuravano in Roma ( fine XV secolo ) numerosi artigiani, servi come anche soldati che andavano a stanziarsi all’Isola Tiberina e in Trastevere, rione fra i più popolati da stranieri fin dalla Roma antica. Per quel che concerne gli Stati europei, l’immigrazione coinvolgeva maggiormente gente istruita come banchieri e mercanti; ma anche fornai e tavernieri che, come detto, aprivano osterie da loro gestiti per l’accoglienza dei loro connazionali che, spesso, si insediavano in città. Come, su questa scia, vi erano anche albergatori specializzati nell’accoglienza dei propri connazionali.

Si formarono piccole comunità straniere che andavano ad incoraggiare l’arrivo di altri conterranei. Se prendiamo ad esempio procuratori dei vescovi tedeschi, come i banchieri; questi attraevano da paesi germanici gruppi di lavoratori non qualificati ma anche artigiani, commercianti e fornai.

Oltre ad una grande presenza tedesca in Roma , maggiore di questa era la presenza dalla Penisola Iberica. Nel XV secolo in Roma troviamo nei cantieri navali capitolini, manodopera specializzata proveniente dalle zone catalane. La presenza ispanica va ad accentuarsi con Callisto III Borgia, a metà del XV secolo , e con Alessandro VI Borgia, padre di Cesare e di Lucrezia Borgia. Troviamo una presenza di diecimila spagnoli in Roma, calcolati da Marin Sanudo ne “I Diari” ( XXX, col. 91 ). Non va dimenticato che l’immigrazione spagnola però vi era anche nel Trecento verso Roma.

Una via molto nota in Roma, che è via della Scrofa, era colma di francesi e spagnoli che svolgevano lavori come calzolai, fornai, sellai che operavano per la Curia. Inoltre, diverse donne e francesi e spagnole erano dedite alla prostituzione ( “Descripio Parochie S. Trifonis” – 1517 ). Per quel che concerne la prostituzione in città, è interessante un autore spagnolo degli inizi del XVI secolo: Francisco Delicado.

La presenta massiccia e consolidati dagli stranieri in Roma, forma al lungo andare nel Quattrocento confraternite e ospizi. Non solo, è da stimolo per la creazione di chiese “nazionali” , anche se già prima vediamo la comparsa di alcune di esse in Roma. Esempio: nel Trecento i lusitani avevano come loro chiesa Sa. Antonio dei Portoghesi; Santa Brigida a Campo de’ Fiori, che sorge dove vi era l’ospizio per gli svedesi istituito dalla Santa. Fiorente era nel Cinquecento, in quella zona, la presenza degli svedesi. Questi alcuni esempi. Troviamo in quel periodo nell’Urbe immigrati ungheresi, croati, slavi, danesi, inglesi , scozzesi e irlandesi che trovano un punto di ritrovo nella chiesa di Santa Maria, divenuta poi “Santo Spirito”, in Sassia. Ricordiamo anche che dalmati e croati, fatti giungere a cavallo fra Quattrocento e Cinquecento, prendevano il soprannome di “Schiavoni” . Tutte queste realtà fanno notare come l’Urbe fosse, come è sempre stata, un realtà multietnica ed una città aperta fin dagli albori ad ogni tipo di migrazione e di accoglimento.

Altri gruppi di stranieri giunti nel Medioevo, invece, convivono pur senza avere chiese vere e proprie destinate al loro ritrovo. Questo perché in gruppi minori.

La gente di Roma in generale, diffidava dei pellegrini. Questi erano obbligati infatti a farsi riconoscere come tali dalla confraternita della Trinità dei Pellegrini. Queste paure sono incrementate dall’arrivo in Roma degli zingari. Pur se i bandi e processi contro i nomadi si susseguono , gli stessi rimangono nell’Urbe e prolificano insediandosi specialmente nel rione Monti. Con il tempo, i nomadi abbandonano la loro lingua come il nomadismo stesso; così la loro vita spesso si intrecciava con quella però marginale degli schiavi musulmani che si erano convertiti al cattolicesimo ( specialmente nel XVI secolo ); come anche con i “moriscos” che erano degli ex musulmani di origine spagnola. Di questi ultimi, troviamo in Roma ben 157 famiglie.

Non si può parlare di Roma e della sua storia inerente la popolazione, se non si affronta la storia degli Ebrei. La presenza ebraica esiste in questa città dal II sec. a.C. , incrementandosi poi sotto Pompeo Magno e quindi fiorente per tutto l’Impero sulla sponda trasteverina. Fu nel Medioevo, fra il X e il XIII secolo, che gli Ebrei romani si spostarono dall’altra sponda del fiume, prevalentemente nel rione Monti. Si constata come dopo la metà del XII secolo, gli Ebrei in Roma contano duecento famiglie (non poche se si nota la demografia di quell’epoca). Gli Ebrei in Roma a quel tempo erano tenuti in grande rispetto; cosa purtroppo che non avvenne nei secoli successivi. La comunità ebraica, sembra trovare appoggio alla Curia pontificia. Alla fine del XIII secolo, le famiglie ebraiche ammontano a quasi un migliaio. Frequente fu l’immigrazione ebraica verso Roma dai centri del Lazio, anche durante la Cattività Avignonese, come durante la peste del 1348 / 1350. In questi due anni, la comunità si ridusse di molto ma i continui spostamenti dai centri laziali andavano a riconsolidare, se non del tutto, la presenza ebraica in Roma. Nel Quattrocento i papi cercarono di migliorare le condizioni di vita degli Ebrei in Roma; e difatti si registra sotto il pontificato di Sisto IV l’arrivo di ebrei tedeschi, francesi e spagnoli. L’impennata dell’immigrazione ebraica verso Roma la si registra a fine Quattrocento, con Alessandro VI Borgia che andò ad accogliere gli Ebrei espulsi dalla Spagna e dell’Italia Meridionale; nonché dalle zone della Provenza e da Tripoli. Nella cronaca di Stefano Infessura, possiamo leggere registrato nell’anno 1493: “Marrani in maxima quantitate steterunt extra portam Appiae aput Caput Bovis” .

Nel 1526 troviamo elencate nella Descriptio Urbis, 373 famiglie ebree; 1.772 persone su di una popolazione di 53.897 persone in Roma. Fra la popolazione ebraica, sempre la Descriptio Urbis del 1526 indica in ordine di importanza la componente ebraica spagnola, tripolina, siciliana, mora, tedesca e francese e poi quella peninsulare italiana. E’ proprio la componente spagnola ebraica a formare il nucleo safardita più numeroso d’Italia. Questo accrescere di importanza, genera un conflitto con il resto del gruppo ebraico, tanto che la comunità ( “Universitas” ) si divide in diversi organismi quali: aragonesi, catalani e castigliani. Su base invece nazionale si differenziano quelli di provenienza francese e tedesca che avevano formata un’unica Schola. Poi alla fine, vi è la componente siciliana che va a distinguersi per la sua povertà. Questa parte della comunità ebraica, la si trova a ridosso del Tevere, quasi incapace di mantenersi e i suoi membri li ritroviamo fra gli scaricatori e i marittimi.

Purtroppo, la crescita dell’insediamento ebraico viene “spezzata” dal Sacco di Roma. Questo ebbe a portare al costituirsi di attivi nuclei di immigrati, spingendo alla fusione della Scholae ( pre 1527 ve ne erano 11 ). Purtroppo poi la pressione statale e religiosa porterà gli Ebrei romani dal 1555 ad essere ghettizzati.

Come vediamo: Roma era Patria di tutti e nessuno può essere definito “romano puro”. Roma ha un volto, un’anima ed un cuore che ha sempre accolto il mondo intero. In questo, io concluderei con una frase di Rutilio Namaziano, del IV sec. d.C. ( anche lui “straniero” ) che ebbe a dire, in merito a Roma: “fecisti patriam diversis gentibus unam; urbem fecisti quod prius orbis erat”.

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A causa di questa importante migrazione,si modifico',addirittura,il dialetto parlato a Roma,che perse molte delle sue caratteristiche " centromeridionali", rimaste,invece,in molti piccoli centri del Lazio centrale e meridionale. 


Inviato
11 ore fa, RobertoRomano dice:

A causa di questa importante migrazione,si modifico',addirittura,il dialetto parlato a Roma,che perse molte delle sue caratteristiche " centromeridionali", rimaste,invece,in molti piccoli centri del Lazio centrale e meridionale. 

 

sì infatti: il dialetto romanesco medievale somigliava maggiormente ai dialetti meridionali della Partenope. Interessante una conzene romanesca del 1300: "Pellegrino" 


  • 1 anno dopo...
Inviato
Il 23/4/2022 alle 21:25, RobertoRomano dice:

A causa di questa importante migrazione,si modifico',addirittura,il dialetto parlato a Roma,che perse molte delle sue caratteristiche " centromeridionali", rimaste,invece,in molti piccoli centri del Lazio centrale e meridionale. 

 

Il romanesco “volgare” era già differente dalla parlata romanesca in epoca rinascimentale, figuriamoci con quella del Belli (dove la parlata romanesca assurse a giusta dignità letteraria) come del Trilussa. Nella ricerca sulla parlata romanesca è d’uopo lo studio della “Cronica” dell’ Anonimo Romano (Bartolomeo di Iacovo da Valmontone) , dell’anno 1357. Il romanesco medievale presentata una grande affinità linguistica con il napoletano; ad esempio parole come “uocchi” , così come “tiempo” oppure “costiello”, “criviello” e “mignaniello”; come anche “iente” o “vocca” che vanno a presentare qui dittonghi che ancora oggi si scorgono nella dialettica partenopea.

Nella Cronica troviamo già delle preposizioni articolate che comparvero già in antico, ovvero nel primo documento in assoluto sulla parlata romanesca medievale, ovvero sotto la chiesa di San Clemente. Nell’affresco si nota una lingua che si pone da intermediaria fra il latino ed il volgare romanesco, dove compaiono espressione come: “de le pute” e “co lo palo”. In quell’epoca la parlata romanesca già risente del latino, affermando dei casi propri, come le sgrammaticature; ad esempio “duritiam” che dovrebbe essere ablativo ma appare come accusativo. Il latino va già a perdersi come in “trahere” (latino) dove cade la H.

L’evoluzione del dialetto romanesco si scorge maggiormente fra il 1450 e il 1500. Questa evoluzione portò la parlata locale capitolina ad un avvicinamento al toscano. Rilevante fu la corte pontificia che aveva un carattere – come giusto che sia – cosmopolita. Questo carattere pontificio venne adottato grazie a letterati e al successo del volgare toscano nella letteratura quattrocentesca, così come al suo giusto prestigio; totalmente assente per la dialettica, o meglio parlata romanesca. Oltre a ciò, nella corte di due papi specialmente, come Leone X e Clemente VII, ebbero a fiorire maggiori impulsi toscani agli inizi del XVI secolo. Ciò però che maggiormente avvicinò il romanesco volgare al toscano fu il Sacco del 1527. Causa lo spopolamento cittadino (e qui un altro discorso si dovrebbe fare per quelli che pensano di discendere dagli abitanti della Roma medievale, se non Imperiale addirittura) volontario ed anche per la moltitudine di gente che perse la vita, Roma andò a ripopolarsi gradualmente con correnti migratorie dalla provenienza più variegata , e non solo dalla Penisola Italiana. Fra questi genti che ripopolarono l’Urbe, il peso socioeconomico ovviamente venne dalla Toscana - già terra di banche e presta soldi (i Medici furono i banchieri della Chiesa) - , nonché cagione del ripopolamento culturale, estraneo agli abitanti autoctoni di Roma. La scarsità di gente “autoctona” ( nessuno è mai autoctono di un posto ) e quindi la povertà innumeri della parlata locale, favorì l’accrescimento del toscano e la mescolanza, il connubio fra la dialettica toscana con quella locale.

 

Nella “Cronica” troviamo poi caratteri scomparsi nel romanesco e del Belli come del Trilussa – sino ad oggi - , come:

il conservarsi di jod (“iace” in romanesco volgare, e in italiano “giace”; “iònze”, e in italiano “giunse”)

la vocalizzazione di I come preconsonatico ( in volgare romanesco “aintro” , in italiano “altro”)

la metafonesi delle vocali mediobasse ( romanesco volgare “puopolo”, come “costiello”)

in forma forte (solo) l’articolo determinativo maschile (romanesco volgare “lo ponte” , che in italiano diventa “il ponte)

il futuro in àio (volgare romanesco “ferràio” , e in italiano “farò”)

ed infine il passato remoto in ào e éo (romanesco volgare “annao” , “fao” e “pennéo” , che in italiano diventano “andò” , “feci” e “pendé”).

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Inviato
Il 20/4/2022 alle 11:23, Aristarco dice:

Roma è sempre stata una città aperta, con porte spalancate a gente di diverse etnie.

 

Il 20/4/2022 alle 11:23, Aristarco dice:

Già dalla Roma Quadrata, come ci narra Tito Livio, la città fu aperta e crocevia di popoli. Narra Livio in “Ab Urbe Condita”

Che Roma sia stata un Citta' sempre disponibile all' immigrazione ? non e' stato stato sempre cosi' , se per immigrazione si intende la libera accoglienza del popolo ospitante lo straniero con concessione della cittadinanza .

Agli inizi della sua storia l' immigrazione fu solo una questione di necessita' , prima di espandersi la Citta' doveva ingrandirsi come popolazione , stando a Tito Livio , di elementi femminili in particolare .

Non dimentichiamo che la cittadinanza romana era concessa con estrema rarita' , forse dimentichi la Guerra Sociale durata quattro anni , dal 91 all' 87 a,C, ? vero punto di svolta della politica romana in funzione della completa accoglienza verso lo "straniero" italico ; figurati se l' immigrazione con cittadinanza , alla fine del I secolo a.C. potesse essere concessa allo "straniero" proveniente da fuori del territorio italico .

Quindi si puo' affermare che nel corso della Repubblica l' accoglienza , intesa come cittadinanza , non era tanto diffusa , piuttosto era selezionata , eclatanti le accoglienze in particolare di Greci a Roma : filosofi , medici , uomini di cultura in generale o personaggi eccezionali per capacita' individuali .

Anche durante l' Impero ci volle addirittura un decreto dell' Imperatore Claudio affinche' Senatori gallici venissero accolti nel Senato di Roma al fianco dei Senatori romani e italici . Questo forse fu l' ultimo atto anti discriminatorio nei confronti dell' accoglienza , dopo di che il mondo romano pote' dire con Caracalla , universalmente : "Civis Romanus sum"

Alla caduta dell' Impero romano , l' immigrazione divenne invasione , per certi aspetti positiva .

Questa e' solo una breve sintesi , il discorso meriterebbe uno svolgimento ben piu' articolato e lungo . 

 

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  • 8 mesi dopo...
Inviato

trovo negli abitanti - naturalmente non tutti - di Roma una prosopopea ed una ignoranza nell'asserire di discendere dai Romani; quando anche il DNA degli stessi era alquanto variegato 


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