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Un'ode a Roma


L. Licinio Lucullo

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105 a.C. (648 a.U.c.), l'anno del consolato di Gneo Mallio Massimo e Publio Rutilio Rufo, un anno terribile per l’Urbe. La gloriosa città-Stato che ha federato attorno a sé Greci e Italici e ha poi espanso il proprio potere in tutto il Mediterraneo occidentale, conquistando i popoli con le armi e assimilandoli con le leggi e prodigi di ingegneria, potrebbe scomparire per sempre.
 

Il momento storico è già difficile di per sé: il mantenimento dei territori sottomessi costa sforzi militari continui ed estenuanti; la guerra contri Celtiberi è durata 20 anni e si è conclusa solamente nel 133, con la conquista di Numantia; gli scontri i Liguri sono continuati per un secolo, sino alla conquista della capitale dei Salluvii nel 123; la rivolta di perfido Giugurta ha portato a 7 anni di combattimenti, appena conclusisi con la cattura del re.

Ma in questo contesto incombe un pericolo ben maggiore, un pericolo mortale: una nuova invasione dell’Italia.

Nel 390 fu Brenno che, con 30.000 armati, arrivò a saccheggiare l’Urbe.

Nel 216 fu Annibale che, con un esercito di 50.000 uomini, distrusse le otto legioni inviate a Canne.

Ora sono 500.000 uomini, di cui almeno 300.000 combattenti. Un’orda di Cimbri e Teutoni, calata dal nord Europea alla ricerca delle fertili pianure mediterranee. Guerrieri feroci, giganti che non hanno paura di alcunché. Non devono varcare le Alpi. Nel 113, per fermarli, è andato loro incontro l’esercito del console Gneo Papirio Carbone, ma è stata una disfatta. Nel 109 proconsole Marco Giunio Silano, al comando di 4 legioni, ha cercato di opporsi al loro tentativo di entrare nella Gallia Transalpina, ma è stato respinto. Nel 107 è toccato al console Lucio Cassio Longino con 6 legioni, ma è stato sconfitto e ucciso nel territorio dei Nitiobrogi.

 

Agli inizi del 105 la Repubblica ha raccolto uno dei più grandi eserciti mai messo in campo, ben 9 legioni con oltre 5.000 cavalieri, al comando del console Gneo Mallio Massimo e del proconsole Quinto Servilio Cepione. È stato un massacro. Nello scontro, avvenuto ad Arausio, i barbari hanno completamente sopraffatto le forze romane, distruggendole.

Una tragedia. Perse le legioni, la frontiera è sguarnita. Se i barbari calano in Italia, sarà sufficiente la mera forza d’urto della loro immane massa per permettere loro di distruggere Roma.

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Roma rialzerà la testa, come seppe sempre fare: dalla sua inesauribile fucina di geni militari era già emerso un homo novus di Arpino, Gaio Mario, capace di riformare l’esercito e sconfiggere Teutoni e Cimbri, cancellando i loro nomi dalla storia.

Nel 105, però, ai Romani appariva sicuramente possibile che la loro parabola stesse per finire, che la città del Tevere potesse subire lo stesso trattamento che aveva inferto alla rivale Cartagine.

È questo sentimento da tener presente per capire - e apprezzare - l’opera di un ignoto, giovane magistrato che decise di approfittare della sua carica di monetiere per cantare un’ode solitaria alla grandezza dell’Urbe, alle sue origini umili ma divine, alla sua incrollabile forza militare che le aveva sempre permesso, come la mitologica fenice, di risorgere dalle ceneri.

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Le emissioni del contante, da anni, sono usate dai monetieri per far conoscere il proprio nome; gli ultimi denari anonimi sono comparsi nel 169/156 (RRC 182/1, 197/1 e 198/1) e nel 143 (RRC 222/1), poi più nulla.

Ma il nostro uomo, il nostro Romano, non vuole tramandare il ricordo di sé, benché forse appartenga a un’illustre e antichissima gens patrizia (i Cornelii, secondo Amisano). Crede che il suo denario possa essere uno degli ultimi emessi dall’Urbe e vuole che ne tramandi la gloria.

Rispolvera, dopo un quarantennio di oblio, la prassi delle emissioni anonime; adotta un modulo largo, quasi come se volesse produrre una medaglia commemorativa; e produce una bellissima moneta, stilisticamente ricercata.

Al dritto reca la personificazione e il nome di Roma

1.jpg

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Ancora più significativo il retro.

Compare di nuovo Roma, o - meglio dire - la dea Roma. Appoggiata a una lancia, simbolo del suo valore guerriero, rivede (oserei dire, "malinconica") le sue origini mitiche: due gemelli abbandonati alla furia del fiume e salvati da una lupa; un volo di uccelli, lo stesso che a Romolo, uno dei gemelli divenuto adulto, confermò il benestare degli dei alla fondazione della città

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Soprattutto, particolare importante, la dea siede su un cumulo di scudi ed elmi. Sono le armi dei vinti, i tanti che hanno osato opporsi alla sua missione trovando la sconfitta. da questa certezza i suoi cittadini devono ripartire, per non farsi sopraffare dal panico dopo la disfatta di Arausio.

Roma, partita da umilissimi origini (= la lupa) ma benedetta dal favore degli dei (= il volo degli uccelli), è divenuta grande grazie al valore militare (= la lancia) con cui ha sconfitto gli eserciti (= gli scudi e l'elmo) assorbendo i nemici nel proprio dominio (= l'atto di sedersi sopra le spoglie nemiche). Non può cadere davanti a Cimbri e Teutoni.

 

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Questa è l'ultima emissione anonima. Ci sarà invero un ulteriore denario non firmato, nell'86 (RRC 350A/2), ma rappresenterà la versione priva di legenda del denario emesso e firmato, quello stesso anno, dai tresviri (RRC 350A/1).

Trovo che, se calata nel contesto storico in cui fu emessa (ammesso e non concesso che la datazione del Crawford sia corretta, ovviamente), costituisca uno dei più semplici e sinceri richiami alla grandezza della Caput Mundi

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