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IGNORED

Riflessioni sui genocidi poco conosciuti


ARES III

Risposte migliori

Ho pensato di aprire una tale discussione essenzialmente per due ragioni: 

- far conoscere la triste sorte di popoli che non usufruiscono di molta pubblicità

- in secondo luogo, sono stato tacciato di razzismo perché ho aperto solo una discussione sull'antisemitismo (strano modo di pensare: sei razzista perché parli di razzismo, va bene lo stesso) e non su altri popoli oppressi. 

Quindi ho pensato di chiedere scusa per il mio imperdonabile comportamento e parlare anche di altri oppressi.

Certamente non sono seminari ma solo spunti di riflessione da cui partire per approfondire poi personalmente le varie tematiche.

Iniziamo con i Tartari di Crimea, popolazione poco conosciuta ma che ha patito molte sofferenze:

"La deportazione dei tatari di Crimea (in lingua tatara crimeana qırım tatarları sörgene) organizzata per ordine di Iosif Stalin nel 1944 verso la RSS Uzbeka come punizione collettiva per il presunto collaborazionismo con il regime nazista della Reichskommissariat Ukraine tra il 1942 e il 1943.

La deportazione ebbe inizio il 18 maggio 1944 in tutte le località abitate dai crimeani. Più di 32.000 truppe della NKVD parteciparono all'azione. 193.865 tatari crimeani furono deportati, 151.136 dei quali verso la RSS Uzbeka, 8.597 verso la RSSA dei Mari, 4.286 verso la RSS Kazaka e i rimanenti 29,846 in diversi oblast della RSSF Russa.

 

Dal maggio al novembre 10.105 tartari crimeani morirono di fame in Uzbekistan (il 7% dei deportati nella RSS Uzbeka). Circa 30.000 (il 20%) morirono in esilio nel primo anno e mezzo, secondo i dati del NKVD, mentre questa cifra salirebbe al 46% secondo attivisti tatari crimeani.

Gli attivisti crimeani chiedono il riconoscimento della deportazione come genocidio."

https://it.m.wikipedia.org/wiki/Deportazione_dei_tatari_di_Crimea

 

Per chi mastica l'inglese può andare su questa pagina web e troverá maggiori informazioni

https://en.m.wikipedia.org/wiki/Deportation_of_the_Crimean_Tatars

Allego due foto: una si commenta da sola, l'altra mostra il faccione sorridente di Lavrentiy Beria , il fautore materiale del genocidio.

 

 

Evpatoria_red_terror_corpses_at_sea_coast.jpg

Lavrenty_Beria.jpg

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Interessantissimo argomento. Un mio plauso personale per aver aperta questa discussione. Mi auguro che resti nell'ambito storico senza scadere in rivendicazioni politiche o religiose o altro che ne porterebbero alla chiusura.

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Le deportazioni subite dagli Estoni:

"Per deportazioni dall'Estonia, si intendono tutti quegli atti di violenza perpetrati ai danni della popolazione locale estone e dei paesi baltici in generale, con lo scopo finale di trasferirla forzatamente nei gulag in Urss, condannandola poi a morte o ai lavori forzati. Sono avvenute principalmente tra il 1940 ed il 1953, nell'epoca di Stalin e durante l'occupazione sovietica delle repubbliche.

Non appena l'Unione Sovietica ebbe occupato l'Estonia nel 1940 e rioccupata nuovamente nel 1944, dopo i tre anni di occupazione nazista, decine di migliaia di cittadini estoni subirono violente deportazioni negli anni quaranta, e fino alla fine del regime di Stalin (1953/56).

Le deportazioni delle vittime estoni avevano come destinazione finale la Siberia o il Kazakistan, per mezzo di vagoni bestiame, senza dare un avviso preventivo, mentre ai deportati veniva dato solo qualche ora nella notte per prepararsi, raccogliere quei pochi effetti personali trovandosi poi separati dai familiari, solitamente anch'essi deportati verso l'est sovietico.

Questa procedura veniva stabilita attraverso le Istruzioni di Serov. Gli estoni residenti nell'Oblast' di Leningrado (Urss), avevano già cominciato ad essere deportati, persino a partire dal 1935.[2]

La prima massiccia repressione del 1940 colpì l'élite estone.

Il 17 luglio 1940 venne deportato il Comandante Capo delle Forze Armate John Laidoner (che morirà nel 1953, durante la prigionia nel 

nel gulag di Vladimir) e la sua famiglia al completo lo seguirà il 30 luglio 1940.

Stessa sorte fu segnata per Konstantin Päts. Arrestato nel 1941, il Presidente dell'Estonia, venne condotto nella prigione di Penza e successivamente trasferito in un ospedale psichiatrico, morendo nel 1956, a Kalilin, mentre la sua famiglia, anch'essa arrestata, fu deportata nel gulag di Ufa.

Quasi tutti gli esponenti politici e militari estoni, (tra cui Aleksander Hellat, Jaan Teemant, Juhan Kukk solo per citarne alcuni) di tutte le leadership, e partiti nazionali estoni, vennero deportati con le loro rispettive famiglie, inclusi 10 degli 11 ministri estoni, e ben 68 dei 120 membri del Parlamento estone (Riigikogu).

Queste deportazioni furono successivamente dichiarate costituenti un crimine contro l'umanità dal Parlamento estone, nel 1995.

In Estonia, così come negli altri territori annessi ed occupati militarmente dall'Urss nel 1939 - 1940, la prima deportazione a larga scala di ordinari cittadini estoni fu condotta dai sovietici installati nel quartier-generale operativo locale del NKGB nella RSS Estone, sotto le direttive di Boris Kumm (presidente), Andres Murro, Aleksej Škurin, Veniamin Gulst e Rudolf James, in accordo con il principale decreto top-secret n. 1299-526ss Direttiva sulla Deportazione di elementi socialmente alieni dalle repubbliche baltiche, Ucraina Occidentale, Bielorussia Ovest, e Moldavia"[3]; emesso dal Comitato Centrale del Pcus e dai Commissari del Concilio dell'Unione Sovietica del 14 maggio 1941. .[4]

Dal 14 giugno 1941, e nei seguenti due giorni, 9.254 (il primo giorno) e 10.861 persone (il secondo), principalmente cittadini delle maggiori città estoni (Tallinn, Narva e Tartu), circa 5000 donne e 2500 bambini,[4][5][6][7] estoni ed anche circa 500 ebrei estoni[8].(più del 10% degli ebrei estoni) vennero prelevati e deportati presso Kirov nei gulag siberiani.

Trecento persone vennero fucilate, e solo circa 4.000 persone fecero ritorno in patria. 11.102 persone furono deportate seguendo gli ordini del 13 giugno, alcuni riuscirono a fuggire. Identica sorte spettò anche alle popolazioni lettoni e lituane, nel frattempo. Alcune settimane dopo i sovietici arrivarono anche sull'isola di Saaremaa per deportarne la popolazione, ma l'incalzare della seconda guerra mondiale fermò temporaneamente le deportazioni, mentre una parte considerevole di popolazione imprigionata in Estonia, venne liberata dai tedeschi, che furono per questo motivo, erroneamente e solo inizialmente, considerati dei liberatori, dagli estoni.

Durante il primo anno di occupazione sovietica quasi 54.000 cittadini estoni vennero fucilati, deportati o forzatamente arruolati nell'Armata Rossa. A seguito dell'Operazione Barbarossa, nome dell'attacco nazista all'Unione sovietica dal 22 giugno del 1941 ai primi di luglio circa 33.000 uomini estoni furono forzatamente arruolati nell'armata sovietica.

Dal 10 luglio 1941 i coscritti dei territori baltici occupati furono dichiarati non affidabili e furono deportati nei campi di sterminio e lavori forzati in Siberia, dove molti di essi trovarono la morte per fame ed intenso lavoro. .[9] 5.600 vennero arruolati effettivamente, ma presto disertarono. Nel luglio del 1941 l'Estonia venne conquistata dai nazisti, che furono poi espulsi dall'avanzata sovietica nel 1944. Immediatamente prima che il governo sovietico nel 1944 rioccupasse l'Estonia, circa altri 70.000 persone scapparono all'estero, in Germania e Svezia .[7] per timore di brutali repressioni sovietiche.

Non appena i sovietici tornarono, ripresero le deportazioni. Le prime deportazioni furono facilmente documentabili, anche per la testimonianza di molti estoni riparati all'estero, durante la Seconda guerra mondiale. Le seconde deportazioni, dopo il 1944, seppure certe nel loro avvenimento, sono più difficilmente documentabili. .[10] Diciotto famiglie vennero trasferite a Tjumen' (circa 51 persone), altre cinquanta persone in ottobre, 37 famiglie (81 persone) furono deportate in novembre ed altre 37 famiglie (91 persone) in dicembre. Furono considerati dai sovietici come Membri di famiglie "traditrici" della Madrepatria.[11]

Anche nel 1944 furono deportati e condannati ai lavori forzati nei gulag siberiani almeno altre 30.000 persone. Nell'agosto del 1945 furono deportate altre persone (405), principalmente con discendenze tedesche, con destinazione oblast' di Perm' (Siberia). Tra deportati ed esuli all'estero, gli Estoni ridussero di numero, e le deportazioni andarono via via diminuendo.

 

Tuttavia durante il periodo di collettivizzazione sovietica dell'economia nei paesi baltici, il 29 gennaio 1949 il Concilio dei ministri sovietici installatisi illegalmente con l'occupazione, emise un decreto top-secret n.390-138ss[12] che obbligava il Ministero per la sicurezza di Stato (MGB) ad esiliare i cosiddetti nemici del popolo dalle tre RSS Baltiche, per sempre.

Nella prima mattina del 25 marzo 1949, la seconda maggiore ondata di deportazioni dall'Estonia e conseguentemente anche dalle altre repubbliche baltiche, chiamata con il nome di Operazione Priboi (Demolitori) ebbe inizio e fu condotta dal MGB, che pianificò di agire deportando ulteriori 30.000 estoni, 

inclusi i contadini la cui azienda agricola venne espropriata e collettivizzata dallo Stato sovietico.[13] Il Tenente Generale sovietico Pëtr Burmack comandante delle truppe interne del MGB, fu incaricato di portare a termine tale operazione. In Estonia le deportazioni erano coordinate da Boris Kumm, il ministro della Sicurezza durante l'occupazione militare, nella RSS Estone e dal Generale Maggiore Ivan Yermolin, rappresentante della MGB in Estonia.

Oltre 8.000 estoni riuscirono a scappare, ma 20.722 persone (7500 famiglie, oltre il 2,5% della intera popolazione di etnia ugro-finnica, metà delle quali donne, circa 6000 bambini e 4.300 uomini) vennero forzatamente prelevati e condotti in Siberia durante i successivi tre giorni. Poco oltre il 10% di essi erano uomini in età da lavoro. I deportati nei campi di 

sterminio sovietici includevano disabili, donne incinte, infanti e bambini separati dai loro genitori.

Il più giovane deportato fu Virve Eliste, che aveva solo un giorno di vita, proveniente dall'isola di Hiiumaa, morì di stenti fame e freddo l'anno successivo in Siberia. Il più vecchio deportato fu un'anziana donna di 95 anni, Maria Raagel.[14] Nove vagoni per bestiame, colmi di deportati, furono diretti nell'oblast' di Novosibirsk, sei verso il territorio di Krasnojarsk, due nell'oblast' di Omsk, due si diressero nell'oblast' di Irkutsk.[11]. Molti di essi morirono nei campi di sterminio, altri non fecero mai più ritorno nelle loro case in Estonia.

Questa seconda ondata di deportazione su larga scala fu dettata dall'esigenza sovietica di facilitare la collettivizzazione, che fu 

impiantata con pressante egemonia, enormi difficoltà e metodi repressivi, nelle repubbliche baltiche. Come risultato, alla fine di aprile del 1949, metà dei restanti contadini venne affiancato, nella gestione delle aziende agricole, dai collettivisti sovietici.[10]

Durante il periodo 1948 / 1950, un certo numero di Finlandesi d'Ingria vennero nuovamente deportati anche dall'RSS Estone. L'ultima campagna di deportazione, di cui si hanno prove certe ed effettuata su larga scala dai sovietici in Estonia, ebbe luogo nel 1951, quando i membri di tutti i gruppi religiosi, proibiti dai sovietici, nei Paesi baltici, in Moldavia, nell'Ovest dell'Ucraina e in Bielorussia furono assoggettati a deportazioni forzate.[11]

 

Al di fuori delle principali ondate, individui e famiglie furono continuamente deportati in piccola scala, a partire dalla prima occupazione sovietica del 1940 per arrivare fino al 1956. Solo il disgelo di Chruščëv, e la destalinizzazione, portarono l'Urss ad allentare le tattiche di terrore, da repressioni di massa a repressioni individuali. Le deportazioni sovietiche con certezza, in Estonia, si arrestarono solamente per tre anni, dal 1941 al 1944 quando la nazione era sotto l'occupazione nazista.

Gli sviluppi connessiModifica

L'esperienza estone del primo brutale anno di occupazione sovietica, con le forzate deportazioni di massa a marzo, portò a due sviluppi significativi:

  • 1.) Motivò la paura e la maggior parte dell'ondata di rifugiati che abbandonò l'Estonia, principalmente via mare attraverso il Mar Baltico nell'autunno del 1944, dopo che le notizie sul ritiro dei nazisti e la mancata affermazione dell'indipendenza estone, vennero rese pubbliche. Circa 70.000 estoni arrivarono certamente salvi alle loro destinazioni; per contro, un indefinito numero di persone perirono a causa dell'avverso tempo atmosferico autunnale, e della violenta guerra navale.[15]
  • 2.) Incentivò molti estoni loro malgrado e nonostante precedentemente essi fossero stati assai scettici sull'unirsi all'armata tedesca (tra il gennaio del 1943 e il febbraio 1944, circa 4000 persone, principalmente maschi, più della metà sotto i 24 anni, idonei ed arruolabili, erano fuggiti in Finlandia[16]), ad arruolarsi ora nella legione estera delle Waffen-SS, per effettuare un disperato tentativo di mantenere l'Armata Rossa al di fuori del territorio estone e quindi 
  • evitare infine una nuova e massiccia occupazione sovietica. Come noto il tentativo fallì. A dimostrazione di come fosse una legione estera etnica, si confronti la 20.Waffen Divisione Granatieri SS (o Prima estone). Anche gli americani successivamente stabiliranno che in questa divisione non vi fu nulla di ostile e criminale, ma fu solo una disperata, ultima ed inutile resistenza estone all'occupazione sovietica nel 1944.
  • Solo nel 1956, con il disgelo di Chruščëv, ai deportati estoni sopravvissuti fu concesso di rientrare in Estonia, (ma molti avevano perso tutto, e trovarono la loro casa occupata da russi). Ciò alterò profondamente la composizione etnica della popolazione della nazione estone. Gli estoni dal 90% circa, scesero fino a punte minime del 61%, mentre i russi immigrati in Estonia arrivarono ad essere oltre 35% del totale della popolazione, dal dopoguerra fino ai tardi anni ottanta. 

Il 27 luglio del 1950, il Governo in esilio dell'Estonia, unito con i diplomatici dell'Estonia, Lettonia e Lituania fecero un accorato appello agli Stati Uniti, affinché supportassero le investigazioni delle Nazioni Unite, sui genocidi di massa e sulle deportazioni portate a termine nelle nazioni baltiche da parte dell'Urss.

Conoscenza sovietica delle deportazioni di StalinModifica

Le deportazioni di Stalin furono ammesse e aspramente criticate, in una sezione del 

Rapporto del 20 Congresso del Partito Comunista dell'Unione Sovietica, da parte di Nikita Chruščëv nel 1956, come atti mostruosi e profonde violazione dei principi di base leninisti delle politiche della nazionalità degli stati sovietici. Il 14 novembre 1989 il Soviet supremo dell'Urss accettò la dichiarazione: Sul riconoscimento come fuorilegge e criminali, gli atti repressivi perpetrati ai danni delle popolazioni che furono assoggettate a deportazioni forzate, e sulla garanzia dei loro diritti, nella quale si condannano le deportazioni delle popolazioni baltiche, da parte di Stalin, come crimini terribili, garantendo che tali violazioni dei diritti umani non saranno mai più ripetute e promettendo di restituire ogni diritto negato alle popolazioni schiacciate dal potere sovietico.

I Giudizi estoni e le convinzioni

Nel 1995, qualche anno dopo che fu ristabilita l'indipendenza della nazione estone, il Riigikogu, il Parlamento dell'Estonia, dichiarò che le deportazioni sovietiche fossero dei crimini contro l'umanità ed alcuni autori delle deportazioni sovietiche del 1949 dall'Estonia, principalmente gli ufficiali del MGB di allora, vennero processati e condannati, secondo l'Art. 61-1 § 1 del Codice Criminale, da quel momento. Le affermazioni estoni di genocidio non sono ancora universalmente accettate. Johannes Klaassepp (classe 1921), Vladimir Loginov (classe 1924) e Vasilij Besov (classe 1918) furono condannati a otto anni di detenzione nel 1999. Il 30 luglio 1999, Michail Neverovskij (nato nel 1920) fu condannato a quattro anni di detenzione. Il 10 ottobre 2003, August Kolk (nato nel 1924) e Pëtr Kisly (nato nel 1921), furono entrambi condannati a otto anni di prigione, con tre anni di libertà condizionata. Il caso fu successivamente portato davanti alla Corte europea dei diritti dell'uomo, gli avvocati difensori affermarono che tale sentenza fosse contraria alla 

proibizione di applicazione retroattiva delle leggi criminali. Tuttavia il 17 gennaio 2006, tale eccezione fu dichiarata priva di fondamento e quindi venne confermata la loro condanna.

Il 30 ottobre 2002, Jurij Karpov ebbe una condanna, poi sospesa, ad otto anni di reclusione.

Il 7 novembre 2006, Vladimir Kask fu anch'egli condannato ad otto anni, con tre anni di libertà condizionata. Arnold Meri fu processato per le sue colpe nelle deportazioni, ma morì nell'aprile 2009, prima della fine del processo.

(Sono sportivo @Brios e riporto anche questo)

Il punto di vista russo

 

La Federazione russa, l'unico legale stato successore dell'Unione Sovietica, non ha mai riconosciuto le deportazioni degli estoni come un crimine e non ha pagato nessuna riparazione agli stati coinvolti. Mosca ha anzi criticato i processi avviati nei Paesi Baltici, definendoli vendette, non giustizia e si è lamentata circa l'avanzata età dei criminali.

Nel marzo 2009, l'associazione russa Memorial, di stampo antisovietico, concluse che le deportazioni avvenute nel dopoguerra nei baltici fossero, senza alcun dubbio, un crimine contro l'umanità; ma non si è soffermata sul dichiararle: genocidio o crimini di guerra. Nell'opinione del Memorial, l'interpretazione di genocidio, delle deportazioni attuate nel 1949, non può basarsi sul diritto internazionale, (dato che i paesi baltici nel 1949 si trovavano forzatamente annessi all'Urss), ed è quindi infondata.

Con certezza ha definito le deportazioni sovietiche in Siberia come vendette perpetrate dall'Urss sulle popolazioni baltiche, per il loro presunto collaborazionismo con i nazisti. Atto questo che fu, come poi stabilito, in larga parte, solo una mera resistenza baltica, contro l'occupazione sovietica. Successivamente venne anche provato che esso sia stato privo di volontà criminale ed anti-americana, come poi definitivamente chiarito pure dagli Usa.

La Commissione internazionale estone per i crimini contro l'umanità, che fu voluta e stabilita dal Presidente dell'Estonia Lennart Meri, egli stesso un sopravvissuto alle deportazioni sovietiche del 1941, nel 1998, per investigare sui crimini contro l'umanità commessi in Estonia o contro i cittadini estoni, durante l'intero corso delle occupazioni militari straniere, sovietiche (47 anni) e naziste (3 anni). La commissione tenne la sua prima sessione a Tallinn, nel gennaio del 1999. Mark Jakobson, il rientrato diplomatico finlandese, fu nominato a capo della commissione. Per propositi neutrali, non ci sono cittadini estoni nella composizione dei suoi membri."

https://it.m.wikipedia.org/wiki/Deportazioni_sovietiche_dall'Estonia

 

 

 

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Passiamo adesso ai Chami (popolazione di etnia albanese):

"Lo scorso 15 ottobre, in un incontro bilaterale, il ministro degli esteri greco Evangelos Venizelos ed il suo omologo albanese Ditmir Bushati hanno nuovamente sottolineato l’importanza del trattato di Amicizia greco-albanese, stipulato nel 1996 che, nelle comuni intenzioni, dovrà essere rafforzato anche in vista di un prossimo ingresso dell’Albania in Europa. Belle parole, bei discorsi, iniziative lodevoli se non fosse che, in realtà, i rapporti diplomatici tra i due Paesi, oltre alle parole di circostanza e ai discorsi di facciata, non sono mai stati idilliaci. A margine dell’incontro istituzionale, il ministro albanese Bushati ha testualmente affermato che “il trattato di amicizia Grecia-Albania rappresenta una solida base per intensificare i rapporti tra i due Paesi” aggiungendo inoltre che “la Grecia dovrebbe abrogare la legge della guerra ancora vigente”. Questo, infatti, è un aspetto, insieme a quello della Ciamuria (in albanese) o Thesprotia (in greco) tuttora irrisolto che fa sì che, tra i due Paesi, vi sia tuttora un certo astio strisciante.

 

L’incontro fra i due Paesi balcanici confinanti e la ricorrenza, quest’anno, del centenario del Trattato di Londra del 1913 - che ha determinato gli attuali confini dell’Albania - con numerosi convegni e seminari sul tema, ha riportato in auge un’antica questione molto sentita dalla popolazione albanese ovvero l’abrogazione di una legge greca ormai obsoleta come la sopracitata legge della guerra strettamente connessa alla questione dei chami che, ogniqualvolta viene riproposta, suscita vaghe nostalgie associate ad una buona dose di irredentismo e retoriche nazionalistiche.

Tra i tanti popoli che, nel Mediterraneo, hanno subito ondate di persecuzioni e pulizie etniche, si sorvola spesso su quello chami, oppure il dramma vissuto da questo popolo viene vagamente accennato sui libri di storia e, non di certo, sui libri di storia greci. La Ciamuria, conosciuta in greco come Thesprotia ovvero l’Epiro centrale, è un’area situata nella zona costiera al confine tra Grecia e Albania ed è abitata da gente di etnia e lingua albanese e di religione prevalentemente musulmana. Questa popolazione fu, per decenni, oggetto di maltrattamenti e persecuzioni, fino a quando si consumò una vera e propria pulizia etnica nei confronti dei chami, molti dei quali furono forzatamente costretti ad emigrare in Albania per non subire ulteriori torture. Il pretesto per cancellare questa popolazione indesiderata fu l’accusa di collaborazionismo con il fascismo. L’episodio storico risale al 1943 quando i nazi-fascisti fucilarono quarantanove patrioti greci e, secondo la versione greca, questa carneficina si consumò grazie al concorso di cittadini greci di origine cham (quindi di etnia albanese e religione musulmana).

In realtà, i chami furono sempre invisi ai veri greci essendo musulmani e quindi nell’immaginario collettivo greco, assimilabili ai turchi cioè ai nemici storici. L’obiettivo della Grecia, infatti, era quello di cancellare tutti gli elementi non greci e l’identità non ortodossa. A subirne le conseguenze furono le minoranze macedoni e albanesi (sebbene in realtà diversi studi confermino che i greci di etnia macedone e albanese siano autoctoni). Da questo momento i chami furono allontanati in modo coatto dal territorio greco, buona parte di essi perirono durante l’esodo forzato ed altri furono massacrati (anche donne e bambini) per mano degli attacchi inferti dalle truppe elleniche guidate dal generale Napoleon Zervas che è tuttora considerato, in Grecia, un eroe nazionale per aver protetto il suolo greco (la zona di Giannina) dagli occupanti italiani (coadiuvati dai chami) durante la seconda guerra mondiale.

L’esodo forzoso dei chami contribuì non poco a fare di quella albanese, una tra le popolazioni più diasporizzate d’Europa. Come se tutto ciò non bastasse, ai chami furono confiscate terre, case, bestiame, arredi sulla base di una famigerata legge della guerra varata nel lontano 1940. Nel 1987 il governo greco propose l’abrogazione di suddetta legge anche se poi non fu mai ratificata dal Parlamento con il risultato che oggi, a distanza di 73 anni, col pretesto che la legge greca non viene applicata e che la sua abrogazione è implicita (senza bisogno di essere ratificata) persiste una legge ingiusta che impedisce de facto agli eredi e discendenti dei chami, di tornare in possesso dei propri beni, detenuti, illegittimamente, dalla Grecia. Ai Chami (buona parte dei Chami di religione ortodossa), rimasti in Grecia, viene tuttora impedito di parlare apertamente la lingua albanese e lo Stato greco opera un processo di assimilazione e di ellenizzazione dei chami nel tentativo di soffocare ogni sentimento di appartenenza alla minoranza etnico-linguistica albanese. Lo Stato greco nega tuttora i visti d’ingresso ai ciamurioti che volessero visitare la terra che hanno dovuto lasciare (la Grecia appunto).

Una soluzione a questo annoso problema sarebbe l’ingresso dell’Albania nell’Unione Europea (l’Albania ha ottenuto il riconoscimento di Paese candidato anche se il processo d’integrazione alla UE sarà ancora lungo e irto di ostacoli) cosicché anche gli albanesi possano avere uguali diritti ed i ciamurioti possano entrare liberamente in Grecia ed ottenere anche la cittadinanza greca. Ogni 27 giugno, dal 1994, il governo albanese celebra un giorno di commemorazione per ricordare il genocidio dei chami, ma, benché lodevole, si tratta di un evento isolato dal valore esclusivamente simbolico tant’è che, nella percezione comune, sono pochi ad avere la consapevolezza di quanto abbia dovuto subire e quanto ancora stia soffrendo l’identità del popolo Chami nel cuore della vecchia Europa.

Emanuela Frate

09/11/2013"

http://ita.babelmed.net/article/5373-i-chami-il-genocidio-dimenticato/

 

 

chami_545.jpg

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Trattiamo ora uno strano e molto poco conosciuto caso: la pulizia etnica avvenuta in Canada ad opera dei Britannici

 

"La prima “pulizia etnica” della storia moderna ebbe luogo in Acadia, Canada, nel 1755

 

di

 

Francesco Lamendola

La prima nazione europea a ricorrere, nella storia moderna, ai metodi della “pulizia etnica”, per far sparire da una regione la sua popolazione originaria e sostituirla con una della propria stirpe, è stata la Gran Bretagna: il luogo è l’Acadia, provincia canadese ora nota con il nome di Nova Scotia (Nuova Scozia), l’anno è il 1755 e le vittime furono i coloni francesi che l’abitavano pacificamente da più generazioni. Quella triste vicenda è passata alla storia con i nomi inglesi di Expulsion of the Acadians, o di Great Upheaval, o, semplicemente, The great Expulsion; e con il nome francese di Le Gran Dérangement. Alcuni furono deportati nelle Tredici colonie britanniche, altri dovettero fare ritorno in Francia: le operazioni ebbero 

luogo in un arco di tempo che va dal 1755 al 1764 e non si trattò di piccoli numeri, poiché, al termine di esse, risultò che erano state costrette ad abbandonare per sempre la loro terra non meno di 11.500 persone, decisamente molte, considerando la bassa densità della popolazione europea del Canada.

La Gran Bretagna è anche la prima nazione moderna ad aver fatto ricorso alla guerra batteriologica: il luogo è ancora il Nord America, questa volta alla frontiera delle Tredici colonie (futuri Stati Uniti), l’anno è il 1763 e l’ideatore del piano è un lord, nonché 

feldmaresciallo, Jeffrey Amherst, convinto della necessità di “estirpare” i pellerossa del Delaware, da lui definiti come “la più malvagia e scellerata razza mai esistita”, i quali avevano avuto la pessima idea di allearsi con i Francesi durante la guerra dei Sette anni, ed ai quali fece distribuire, per vendicarsi, una gran quantità di  coperte infettate con il vaiolo.

Alla Gran Bretagna spetta pure il primato nell’attuazione del primo dei genocidi moderni: perché fu un vero e proprio genocidio quello che si consumò, nei primi tre decenni del XIX secolo, a danno degli indigeni della Tasmania, cacciati dai coloni britannici come fossero una vera e propria selvaggina a due gambe, oltre che decimati dalle malattie introdotte dagli uomini bianchi, e verso le quali non possedevano difese immunitarie. E a chi nutrisse dei dubbi sulla deliberata volontà di sterminio da parte delle autorità britanniche, pur dovendo ammettere che il risultato fu, innegabilmente, quello, giova ricordare che, a un certo punto, i coloni inglesi formarono un vero e proprio cordone di uomini armati di fucile, i quali, avanzando da un capo all’altro dell’isola, e tenendosi in vista l’uno dell’altro, eliminarono fisicamente o catturarono tutti gli indigeni che cercavano di nascondersi nel fitto della foresta, finché i singolari cacciatori giunsero all’estremità meridionale, in riva all’oceano, avendo passato al setaccio ogni forra ed ogni anfratto. Gli ultimi Tasmaniani, rientrati nella loro terra dopo una deportazione nell’isola Flinders (ma a scopo umanitario, beninteso!), vennero esibiti in qualità di attrazione turistica e morirono uno ad uno, finché il corpo dell’ultimo membro di quell’infelice popolo, una donna, morta nel 1876, venne disseppellito ed esposto dagli 

etnologi in una bacheca del museo di Hobart, il capoluogo, per la gioia degli scienziati e dei visitatori paganti. Non era stato rispettato neppure il suo ultimo desiderio: poter riposare nel suolo natio, perché, secondo la credenza dei Tasmaniani, solo a quella condizione l’anima del defunto può trovare la pace.

Anche i primi campi di concentramento per le popolazioni civili furono ideati e realizzati sotto gli auspici della civile Gran Bretagna, durante il civilissimo regno della regina Vittoria: durante la guerra contro i Boeri del Transvaal e dell’Orange, all’inizio del XX secolo; campi di concentramento nei quali morirono fra le 18.000 e le 28.000 persone, fra cui moltissime donne e bambini, a causa delle infezioni e degli stenti. La loro colpa: essere arrivate nel Sud Africa prima degli Inglesi ed aver colonizzato le terre in cui furono poi 

scoperti dei ricchissimi giacimenti d’oro e di diamanti. Il gentleman che diresse le operazioni contro donne e bambini, sottraendo loro il cibo per punirli di non aver accolto a braccia aperte l’esercito britannico, fu un altro lord e generale famoso, Horatio Herbert Kitchener, quello stesso che, dopo aver sconfitto i Dervisci del Sudan nella battaglia di Omdurman, fece disseppellire il corpo del Mahdi per decapitare il cadavere e spedirne la testa alla sua regina.

Del pari, i libri di storia della Prima guerra mondiale “dimenticano”, in genere, di evidenziare che la Gran Bretagna, grazie alla sua superiorità navale (che la Germania aveva cercato di contrastare, costruendo una potente flotta da guerra, ragion per cui il governo britannico aveva deciso di 

fermarla ad ogni costo), fu la prima nazione moderna ad imporre il blocco marittimo e ad affamare non una singola città o popolazione, ma l’intera Europa centrale, ossia la Germania, l’Austria-Ungheria ed i loro alleati, al preciso scopo di ridurle allo stremo e di costringere i loro governi alla resa (cfr. il nostro precedente articolo: «Violando i diritti dei popoli, la Gran Bretagna affamò gli Imperi Centrali», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 05/03/2008, e ripubblicato su «Il Corriere delle Regioni» il 30/05/2015). Ed è difficile non vedere la relazione tra questa gigantesca opera di strangolamento di un intero continente, e la diffusione della micidiale epidemia di influenza spagnola che infuriò proprio alla fine della guerra, provocando circa 20 milioni di morti.

Ma torniamo all’Acadia e alla tragedia dei suoi coloni francesi (Acadiens), nel 1755. Un poeta statunitense, Henry Wadsworth Longfellow (nato a Portland, Maine, nel 1807 e morto a Cambridge nel 1882), tra i primi della sua nazione ad assurgere alla fama letteraria mondiale, dedicò a quell’oscuro episodio la sua opera forse più importante, il poemetto epico-lirico «Evangeline or a Tale of Acadie» («Evangeline, o un racconto dell’Acadia)», pubblicato nel 1847, dal quale sono state poi tratte non meno di cinque versioni cinematografiche, la prima nel 1908 e l’ultima nel 1929, questa con la celebre attrice Dolores Del Rio nella parte della infelice protagonista. La storia cantata da Longfellow è abbastanza semplice. Essa narra la crudele irruzione della Storia nella vita semplice dei coloni francesi del Canada: precisamente quando, con la pace di Utrecht del 1713, che poneva fine alla guerra di Secessione spagnola, l’Acadia 

venne ceduta dalla Francia alla Gran Bretagna e questa, dopo averla ribattezzata col nome di Nova Scotia (ma parti dell’Acadia andarono anche a formare le province di New Brunswick, Prince Edward e perfino della colonia del Maine, che non sarà parte del Canada, ma  dei futuri Stati Uniti d’America), decise la deportazione di tutti i suoi abitanti, considerati sudditi poco fedeli alla patria (patria degli Acadiani: l’Inghilterra) a causa della loro cultura francofona e della loro religione cattolica romana.

Evangeline è la figlia del più ricco colono del villaggio acadiano di Gran Pré, un fattore di nome Benedict Bellefontaine, ed è fidanzata con Gabriel Lajeunesse, il figlio del fabbro, un giovane che ella ama appassionatamente, riamata. I due stanno per sposarsi, ma, proprio alla vigilia delle loro nozze, sbarcano nel porto le truppe britanniche e viene diramato alla popolazione l’ordine di partire immediatamente. La notizia getta la piccola comunità nello smarrimento, e qualcuno vorrebbe opporsi; ma il sacerdote cattolico esorta tutti alla rassegnazione e a confidare nella Provvidenza divina. I due giovani, così, vengono crudelmente divisi: come accade anche ai membri delle altre famiglie, Evageline è costretta a salire su una nave, Gabriel su un’altra: non si ritroveranno più, nonostante le lunghe ricerche effettuate dalla coraggiosa ragazza, se non troppo tardi. Infatti, molti anni dopo, mentre Evangeline, ormai vecchia, presta la sua opera in un lazzaretto ove sono curate le vittime di una epidemia di peste (notevoli, come si vede, le analogie con i «Promessi sposi» del Manzoni; e Longfellow, del resto, era un grande ammiratore della nostra 

letteratura, e gran traduttore di Dante), ella riconosce fra i malati proprio il suo Gabriel, che la riconosce a sua volta, e che fa appena in tempo a lanciarle un lunghissimo, straziante sguardo, prima di chiudere gli occhi per sempre.

Riportiamo qui, per dare un’idea dell’arte di Longfellow, alcuni versi del suo poemetto, nei quali egli descrive la terra natale della bella Evangeline: la foresta primordiale del Nord America, all’epoca ancora selvaggia e popolata da orsi, alci, caribù e abitata da sparuti gruppi di nativi pellerossa (da «Evangeline’s Native Land» di H. W. Longfellow; in: Maria Vittoria Livraghi, «Where English is Spoken. Nozioni di storia, geografia, letteratura, cenni sulla vita economica dei Paesi dove si parla inglese», Roma, Angelo Signorelli Editore, 1951, p. 183):

 

«This is the forest primeval. The murmuring

 

pines and the hemlocks,

Bearded with moss, and in garments green, indistinct in the twilight,

Stand like Druids of eld, with voices sad and prophetic,

Stand like harpers hoar; with beards that rest on their bosoms.

Loud from its rocky caverns, the deep voiced neighbouring ocean

Speaks, and in accents disconsolate answers the wail of the forest.

This is the forest primeval; but where are the hearts that beneath it

Leaped like the roe, when he hears in the woodland the voice of the huntsman?

Where is the thatch-roofed village, the home

 

of Acadian farmers –

Men whose lives glided on like rivers that water the woodlands,

Darkened by shadows of earth, but reflecting an image of heaven?

Waste are those pleasant farms, and the farmers forever departed!

Scattered like dust and leaves, when the mighty blasts of October

Seize them, and whirl them aloft, and sprinkle them far o’er the ocean.

Naught but tradition remains of the beautiful village of Grand-Pre.»

 

......

Fin qui, la soave poesia di Longfellow e la commozione dell’anima romantica, di cui si nutriva la giovanissima poesia nordamericana; la realtà della storia è molto più prosastica e brutale e ci ricorda che la pratica inumana di ridurre una regione alla “pulizia etnica”, deportando una intera popolazione la cui presenza risulta sgradita, è stata efficacemente trasmessa dalla Gran Bretagna e appresa dagli Stati Uniti, come una lezione passata dal maestro al discepolo. Il governo statunitense, infatti, se ne sarebbe ricordato – crediamo – allorché decise di praticare una politica di deportazione e trasferimento di intere popolazioni indiane al di là del Mississippi (esplicitamente denominata Indian Removal Act, una legge firmata dal presidente Andrew Jackson), per acquisire le loro terre ai coloni bianchi e, naturalmente, per aprirle ai vantaggi impagabili della “civiltà”. In particolare, si ricorda la deportazione delle cosiddette Cinque Tribù Civilizzate, negli anni intorno al 1830: Chickasaw, Choctaw, Creek, Cherokee e Seminole; di esse, l’ultima, quella dei Seminole, si oppose alla deportazione, e fu punita con una vera e propria guerra da parte dell’esercito statunitense, che, peraltro, non riuscì interamente nell’intento di piegare e catturare il grosso di quel fiero e coraggioso popolo (cfr. il nostro precedente articolo: «Osceola e la lotta dei Seminole per la libertà», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 28/08/2007).

Si calcola che gli Acadiani, prima della loro cacciata, fossero circa 23.000 mila; considerato che alcune migliaia si trasferirono nella Louisiana spagnola, che era stata francese fino alla pace di Parigi del 1763 (poi conosciuti come Cajuns), mentre quasi 12.000 erano stati deportati in vari luoghi d’Europa e d’America, e le loro case distrutte col fuoco, si può concludere che solo poche migliaia di persone riuscirono a sfuggire alla deportazione, non più di 5 o 6 mila: dunque, al massimo un quarto della popolazione iniziale. Se ne può dedurre che quella dell’Acadia fu una delle più riuscite operazioni di pulizia etnica della storia. Anche un tentativo di resistenza armata, sotto la guida di Joseph Broussad, detto Beausoleil (1702-1765), venne represso entro il 1761. Prima di procedere alla deportazione, decisa e diretta dal governatore inglese Charles Lawrence (1709-1760) – un altro gentleman che pagava generosamente gli scalpi dei pellerossa uccisi -, agli Acadiani era stato richiesto un giuramento di fedeltà alla Corona britannica. Essi avevano risposto dicendosi disposti a giurare la loro neutralità, ma non altro: e quel rifiuto aveva deciso il loro tragico destino..."

 

http://www.accademianuovaitalia.it/index.php/storia-e-identita/storia-dei-genocidi/3259-la-prima-pulizia-etnica

 

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Argomento molto delicato con possibilità di esiti esplosivi. Io stesso vengo da una famiglia di profughi. Ma ritornare indietro non si può. E non sono sicuro che la conoscenza del passato possa fare in modo che non venga ripetuto...

Arka

Diligite iustitiam

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@Arka il mio obiettivo è solo la conoscenza. Non mi sono prefissato alcuno scopo ulteriore.

Certo la conoscenza della storia può creare situazioni conflittuali ma se si è obiettivi realmente questa evenienza dovrebbe essere molto bassa.

Poi va bene ci sono sempre gli stupidi attaccabrighe, ma quelli puoi trovarli dappertutto.

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Che meravigliosi approfondimenti storici. Chiedo scusa, ma essendo nuovo sul forum non ti conosco Ares. Tutte queste cose le sai perché le hai studiate professionalmente o le hai approfondite negli anni solo per passione? 

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Parliamo adesso dei Lotshampa:

"I Lotshampa sono cittadini bhutanesi di origine nepalese e di religione induista in gran parte espulsi dal Bhutan dopo la pulizia  etnica degli anni novanta.

La questione dei Lotshampa nacque alla fine del XIX secolo quando migliaia di contadini del Nepal sudorientale emigrarono nelle pianure meridionali del Bhutan per trovare nuove terre da coltivare. Inizialmente il governo di Thimphu, poco interessato a quell'area, lasciò libera la formazione di questi insediamenti, che proseguì per tutta la prima metà del XX secolo.

A partire dagli anni settanta tuttavia la crescita demografica dei Lotshampa iniziò a preoccupare la maggioranza della popolazione bhutanese, di etnia tibetana e di religione buddhista. Negli anni ottanta furono quindi varate diverse leggi (tra cui il Driglam namzha) che imponevano alla minoranza di lingua nepalese di adeguarsi alla cultura e agli usi della maggioranza. Seguì un periodo di disordini durante e dopo il quale decine di migliaia di Lotshampa lasciarono il Bhutan per rifugiarsi all'interno di alcuni campi profughi gestiti dall'ONU in Nepal, vicino alla cittadina di Damak.

Oggi si stima che nei campi ci siano oltre centomila rifugiati (assistiti dall'UNHCR) che rivendicano il diritto di rientrare nella loro patria d'origine e spesso tentano, a gruppi, di ritornare in Bhutan, dove vengono respinti dalla polizia di frontiera.

Da anni sono in corso trattative trilaterali (Bhutan, Nepal e Onu) per trovare una soluzione al problema.

Nel 2007 il governo degli Usa ha dato la sua disponibilità a ospitare almeno 60 000 di questi profughi attraverso un piano di immigrazione graduale. Gli Stati Uniti hanno avanzato questa ipotesi anche per evitare che i giovani nati o cresciuti nei campi profughi si uniscano alla crescente guerriglia di ispirazione maoista guidata dal Partito Comunista (Marxista-Leninista-Maoista) Bhutanese. Circa 50 000 Lotshampa hanno aderito al programma di immigrazione negli Usa operativo a partire dal gennaio 2008."

https://it.m.wikipedia.org/wiki/Lotshampa

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@Fxx qualcosa l'ho appreso da mio nonno materno (amante della storia e della politica, nonchè di numismatica), qualcosa l'ho studiato, qualcosa è per approfondimento personale.

 

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15 minuti fa, ARES III dice:

@Fxx qualcosa l'ho appreso da mio nonno materno (amante della storia e della politica, nonchè di numismatica), qualcosa l'ho studiato, qualcosa è per approfondimento personale.

 

Hai davvero una conoscenza enorme complimenti.

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Continuiamo a trattare degli Ucraini:

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Storia. In Ucraina l'Unione Sovietica ordinò il genocidio: ecco le prove

Poco più di trent’anni fa, il grande storico inglese Robert Conquest inaugurò gli studi sul cosiddetto "Holodomor", il più imponente sterminio della storia europea del XX secolo dopo l’Olocausto. Nel suo monumentale lavoro pionieristico Harvest of Sorrow, uscito nel 1986 - prima del crollo dell’Unione Sovietica -, riuscì a documentare il disegno criminale di Stalin che causò la morte per fame di milioni di ucraini, nei primi anni ’30. Da allora il dibattito ha visto gli storici dividersi non tanto sulle cause della carestia, quanto per stabilire se sia corretto o meno definirla «un atto di genocidio», con le implicazioni politiche che ne deriverebbero.
Il primo a ritenerlo tale, molti anni prima dello stesso Conquest, era stato Raphael Lemkin, il giurista polacco che coniò il termine genocidio e si batté per inserirlo nel diritto internazionale. Un riconoscimento ufficiale del dramma ucraino è stato però finora sempre ostacolato dall’opposizione prima dell’Unione Sovietica, poi della Russia. Un contributo importante in questo dibattito arriva adesso dal saggio Red Famine: Stalin’s War on Ukraine della studiosa Anne Applebaum, già vincitrice del premio Pulitzer nel 2004 per un libro sui gulag dell’era sovietica. Editorialista del Washington Post e grande esperta di storia russa, 

Applebaum si è avvalsa di una gigantesca mole di fonti documentarie inedite provenienti da archivi locali e nazionali russi e ucraini (alcuni dei quali aperti per la prima volta negli anni ’90), nonché testimonianze orali dei sopravvissuti pubblicate dall’Istituto ucraino della memoria nazionale.

Com’è stato sottolineato da altri storici, la brutale collettivizzazione delle terre voluta da Stalin scatenò e poi intensificò quella carestia, che non colpì soltanto l’Ucraina ma interessò anche altre parti dell’Unione Sovietica. Nelle lettere private degli archivi di stato russi, i leader sovietici parlano di «spezzare la schiena alla classe 

contadina», e la stessa politica venne attuata nei confronti della Siberia, del Caucaso del nord e della zona del Volga, causando anche l’annientamento di oltre la metà della popolazione nomade del Kazakhstan.

Non v’è dubbio, però, che i maggiori danni e il più alto numero di vittime sia stato registrato proprio in Ucraina, dove le radici storiche di quei fatti, come racconta Applebaum, affondano nei secoli precedenti. I territori che gli zar avevano confiscato agli ottomani e ai cosacchi nel XVII e XVIII secolo cominciarono a essere considerati parte essenziale dell’impero russo fin dall’ascesa della dinastia Romanov. Durante la guerra civile che seguì la rivoluzione bolscevica, la classe contadina ucraina, essenzialmente conservatrice e anti comunista, non volle mai sottomettersi al nuovo potere e resistette strenuamente alle armate di Lenin. Sul finire degli anni ’20 i contadini furono costretti ad abbandonare le loro terre per aderire alle fattorie collettive dello stato. Gran parte di essi si opposero duramente alla collettivizzazione, rifiutandosi di cedere il grano, nascondendo le derrate alimentari e uccidendo il bestiame. Il politburo sovietico lo considerò un atto di ribellione e, pur di fronte alla sempre più grave 

carenza di cibo nelle campagne, mandò gli agenti e gli attivisti locali del partito a requisire tutto quello che trovavano, compresi gli animali. Al tempo stesso fu creato un cordone attorno al territorio ucraino per impedire la fuga.

Il risultato fu un’immane catastrofe: almeno cinque milioni di persone morirono di fame in tutta l’Urss non a causa del fallimento delle coltivazioni, ma perché furono deliberatamente private dei mezzi di sostentamento. Di questi, circa quattro milioni erano ucraini. Stalin rifiutò qualsiasi forma di aiuto dall’esterno, accusò i contadini che stavano morendo di fame di essere loro stessi colpevoli di quanto stava 

accadendo e promulgò leggi draconiane che esacerbarono la crisi. Chiunque veniva trovato in possesso anche solo di una buccia di patata era passato per le armi.

Applebaum spiega che la carestia non fu causata dalla collettivizzazione, ma fu il risultato della confisca del cibo, dei blocchi stradali che impedirono alla popolazione di spostarsi, delle feroci liste di proscrizione imposte a fattorie e villaggi. Il capitolo sulle conseguenze della carestia è a dir poco agghiacciante: dopo aver citato un rapporto riservato nel quale il capo della polizia segreta di Kiev elenca 69 casi di cannibalismo in appena due mesi, racconta casi di persone che uccisero e mangiarono i propri figli, 

la totale estinzione di cani e gatti, la scomparsa della popolazione di interi villaggi, i carri per il trasporto dei defunti che raccoglieva anche i moribondi e poi li seppelliva ancora vivi. Il mondo contadino ucraino fu il bersaglio principale di quegli anni di terrore che vide anche brutali persecuzioni antireligiose, con la sconsacrazione e la distruzione delle chiese, la lotta allo scampanio che rappresentava un’antica tradizione popolare.

Lo sguardo della studiosa statunitense si sofferma su tutti gli aspetti della vicenda, analizzando anche il modo in cui l’identità nazionale dell’Ucraina post-sovietica sia stata costruita attorno a essa, e approfondisce il tema delle coperture nazionali e internazionali che hanno consentito di celarla agli occhi del mondo. Non solo l’Unione Sovietica non la riconobbe mai, ma soffocò qualsiasi forma di dissenso e manipolò le statistiche demografiche, secondo le quali nel 1937 circa otto milioni di persone risultavano svanite dal Paese. Quanto ai corrispondenti a Mosca dei giornali stranieri, con la sola eccezione dell’eroico giornalista gallese Gareth Jones, non si sognarono di raccontare quei fatti. William Henry Chamberlin del "Christian Science Monitor" scrisse che i cronisti «lavorano con una spada di Damocle sulla testa: la minaccia di 

espulsione, o il rifiuto di un permesso per rientrare, che è poi la stessa cosa».

Ma l’Holodomor fu davvero un atto di genocidio? Applebaum non ha dubbi e ritiene che quanto accadde tra il 1932 e il 1933 coincide perfettamente con la definizione di Lemkin, ma resta purtroppo escluso dalla formulazione redatta nel 1948 con la "Convenzione sul genocidio". Non a caso l’Unione Sovietica vi contribuì in modo decisivo proprio al fine di escludere l’olocausto ucraino. Finché il diritto internazionale non sarà aggiornato in tal senso, l’Holodomor continuerà dunque a rimanere formalmente escluso dalla lista dei genocidi."

https://www.avvenire.it/amp/agora/pagine/stalin-carrestia-in-ucraina-fu-genocidio-holodomor

holodomor.jpg

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Affrontiamo il genocidio dei Circassi:

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Cacciati dalle loro terre, massacrati in modo sistematico, con centinaia di migliaia di vittime, deportati in massa, e poi dimenticati. Tra i grandi massacri che hanno segnato gli ultimi due secoli di storia, la pulizia etnica subita dal popolo circasso è una di quelle che è finita per essere trascurata, o perlomeno non considerata alla pari di altre grandi tragedie come per esempio il Medz Yeghern, il genocidio armeno, e l’Holomodor, la strage degli ucraini. Definito per questo da molti come il “genocidio dimenticato”, l’anno scorso il massacro dei circassi (detto anche Muhajir) ha compiuto il suo 150° anniversario, proprio nell’anno in cui a Sochi, città situata nella Circassia storica, si svolgevano le Olimpiadi Invernali organizzate da Mosca. Ma chi sono dunque i circassi, e qual è la loro storia?

Chi sono i circassi

I circassi sono una tra le più antiche popolazioni native del Caucaso settentrionale, strettamente imparentati con abkhazi, abazi, ubykh e kabardini, e più alla lontana anche con ceceni, ingusci e daghestani. Sono provenienti dalla regione identificata come Circassia storica, che comprendeva indicativamente la zona attualmente situata tra il Territorio di Krasnodar e l’Ossezia del Nord. “Circassi” è un termine comune che indica varie tribù e popolazioni accomunate dalla stessa identità culturale, lingua e tradizioni, e non fa riferimento a una singola popolazione o etnia; il termine deriva dalla parola turca çerkes, nome con cui gli Ottomani chiamavano queste popolazioni. In lingua circassa (che si divide nelle varianti occidentale e orientale) essi si chiamano adighè, mentre dal punto di vista religioso sono per la maggior parte musulmani sunniti.

Attualmente, secondo l’ultimo censimento disponibile (2010), all’interno della Russia si contano 718.727 circassi; suddivisi in kabardini, adighè, cherkess e shapsigh. Molti di essi abitano ancora all’interno della Circassia storica, soprattutto nelle repubbliche di Adighezia, Kabardino-Balkaria e Karačaj-Circassia, e in misura minore nel Territorio di Krasnodar, mentre i rimanenti sono sparsi all’interno della Federazione. La più grande comunità circassa si trova però attualmente in Turchia, dove i circassi si sono recati soprattutto in seguito al 1864, e dove nell’ultimo secolo, grazie anche alle forti affinità culturali con la popolazione turca, si sono integrati perfettamente, venendo di fatto assimilati da questi ultimi. Altre importanti comunità circasse si trovano anche in Medio Oriente, soprattutto in Giordania e in Siria. Attualmente si pensa che oltre 1 milione e mezzo di circassi vivano lontano dalla loro terra d’origine, anche se le stime non sono precise, soprattutto riguardo al numero dei circassi presenti in Turchia.

La conquista russa della Circassia

All’inizio dell’ottocento l’Impero Russo, desideroso di allargare i propri territori, incominciò una guerra espansionista nel Caucaso, per annettere la regione e le popolazioni che la abitavano. L’invasione russa, iniziata nel 1817, incontrò però una grande resistenza da parte delle popolazioni del Caucaso settentrionale, che contrastarono con tutte le forze a loro disposizione l’avanzata del più numeroso e meglio equipaggiato esercito zarista. A causa dell’opposizione dei montanari del Caucaso, e dei contemporanei conflitti che l’Impero Russo si ritrovò a combattere su altri fronti, l’invasione andò avanti per decenni prima che i russi potessero avere la meglio. Nel 1859 con la sconfitta dell’Imam Shamil venne ultimata la conquista del Caucaso nord-orientale (Cecenia e Daghestan), permettendo così ai russi di concentrare le proprie forze sulla Circassia, che si arrese cinque anni più tardi, nel 1864.

Già nel corso della lunga guerra i russi repressero duramente la resistenza circassa, non limitandosi a colpire i ribelli, ma sterminando intere famiglie e distruggendo numerosi villaggi, creandone contemporaneamente dei nuovi dove vi insediarono coloni russi. Quando ormai il conflitto stava volgendo al termine, i russi elaborarono un piano per espellere centinaia di migliaia di montanari dai loro territori e deportarli verso altri paesi, come l’Impero Ottomano. Il piano venne ideato già nel 1857 da Dmitry Milyutin, poi promosso a Ministro della Guerra, e dopo aver ricevuto l’approvazione dello zar Alessandro II venne accolto con favore anche dagli stessi ottomani, che speravano in questo modo di reinsediare i circassi provenienti dal Caucaso nelle regioni dell’Impero a maggioranza cristiana. Il 10 maggio 1862 Alessandro II approvò ufficialmente il piano di reinsediamento del popolo circasso, che venne avviato prima della fine definitiva della guerra.

La pulizia etnica

Le operazioni vennero guidate dal generale russo Nikolai Yevdokimov, incaricato di organizzare la deportazione dei circassi dal Caucaso verso l’Impero Ottomano. Le centinaia di migliaia di sfollati vennero fatti marciare lungo il fiume Kuban verso la costa, dove una volta arrivati vennero caricati su navi mercantili e condotti in Turchia. Durante le lunghe marce forzate verso il Mar Nero i prigionieri circassi vennero scortati da intere colonne di fucilieri russi e di cavalleria cosacca. Chi oppose resistenza e chi rifiutò il trasferimento venne ucciso sul posto, sorte che toccò a decine di migliaia di persone. A partire dal 1864 i villaggi circassi iniziarono uno dopo l’altro a svuotarsi, in quanto la quasi totalità dei loro abitanti era stata uccisa, deportata o reinsediata in nelle più desolate regioni dell’Impero; altri villaggi vennero invece dati alle fiamme e rasi al suolo, impedendo in questo modo ai ribelli di trovarvi rifugio. Intere famiglie vennero cancellate, e alcuni sottogruppi etnici minori, come gli arshtini, vennero portati alla totale estinzione. Molti circassi perirono durante la deportazione, a causa delle numerose epidemie che si scatenarono e delle proibitive condizioni alle quali vennero costretti durante il lungo tragitto verso la Turchia.

Il violento processo di pulizia etnica messo in atto dai russi non riguardò i soli circassi, ma anche altri popoli a loro vicini, come i già citati abkhazi, abazi, ubykh e kabardini; inoltre furono vittime di deportazioni anche numerosi ingusci, ceceni, daghestani e osseti musulmani. Tra chi sopravvisse, la maggior parte trovò riparo come detto all’interno dell’Impero Ottomano, dove gli sfollati vennero insediati per la maggior parte tra i monti dell’Anatolia. Si calcola che solo nell’anno 1864 circa 220.000 montanari arrivarono dal Caucaso in Anatolia, attraverso il porto di Trebisonda. Altre decine di migliaia di circassi vennero deportati in Persia, altri ancora vennero trasferiti nei punti più remoti e inospitali dell’Impero, come la Siberia, dove dovettero rifondare da zero nuove comunità.

La pulizia etnica messa in atto dai russi si fermò solo nel 1867, quando il reinsediamento dei popoli montanari venne ufficialmente proibito, a eccezione di casi isolati, a causa del preoccupante spopolamento che esso causò in intere aree del Caucaso, che portò a un conseguente declino dell’economia locale. Anche in seguito alla fine delle persecuzioni però numerose famiglie di circassi decisero di lasciare le montagne del Caucaso, dove non si sentivano più al sicuro, preferendo emigrare verso l’Impero Ottomano e il Medio Oriente, dove formarono numerose comunità.

Il dibattito sull’uso del termine “genocidio”

Con che termine sarebbe più corretto definire la pulizia etnica perpetrata dai russi ai danni dei circassi e delle altre popolazioni caucasiche a metà dell’Ottocento? Su questo punto gli storici non sembrano ancora aver trovato una posizione comune a riguardo: una parte di essi evita di utilizzare il termine “genocidio” per riferirsi alla questione circassa, preferendo definire l’evento semplicemente “massacro” o “strage”. C’è da ricordare a proposito che all’epoca dei fatti non esisteva ancora il concetto di “genocidio”, che sarebbe stato coniato solamente il secolo successivo.

D’altro canto, altri storici che ritengono al contrario che i fatti del 1864 possano essere considerati a tutti gli effetti come un vero e proprio genocidio, a causa soprattutto del fatto che la deportazione forzata sia stata pianificata e dell’alto numero di vittime che essa ha causato (verosimilmente intorno al milione, ma le cifre non sono certe: si va dalle 4 milioni di vittime denunciate dagli studiosi circassi alle “sole” 400.000 contate dai dati ufficiali russi), ma anche a causa dei metodi utilizzati per eliminare e deportare la popolazione circassa e della violenza con la quale la pulizia etnica è stata eseguita. Secondo questi storici il massacro e la deportazione dei circassi hanno rappresentato l’invenzione delle strategie e delle moderne tecniche di pulizia etnica e di genocidio, tutto questo mezzo secolo prima del Medz Yeghern, il genocidio armeno, considerato dagli storici il primo genocidio del Novecento, che ispirò nel 1944 lo studioso polacco Raphael Lemkin a coniare proprio questo termine, prima inesistente.

In seguito alla conquista russa del Caucaso il massacro dei circassi venne per anni dimenticato, in particolare durante l’epoca sovietica, quando venne bandita ogni forma di nazionalismo, sentimento considerato “borghese”. La questione circassa riemerse solo in seguito al crollo dell’Unione Sovietica, nel 1991, quando iniziarono a nascere le prime forme di attivismo circasso. Nel 1994, l’allora presidente russo Boris Yeltsin, parlando a proposito della questione circassa, dichiarò che la resistenza all’invasione russa fu “legittima”, senza però riconoscere le colpe dei russi riguardo al massacro circasso. Sempre nel 1994 venne fondata l’Associazione Internazionale Circassa, la quale da allora si adopera per la conservazione e la valorizzazione della cultura, delle tradizioni e della lingua di questo popolo, chiedendo il riconoscimento a livello statale del genocidio circasso. Pochi anni più tardi i leader delle repubbliche di Kabardino-Balkaria e Adighezia, luoghi dove vi è ancora oggi un’importante presenza circassa, chiesero alla Duma di riconsiderare i fatti del 1864, senza però mai ricevere nessuna risposta.

Nel 2005 il Congresso del Popolo Circasso, organizzazione formata dai rappresentanti dei popoli circassi della Federazione Russa, chiese a Mosca di riconoscere il genocidio e chiedere scusa alla comunità circassa, ma anche in questo caso non venne data alcuna risposta. Un anno dopo alcuni dei più influenti  membri della diaspora circassa inviarono al presidente del Parlamento Europeo una lettera dove si chiedeva di riconoscere il massacro dei circassi come genocidio. Nel 2008 ancora il Congresso del Popolo Circasso chiese al governo russo di creare una Repubblica autonoma di Circassia, per unificare e tutelare le minoranze presenti nel Caucaso. Nel maggio 2011 la Georgia divenne il primo paese a riconoscere ufficialmente il genocidio circasso, con una risoluzione approvata all’unanimità proprio in occasione della Giornata della Memoria delle vittime circasse. Nel novembre 2014 sempre i membri della diaspora circassa inviarono una seconda richiesta di riconoscimento alla Polonia, in occasione del Giorno dell’Indipendenza polacca.

L’organizzazione nel febbraio 2014 delle Olimpiadi Invernali a Sochi, un tempo capitale circassa, ha rappresentato un punto critico all’interno dei rapporti tra la comunità circassa e la Russia, contribuendo a far aumentare la tensione tra le due parti. Sochi rappresenta un luogo fondamentale per la storia circassa: proprio a pochi chilometri dalla città, tra le montagne di Krasnaya Polyana, nel 1864, i circassi si arresero definitivamente ai russi. Nell’anno delle Olimpiadi è inoltre ricorso il 150° anniversario del massacro; per questo i circassi hanno cercato di attirare in tutti i modi l’attenzione della comunità internazionale, soprattutto attraverso l’organizzazione di numerose manifestazioni di protesta che hanno avuto luogo in tutto il mondo, nel corso delle quali i membri delle comunità circasse hanno invitato a boicottare l’evento ed esortato il governo russo a riconoscere i propri crimini.

Il massacro dei circassi è stato ricordato recentemente anche dalla Turchia, in seguito alle  recenti posizioni prese dalla Russia e da Putin in merito alla questione armena. Il governo di Ankara ha accusato Mosca di ipocrisia a causa del suo voler difendere a spada tratta la memoria del genocidio armeno, dimenticando però allo stesso tempo i tanti massacri messi in atto dai russi negli ultimi secoli, come appunto quelli contro i circassi e le altre popolazioni musulmane del Caucaso. Proprio la questione armena è il principale problema che impedisce alla Turchia di riconoscere il massacro dei circassi come genocidio. La Turchia, paese dove trovarono riparo centinaia di migliaia di circassi in seguito al 1864, e dove ancora oggi si trova la più grande comunità circassa al mondo, non può infatti pensare di riconoscere il genocidio circasso finché non avrà risolto definitivamente la spinosa questione armena, che la riguarda in prima persona."

https://www.eastjournal.net/archives/59610

https://it.m.wikipedia.org/wiki/Circassia

Expulsion_map_of_the_Circassians_in_19th_century.png

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Un caso di doppia pulizia etnica:

"La doppia (e reciproca) pulizia etnica tra Polonia e Ucraina 

La Polonia, prima della fine della Seconda Guerra mondiale, aveva altri confini. Era molto più spostata a est e comprendeva -tra le altre- le regioni di Galizia e Volinia, teatro della nostra vicenda. Una vicenda dimenticata che, si vedrà, ha ripercussioni anche sul presente. Città principale della regione era (ed è) Leopoli, oggi in Ucraina. Galizia e Volinia erano parte della Polonia sia culturalmente che storicamente. Esse però erano in maggioranza popolate da ucraini. Per i polacchi, questi rappresentavano un materiale demografico etnicamente assimilabile ma opposta era la visione ucraina, concentrata nella creazione di uno “stato-nazione”. Durante gli anni Quaranta del secolo scorso Galizia e Volinia furono teatro di una duplice (e reciproca) pulizia etnica che vide la morte di circa centomila persone e un altro milione e mezzo fu costretto a lasciare le proprie case.

 

Le invasioni nazista e sovietica del 1939 furono per la Polonia la conclusione di un periodo di indipendenza e democrazia. Il patto Molotov-Ribbentrop, che sancì la spartizione del giovane stato polacco, fu invece per gli ucraini un periodo di apparenti aperture a nuove possibilità storiche. E fu il momento in cui i territori di Galizia e Volinia, popolati dagli ucraini occidentali, poterono unificarsi con il resto della “nazione” allora ancora sotto il giogo sovietico. Per liberarla era stato fondato l’Oun (Organizzazione dei Nazionalisti Ucraini), attivo fin dal 1929. Con il patto Molotov-Ribbentrop l’85% degli ucraini della Polonia pre-bellica si trovò sotto il dominio sovietico, la spartizione della Polonia tra Germania e Urss significò -e ancora significa- per molti ucraini dell’ovest la riunificazione in un’unica entità politica ucraina, sebbene ancora non indipendente.  

Venne però il 1941, l’Operazione Barbarossa portò le truppe di Hitler ad invadere la Russia di Stalin. All’Oun parve il momento buono per creare uno stato indipendente e si alleò con i nazisti. Molti ucraini si offrirono come poliziotti, burocrati e persino Schuntzstaffel (Ss). Il nazionalismo ucraino seguì il destino di quello croato, trovandosi infine delegittimato dalla collaborazione con i tedeschi. Presto infatti le speranze ucraine si rivelarono vane. Pensare ai tedeschi non come alleati ma come invasori fu per l’Oun un processo lungo e traumatico. Nel 1943 l’Oun riunì vari gruppi di azione partigiana in una sola organizzazione, da allora denominata Upa, con lo scopo di difendere l’Ucraina da qualsiasi invasore: tedescorusso o polacco.

 

Già, perché nel frattempo anche la resistenza polacca si era organizzata, l’Armia Krajowa (Ak) estese le sue attività ai territori di Volinia e Galizia al fine di liberarli dagli ucraini, alleati dei nazisti. Quando anche l’Upa si trovò a difendersi dai nazisti, il nemico comune non unì i due gruppi. Lo scopo dell’Ak era -ovviamente- la difesa dei confini della Polonia pre-bellica, e non aveva nulla da offrire al nazionalismo ucraino. Il governo polacco in esilio a Londra propose, nel 1943, un’autonomia agli ucraini di Volinia e Galizia nella futura Polonia post-bellica, che loro immaginavano con gli stessi confine della precedente. L’Oun-Upa rifiutò in nome di un nazionalismo integrale a base etnica. Interi villaggi polacchi vennero allora rasi al suolo dai partigiani ucraini nell’aprile 1943, migliaia di civili furono uccisi. I polacchi della regione costituirono gruppi di autodifesa e -paradossalmente- chiesero le armi ai nazisti che ancora li occupavano. Nel frattempo l’Ak e l’Upa si scontravano per il controllo di Leopoli, città a maggioranza polacca. L’Upa aggredì i civili anche in quell’occasione. L’11 luglio del 1943 l’Upa attaccò almeno ottanta località e uccise circa diecimila polacchi, dando fuoco alle case, uccidendo a colpi di falci e forconi. Corpi di polacchi vennero appesi alle case, crocifissi, sventrati, decapitati o smembrati.

Avvenuta, da parte ucraina, la pulizia etnica in Galizia e Volinia, i polacchi reagirono sostenendo l’Armata Rossa a Leopoli. Reparti partigiani dell’Ak aiutarono i russi contro i tedeschi che furono così costretti a lasciare la città. La polizia segreta sovietica in seguito perseguitò e disperse le formazioni dell’Ak. I partigiani ucraini dell’Upa si trovarono ad avere come nemici in Galizia non più i tedeschi (e i polacchi dell’Ak, a loro volta impegnati contro i nazisti) ma i russi. Il 27 luglio del 1944 Stalin decretò il nuovo confine sovietico-polacco che dava Galizia e Volinia all’Urss e quindi all’Ucraina. Ciò comportò uno dei più grandi movimenti (coatti) di popolazione del Novecento. Nessun comunista polacco reagì, benché la Polonia si vedesse asportata di una significativa fetta di territorio. Gli accordi di “evacuazione” furono firmati il 9 settembre 1944 da Nikita Khrushchov, all’epoca commissario popolare per l’Ucraina, ed Edward Osobka-Morawski, capo del Comitato polacco di liberazione nazionale con sede a Lublino. La politica stalinista (e quindi alleata) delle deportazioni di popoli, trovò il suo suggello.

 

L’85% della minoranza ucraina della Polonia dell’anteguerra abbandonò la Polonia senza spostarsi fisicamente. Settecentomila furono costretti ad andarsene dal nuovo stato polacco e altrettanti, invece, rimasero. Allo stesso modo i polacchi della Galizia furono trasferiti entro i confini della “nuova” Polonia. Per gli ucraini rimasti in Polonia fu il tempo della ritorsione. All’inizio del 1945 lo Stato polacco negò loro il diritto alle terre e furono chiuse le loro scuole. Successivamente i giovani che non si erano registrati per il rimpatrio “volontario” in Ucraina furono arrestati. I cinquemila soldati dell’Upa rimasti nei territori di Cracovia e Chelm reagirono nuovamente con la distruzione di comunità polacche ma la loro lotta ebbe vita breve. Così come quella dell’Ak che non posò le armi ma continuò a combattere contro i sovietici, i polacchi comunisti e gli ucraini invasori. I militanti dell’Upa cercarono di “difendere” la minoranza ucraina della nuova Polonia dalle incarcerazioni arbitrarie, dalle espulsioni, dalle vessazioni, ma il sostegno attivo della popolazione non fu sufficiente.

Nell’aprile 1946 tre divisioni di fanteria del Gruppo operativo Rzeszow rastrellarono i villaggi ucraini che appoggiavano l’Upa, sterminandone la popolazione e deportando i superstiti. Nel 1947 lo Stato Maggiore polacco riteneva risolto il problema ucraino e chiese al Politburo di poter eliminare i “residui”. Si optò invece per una “ricollocazione”, ovvero una deportazione nei Territori Riacquistati della Polonia occidentale che, fino al 1945,erano tedeschi. La pulizia etnica polacca contro gli ucraini aveva un nome: Operazione Wisla. La parola “pulizia” appare anche in alcuni documenti ufficiali. Lo scopo era impedire il risorgere di comunità ucraine in Polonia. Tra gli ufficiali coinvolti c’era un giovane Wojcech Jaruzelski."

https://www.eastjournal.net/archives/2286

https://www.eastjournal.net/archives/2336

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Per quello che era la Galizia prima del 1939 consiglio la lettura di ''Viaggio ai confini dell'impero'' di Joseph Roth nato in quelle terre...

Arka

Diligite iustitiam

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Supporter

Argomento spinoso direi.

I macelli slavi, Israele con i palestinesi, il buon Leopoldo II , i nativi americani sterminati in USA, si potrebbe arrivare ai Romani con i Lusitani e i Dati...

Diciamo che il genere umano si è sempre distinto.

 

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@luigi78 e tutti quanti , pregherei se si vuole intervenire in questa discussione di esporre una tematica e svilupparla, e non lanciare solo nomi privi di fatti.

Inoltre qui si dovrebbe parlare di popoli accantonati, sconosciuti o semisconosciuti e non credo proprio che i Palestinesi facciano parte di questa categoria (chi vuole può aprire una discussione a parte).

La mia è solo una precisazione, da non prendere come una sentenza.

 

 

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@ARES III Sviluppare una di queste tematiche è molto difficile. Una delle situazioni da te descritte la conosco molto, ma molto bene. Il tuo sviluppo di questa vicenda è quasi perfetto. Ma è proprio su quel ''quasi'' che casca l'asino. Perchè è proprio lì che si celano tuttora questioni irrisolte, odii se non razziali sicuramente nazionali o politici, ferite che non si sono ancora rimarginate... Se tentassi di correggere alcuni passi ci sarebbero altri che li contesterebbero. Anche perchè la storia viene raccontata in modo dverso nelle diverse parti di un conflitto.

Anche per questo sono un convinto europeista. Solo decenni di un Unione Europea forte potranno curare le ferite e smussare i nazionalismi che covano sotto la cenere. Altrimenti ricominceremo a farci la guerra e molto presto.

Arka

Diligite iustitiam

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@Arka tutto giusto però quanti possono affermare di non conoscere i Palestinesi oggi ? 

Mentre i genocidi delle popolazioni che ho già citato ritengo, ma posso sbagliarmi, che siano meno conosciuti dalla maggioranza.

E lo scopo qui sarebbe parlare di tutti coloro che effettivamente siano sconosciuti o cancellati dalla storia  (anche se darà fastidio ai filo-russi o altri).

Osservazione: i genocidi avvengono essenzialmente dove manca la democrazia.....quindi fate voi!

 

Modificato da ARES III
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Il 10/4/2020 alle 12:52, luigi78 dice:

Argomento spinoso direi.

I macelli slavi, Israele con i palestinesi, il buon Leopoldo II , i nativi americani sterminati in USA, si potrebbe arrivare ai Romani con i Lusitani e i Dati...

Diciamo che il genere umano si è sempre distinto.

 

Gli spagnoli danno da mangiare ai cani, il cibo per cani sono i bambini degli indiani. Vecchia incisione. C. 1495

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Continuiamo con la strage in Guatemala dei Maya (in tempi relativamente recenti):

"Dopo la conquista dell’indipendenza dalla Spagna nel 1821, il Guatemala era guidato dalla minoranza bianca che deteneva la maggioranza della ricchezza a discapito della popolazione autoctona, povera e priva di diritti. Da questa condizione di disequilibrio economico e sociale scaturirono anni di proteste popolari e ribellioni. Tra il 1960 e il 1996 imperversò una guerra civile in cui si scontrarono gli interessi delle classi agiate urbane, discendenti dai colonizzatori, e quelli dei ceti poveri e dei campesiños di etnia maya, sparsi nei villaggi delle zone rurali. Negli anni ’80 le violenze si intensificarono, fino a culminare nello sterminio della comunità Maya da parte dell’esercito, condotto dal dittatore Efrain Rios Montt.

 

Pianificazione e inizio delle violenze

Nel 1982, quando l’ex generale Efrain Rios Montt divenne dittatore, il Guatemala viveva da oltre vent’anni una guerra civile e si decise che le comunità indigene sospettate di appoggiare la guerriglia avrebbero dovuto essere, semplicemente, cancellate dalla mappa geografica.
Nel clima di aspra contesa ideologica aperto dalla guerra fredda, l'obiettivo di ergere una diga contro il temuto dilagare del comunismo fu messo al di sopra di ogni rispetto dei diritti umani. I ceti privilegiati erano terrorizzati dall'idea che la rivendicazione di riforme sociali si risolvesse in un attentato al diritto di proprietà. Fu questo il movente dell'elaborazione della "dottrina della sicurezza nazionale", che fornì legittimazione alla violenza indiscriminata dello Stato contro chiunque rivendicasse una maggiore giustizia sociale. Tale dottrina consentì allo Stato di classificare come "oggettivamente comunista" chiunque fosse schierato sul fronte opposto e di renderlo passibile di annientamento. Qualunque forma di opposizione venne individuata come terreno di coltura del "nemico interno". Lo stesso impegno di molti sacerdoti per la difesa dei diritti dei più deboli venne considerato eversivo. Le campagne militari che si risolsero nello sterminio delle comunità Maya stanziate nelle zone rurali furono intraprese in nome della suddetta "dottrina".

Erano frequenti i casi di militari alla ricerca di guerriglieri in paesi precedentemente individuati come covi insurrezionali che, non trovando maschi adulti, rivolgevano la loro violenza contro gli abitanti inermi dei villaggi. Si hanno testimonianze di "esecuzioni" di donne, bambini e anziani, avvenute nel corso di campagne militari condotte indiscriminatamente contro interi paesi.

Entità dello sterminio

L'apice della violenza fu raggiunto fra il 1978 e il 1983. In quell'arco di tempo l'esercito sterminò intere comunità maya nei villaggi più remoti e più poveri della regione centro-occidentale. La stragrande maggioranza delle vittime apparteneva al popolo Maya e abitava nella regione Ixil/Ixcàn, nel dipartimento del Quiché, dove fu eseguito il 90% delle stragi. I luoghi che, fra gli altri, rimangono tristemente famosi sono: Barillas e Nentón (nel dipartimento di Huehuetenango), Plan de Sánchez (Baja Verapaz), San Francisco Javier, Vibitz e Chicamán (dipartimento del Quiché).
Il numero complessivo delle vittime è di circa 200.000, di cui 132.000 solo nel corso dell'operazione "terra bruciata" sotto i governi di Lucas Garcia e di Efrain Rios Montt, fra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta. A questi morti si deve aggiungere un milione e mezzo di sfollati causati dalla guerra, 150.000 rifugiati in Messico, 50.000 scomparsi.
Le modalità di tali assassini vanno dallo sventramento alla decapitazione e al sotterramento delle vittime ancora vive in fosse comuni. Le donne, prima di essere uccise, venivano quasi sempre stuprate, spesso davanti agli occhi dei figli. Dopo di che, si faceva terra bruciata di quanto rimaneva. Le "operazioni di terra bruciata" nei confronti dei Maya comprendevano la completa distruzione delle loro comunità, case, risorse, mezzi di sussistenza, uso dei loro simboli culturali, istituzioni sociali, economiche e politiche, valori e pratiche culturali e religiose. Ai massacri di massa si accompagnava l'eliminazione di singoli oppositori mediante il sequestro e la tortura che si concludeva con la morte. Questa seconda modalità di assassinio era riservata ai capi sindacali, agli studenti, ai giornalisti democratici e agli intellettuali in genere.

La Commissione per il Chiarimento Storico

Nel 1994, sotto la pressione internazionale e col patrocinio dell'ONU, le parti in lotta si incontrarono a Oslo per concordare una cessazione delle ostilità. In quell'occasione nacque una Commissione per il Chiarimento Storico (CEH), con il mandato di ricostruire l'andamento degli eventi nel corso di quegli anni e di promuovere la riconciliazione sulla base della verità storica.

Dopo un'indagine durata cinque anni, condotta con la cooperazione dei testimoni e col sostegno finanziario delle più importanti istituzioni internazionali, la CEH ha appurato che le stragi furono causate solo marginalmente da azioni militari contro i guerriglieri, ma si connotarono nella grandissima maggioranza dei casi come crimini contro l'umanità, nella fattispecie contro la popolazione Maya. La CEH ha stabilito in 626 gli episodi di massacri di civili inermi da parte delle forze governative.
Sotto il profilo politico, la CEH ha accertato che la responsabilità diretta dei massacri va in primo luogo attribuita ai due capi di governo che si sono succeduti al potere fra il 1978 e il 1983: Romeo Lucas Garcìa e Efrain Rios Montt. L'esecuzione materiale delle stragi fu condotta sotto la supervisione del generale Hector Gramajo, coordinatore e supervisore dei comandanti militari delle operazioni per la zona occidentale (Alta e Baja Verapaces, El Quiché, Huehuetenango e Chimaltenango).
Il lavoro della CEH è stato supportato da un altro documento, Mai più, pubblicato il 24 aprile 1998 come parte del progetto interdiocesano per il recupero della memoria storica (REMHI).

 

Le Pattuglie di Autodifesa Civile (PAC)

Una menzione particolare merita il coinvolgimento di civili fra gli esecutori dei massacri, pianificato dai vertici politici e militari. Nei primi anni '80 fu ideato un piano militare (Plan Victoria) che istituiva un corpo paramilitare, a cui venne dato il nome di Pattuglie di Autodifesa Civile (PAC) col compito di affiancare l'esercito nell'azione repressiva. Molti civili furono reclutati, spesso con la forza, in queste PAC. Rios Montt perfezionò e intensificò l'uso delle PAC. Lo scopo era di fornire manovalanza all'esercito per il "lavoro sporco", con il duplice risultato di rendere più efficace la repressione e di dirottare su responsabili diversi dai militari eventuali accuse di crimini di guerra.
Sebbene le PAC si siano rese responsabili di atrocità innumerevoli, studi dell'Università di Yale hanno dimostrato che, su ogni cento massacri compiuti nei primi anni '80, ottantasette sono da attribuire ai militari che agivano in base a un preciso disegno. Nel documento elaborato dalla CEH si parla di una strategia dello Stato mirata a fare terra bruciata di tutte quelle località, in primo luogo i villaggi maya, in cui avrebbe potuto attecchire la guerriglia. È accertata l'esistenza di documenti che comprovano la circostanziata pianificazione di campagne militari volte all’annientamento di intere comunità. Se ne conosco i nomi: Campaña Victoria 1982, Operativo Sofía del 15 luglio '82, Operación Ixil, Civilian Affairs del Plan Firmeza 1983.
Si trattava, secondo il Generale Hector Gramajo membro dello staff di Rios Montt, di un lavoro “completo, pianificato fino all'ultimo dettaglio." Meno di un mese dopo il colpo di Stato di Rios Montt, nell'aprile del 1982, il Plan Victoria fu firmato dalla Giunta e messo ufficialmente in atto dieci giorni più tardi. Il segreto di Stato copre i documenti citati e si sono rivelati vani i tentativi delle organizzazioni per la difesa dei diritti civili, di costringere il governo a rendere pubblico il loro contenuto, classificato al livello più alto di segretezza e per questo inaccessibile per almeno 30 anni rinnovabili.

 

La Commissione Internazionale contro l’Impunità in Guatemala (CICIG)

Il 12 dicembre 2006 un accordo firmato fra le Nazioni Unite e il governo guatemalteco ha istituito la CICIG, un Ente indipendente il cui scopo è assistere l’Ufficio guatemalteco del procuratore, la polizia nazionale e altre istituzioni coinvolte nella ricerca di casi sensibili o che lavorano allo smantellamento di gruppi illegali di sicurezza. La CICIG ha il diritto di avviare ricerche di propria iniziativa. Le indagini della CICIG hanno condotto all’emissione di 18 mandati di arresto, in particolare per Javier Figueroa e per Erwin Sperisen.

https://it.gariwo.net/educazione/approfondimenti/genocidio-guatemala-3503.html

 

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  • 3 settimane dopo...

Dalle Americhe passiamo all'Oceania e precisamente alla Nuova Zelanda a trattare dei Moriori ( e non Maori come fra poco scoprirete.

" Il genocidio dei Moriori, episodio imbarazzante per la cultura “politically correct”

Di Francesco Lamendola

 

Il 19 novembre del 1835, a bordo del brigantino europeo «Lord Rodney», un gruppo di circa 500 Maori provenienti dalla regione di Taranaki (nella zona occidentale dell’Isola del Nord), sbarcarono sulle Isole Chatham (o Warekauri: dieci isole, delle quali solo le due maggiori abitate, Chatham e Pitt, per una superficie totale di poco meno di 1.000 kmq), abitate dai pacifici Moriori, situate a circa 800 km. a Est della Nuova Zelanda, armati di scure e, soprattutto, di fucili.

Fu, quello, l’inizio di una pagina tremenda, e pochissimo conosciuta in Occidente, nella storia dell’arcipelago: da quell’impatto, anzi, da quella invasione, ebbe inizio lo sterminio del popolo moriori, che si sarebbe concluso con l’estinzione totale, nel 1933, allorché avvenne la morte dell’ultimo indigeno di sangue puro.

Una seconda nave carica di Maori, circa 400 persone, sopraggiunse un paio di settimane dopo, e gettò l’ancora il 5 dicembre, rafforzando ulteriormente i nuovi arrivati. Adesso gli invasori erano abbastanza numerosi da abbandonare ogni ritegno e da procedere senz’altro all’asservimento o alla eliminazione sistematica di quegli isolani, la cui vita, ai loro occhi, non valeva nulla, poiché essi conoscevano solo la legge del più forte ed erano abituati alla guerra e al cannibalismo, come condizioni pressoché normali della loro esistenza.

In quel momento, gli Europei non avevano ancora conquistato la Nuova Zelanda – il trattato di Waitangi, che vide l’inizio del dominio inglese, sarebbe stato firmato solo cinque anni più tardi, il 6 febbraio 1840 – e non pochi essi avevano già sperimentato la crudele bellicosità dei guerrieri maori. Si ricordano, in particolare, parecchi uomini dello scopritore dell’arcipelago neozelandese, l’olandese Abel Tasman, nel 1642, e il navigatore francese Marion Du Fresne con alcuni dei suoi marinai, approdati nel 1772: erano stati tutti uccisi a tradimento e mangiati. I Britannici, in seguito, per poter attuare concretamente il loro protettorato, dovettero sostenere due dure campagne militari contro i Maori, nel 1842-46 e nel 1865-72; nel corso della seconda trovò la morte anche un notevole personaggio venuto dall’Europa, Gustavus von Tempsky (1828-1868), strana figura di avventuriero, artista (per la precisione, acquarellista), giornalista e scrittore prussiano, originario dalla lontanissima Masuria e unitosi alle truppe inglesi nelle 

operazioni belliche (cfr. il nostro saggio: «La guerra antimissionaria e antibritannica dei Maori della Nuova Zelanda (1865-72)», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 14/01/2009).

I Maori presero possesso delle isole Chatham secondo le loro consuetudini di guerra: considerando come loro assoluta proprietà sia la terra che i suoi abitanti. I Moriori, miti e pressoché indifesi, non tentarono nemmeno di opporre una resistenza organizzata; nondimeno, davanti alle usurpazioni delle loro terre e al rapimento delle loro donne, alcuni di essi accennarono una reazione. La risposta degli invasori fu immediata e consistette nell’uccisione di centinaia di uomini, donne e bambini, i cui cadaveri vennero immediatamente squartati, cucinati e consumati nel corso di grandi banchetti cannibaleschi. Molti Moriori, terrorizzati, fuggirono nella foresta e cercarono scampo nelle grotte, ma fu tutto inutile: vennero immediatamente squartati, cucinati e consumati nel corso di grandi banchetti cannibaleschi. Molti Moriori, terrorizzati, fuggirono nella foresta e cercarono scampo nelle grotte, ma fu tutto inutile: vennero inseguiti, braccati come animali, rintracciati e uccisi, senza distinzione di sesso o di età. Solo le donne in età di partorire vennero risparmiate e divennero le schiave dei nuovi padroni, che le misero incinte per ripopolare l’arcipelago.

Si calcola che, alla fine del XVIII secolo, la popolazione moriori assommasse a circa 2.000 unità; nel 1862, i sopravvissuti erano esattamente 101. Solo individui di sangue misto, figli degli invasori e delle donne isolane, esistono ancora oggi, sia sulle Chatham che in Nuova Zelanda.

Scrivono Peter Turner e gli altri autori dell’esauriente volume «Nuova Zelanda» (titolo originale: «New Zealand», Victoria, Australia, Lonely Planet Publications, 1998; traduzione dall’inglese di Rosanna Ammendolia, Torino, E. D. T., 1999, p. 746):

 «Uno degli aspetti più affascinanti delle Chatham è il retaggio culturale lasciato dai Moriori. Sulle isole vivono ancora i discendenti di questo gruppo e si trovano e tracce della loro cultura un tempo fiorente. Molte discussioni sono state fatte in merito alla loro provenienza. Oggi, si tende ad accreditare l’ipotesi che fossero polinesiani, come i Maori, giunti alle Chatham navigando dalla Nuova Zelanda. La data del loro arrivo, tuttavia, è incerta a causa della scarsità di reperti archeologici, anche se si ritiene che si possa stabilire tra il 900 e il 1.500 d. C.

Una volta raggiunto l’arcipelago, essi iniziarono a sviluppare un’identità separata da quella dei Maori della terraferma. Non mantennero rigide divisioni di classe, posero fine al guerreggiare, preferirono lasciare che le parti in causa risolvessero le dispute con 

lotte corpo a corpo, e il loro linguaggio iniziò a differenziarsi leggermente. Il loro lascito più degno di nota, sono i simboli incisi sugli alberi (“dendroglyphs”) e sulle rocce che orlano la The Whanga Lagoon (“petroglyphs”).  Quando il vascello “Chatham” giunse all’isola nel 1791 si pensò che i Moriori presenti sull’arcipelago fossero circa 2.000.

Dal novembre del 1835 circa, gruppi di Maori iniziarono ad approdare alle Chatham e in breve tempo vi furono 900 nuovi residenti tra Ngati Tama e Ngati Mutinga di Taranaki Ati Awa. I Maori cominciarono ad appropriarsi della terra in un processo noto come “takahi”. I Moriori che opposero resistenza, circa 300, furono uccisi e gli altri ridotti in schiavitù. Nel 1841, si calcolò che il numero dei Moriori fosse sceso a 160 e quello dei Maori salito a oltre 400 e fu solo due anni più tardi che i Maori rilasciarono l’ultimo degli schiavi Moriori. Nel 1870, le native Land 

Court Hearing riconobbero ai Maori la sovranità sul 97% delle isole e piccole riserve furono create per i 90 Moriori sopravvissuti. Nel tempo i matrimoni tra i due gruppi portarono lentamente alla scomparsa della peculiare identità moriori. La loro lingua morì nel 1900 con l’ultimo degli studiosi moriori, Hirawanu Tapu. All’epoca erano solo 12 i Moriori di razza pura rimasti. L’ultimo fu Tommy Solomon, che si spense nel 1933. La sua morte fu vista come la fine di una razza particolare, ma era ben lontana dall’esserlo. I suoi tre figli e le due figlie sono ritenuti Moriori puri  e c’erano molte famiglie che rivendicavano un lignaggio moriori.

Oggi si ritiene che vi siano più di 300 discendenti di questo gruppo e c’è stata una rinascita della coscienza moriori, in particolare dopo la costruzione del monumento a Solomon presso il Manukau Point, vicino a Owenga,  nella parte sud-orientale del’isola. Adesso, Moriori, Maori e Pakeha vivono fianco a fianco come isolani.»

Sebbene questo brano di prosa tradisca una certa tendenza, tipica della cultura contemporanea politically correct, a minimizzare in vario modo l’atrocità di quella pagina di storia, per la sola ragione che essa è stata scritta in caratteri di sangue non dai soliti bianchi malvagi, venuti per portare sfruttamento e rapina, ma da indigeni extra-europei a danno di altri indigeni, più deboli di loro e praticamente indifesi, resta il fatto eloquente che, sulle isole Chatham, ebbe luogo uno sterminio irreparabile, dal quale il piccolo popolo dei Moriori non si riprese mai più. La tendenza di cui sopra testimonia la tenace persistenza del mito del “buon selvaggio” e non si arrende neppure davanti all’evidenza; oggi, un suo tipico rappresentante è il biologo statunitense Jared Diamond, col suo libro di successo «Guns, Germs and Steel: the Fate of Human Siocietes» («Armi, acciaio e 

malattie», apparso nel 1997 e vincitire del Premio Pulitzer l’anno dopo, del quale ci siamo occupati in un articolo di otto anni fa (cfr. «L’equivoco di fondo dei volonterosi antropologi anti-razzisti», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 12/11/2007).

In effetti, ci sembra che sia molto fuorviante sia evitare la parola “genocidio” e tentar di limitare le cifre dei Moriroi uccisi e cannibalizzati, mediante una avara contabilità al ribasso, sia, soprattutto, suggerire che vi sia stata una sorta di “rinascita” della cultura moriori, perché quel popolo si è definitivamente estinto: il semi-trionfalismo con cui si dice che alcuni indigeni puri erano ancor vivi dopo il 1933 ci appare del tutto fuori luogo. Ancor più sconcertante è il fatto che la pubblicazione del libro dello studioso Michael King, «Moriori: a People Rediscovered» («Moriori: un popolo riscoperto»; Viking Press, 2000; ma l’edizione originale è del 1989) sia stata salutata con un evidente di respiro di 

sollievo da parte della cultura “indigenista”.

Infatti, ai primi del 2000 il salotto buono della cultura neozelandese – e, di riflesso, britannica, quindi mondiale – era stato turbato da una ipotesi politicamente scorrettissima: che i Moriori fossero di origine melanesiana, ossia che fossero di pelle scura e statura relativamente bassa, il che – orrore degli orrori – avrebbe fatto dei Maori, che sono polinesiani di pelle chiara e di statura piuttosto alta, degli sterminatori di tipo razzista, simili, nelle motivazioni “ideologiche”, ai teorici nazisti della “soluzione finale”. In altre parole: la cosa realmente grave, anzi, se vera, addirittura inconcepibile, non era che i Maori avessero sterminato e schiavizzato i Moriori, per poi mangiarseli, ma che lo avessero fatto per abiette ragioni di superiorità razziale. Un fremito di sdegno e di angoscia percorse tutti i disorientati nipotini delle teorie di Rousseau e compagni sul “buon selvaggio”: dunque anche nelle meravigliose isole del 

Pacifico, prima e indipendentemente dall’arrivo dei bianchi, esisteva il cattivo seme del razzismo? Non era, essa, una scoperta e una peculiarità esclusiva degli uomini bianchi? Certo, si poteva ben evidenziare che fu per mezzo di velieri europei che ebbe luogo l’invasione delle Chatham; e, più ancora, che i Maori erano armati di fucili europei, tanto che l’intera faccenda si può considerare come un episodio particolare delle cosiddette “guerre del moschetto”, espressione con cui gli storici neozelandesi odierni indicano le selvagge guerre tribali che si riaccesero fra i Maori della Nuova Zelanda fra il 1807 e il 1845, ossia dopo che vi furono sbarcati i primi bianchi, e che questi ultimi vi ebbero introdotto, per ragioni di commercio, le prime armi da fuoco.

Tuttavia, non è chi non veda come questi argomenti potevano “discolpare” solo parzialmente i Maori; senza contare la loro palese pretestuosità. Sarebbe come sostenere che Irochesi ed Huroni del Canada si massacrarono a vicenda a causa delle armi importate dai commercianti inglesi e francesi nell’America Settentrionale: quasi che, prima dell’arrivo dei bianchi, le relazioni fra quei due popoli fossero state di natura idillica. Le tribù neozelandesi erano dedite alla guerra e al cannibalismo da sempre, tanto è vero che si diedero a uccidere e cannibalizzare i primi Europei che sbarcarono sulle loro coste, prima ancora d’aver subito da essi il benché minimo torto: nel caso del povero Marion Du Fresne, al contrario, non ricevettero che cortesie e prove di amicizia e di fiducia (quei disgraziati Francesi, provenienti dalla patria di Voltaire e di Rousseau, con l’inchiostro della «Encyclopèdie» ancora fresco, si presentarono in Nuova Zelanda animati dalle migliori intenzioni e si comportarono in maniera addirittura ingenua, offrendo ai loro perfidi ospiti l’opportunità di preparare con tutta calma il 

tradimento e il massacro ai propri danni).

La dimostrazione che i Moriori erano, anch’essi, di origine polinesiana, anzi, che erano discendenti degli stessi Maori, i quali, verso il 1500, avevano lasciato la Nuova Zelanda per popolare le Isole Chatham, permetteva a tutti i terzomondisti, agli indigenisti e ai buonisti d’ogni specie e tendenza, purché odiatori della civiltà europea, di esorcizzare il terribile spettro di un “razzismo” indigeno e di ristabilire la prospettiva del politicamente corretto. L’esclusiva del razzismo genocida rimaneva tutta agli Europei; quanto allo sterminio dei Moriori, non si era trattato di una guerra di sterminio condotta da indigeni alti e con la pelle chiara ai danni di indigeni bassi e con la pelle scura, ma, a  ben guardare, di una faccenda tutta interna ai Maori: un regolamento di conti inter-tribale. Avranno o non avranno il diritto di ammazzarsi e divorarsi fra di loro, i popoli extra-europei, senza che vengano sempre gli uomini bianchi a ficcare il naso e a far loro la morale? Un po’ come nel caso dei sacrifici umani di massa in uso fra gli Aztechi del Messico: sì, è vero, migliaia e migliaia di cuori venivano offerti dai sacerdoti del dio Huitzilopochtli, al punto che quel popolo era sempre in guerra coi vicini appunto per procurarsi le vittime necessarie alla bisogna; ma gli Spagnoli non avevano alcun diritto di criticarli, visti i misfatti di cui si macchiarono a loro volta.

Sarà, ma questo genere di ragionamenti non ci convince. Troviamo, anzi, assai triste che la pelle chiara e l’alta statura dei Moriori diventino “attenuanti” del loro genocidio. Senza voler assolvere i bianchi dalle loro colpe storiche, resta il fatto che essi non possiedono l’esclusiva della malvagità..."

http://www.accademianuovaitalia.it/index.php/storia-e-identita/storia-dei-genocidi/3423-il-genocidio-dei-moriori

 

 

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Episodio storico molto interessante che non conoscevo (anche se riflessioni serie in proposito vanno comunque separate dall'ideologia del delirante sito politico-estremista, esoterico, ufologico e gomblottaro da cui è tratto). Ricorda un po' gli stessi conflitti che contrapponevano diversi popoli del continente americano, che influirono in modo determinante per la loro fine a parte l'arrivo dei coloni dal vecchio mondo.

Modificato da ART
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