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Le prime presenze ebraiche in Piemonte risalgono all’inizio del XV secolo e pare vadano collegate all’espulsione degli ebrei francesi decretata nel 1394. La comunità più popolosa era allora quella di Savigliano, di cui si hanno notizie fin dal 1404.
A Torino gli ebrei furono ammessi ufficialmente solo nel 1424: per i secoli precedenti non si hanno informazioni circa una loro residenza nella città sabauda.
Gli Statuta Sabaudiae di Amedeo VIII (1430) regolamentarono, oltre alle questioni fondamentali dello Stato, la situazione degli ebrei. Accanto ad una certa severità, anche una basilare accettazione ispirò questo documento: rigida separazione tra ebrei e cristiani, segno giallo distintivo, limitazione delle sinagoghe; ma anche rispetto della libertà religiosa.
Nel Cinquecento un forte impulso venne alle comunità piemontesi dalla cacciata degli ebrei dalla Spagna.
Giungendo dalle regioni costiere della Francia meridionale, dalla Provenza e, attraverso itinerari più intricati, dalla Germania, gruppi piuttosto folti di ebrei approdavano in Piemonte alla ricerca di sicurezza, stabilità, possibilità di sviluppo economico.
Tra alti e bassi, condotte concesse e revocate, agiatezza economica e diffusa povertà, grandi commerci e piccoli traffici ambulanti, la condizione degli ebrei era comunque legata alla politica di rafforzamento ed accentramento con cui il Ducato di Savoia andava trasformandosi in stato moderno.
La Controriforma segnò anche in Piemonte un netto peggioramento della situazione degli ebrei.
Nel 1679, in ottemperanza a quanto ormai si stava realizzando altrove da più di un secolo (Venezia 1516; Roma 1555; Firenze 1571), Maria Giovanna Battista di Nemours, reggente in nome del figlio Vittorio Amedeo II, decretava che tutti gli ebrei torinesi dovevano prendere residenza nella zona dell’antico Ospedale di Carità: tra le contrade S. Filippo (oggi via Maria Vittoria), dietro al Palazzo del Principe Carignano (l’attuale via Bogino), dietro S. Filippo (ora via Principe Amedeo) e la via S. Francesco di Paola nasceva il primo ghetto piemontese, destinato a prendere corpo e a popolarsi già dal 1682, per iniziativa del nuovo duca. Divenuto re dopo la guerra di successione spagnola nel 1723, Vittorio Amedeo II confermò e accentuò le rigide regole per la società ebraica piemontese con le sue Regie Costituzioni. La situazione socio-economica degli ebrei piemontesi tendeva uniformemente ad abbassarsi di livello, scendendo gradualmente fino a quello stato di miseria che caratterizza la vita delle comunità nella prima metà dell’Ottocento. [crw_1049]
La prima emancipazione, giunta in Piemonte al seguito dell’esercito napoleonico, non arrivò del tutto inaspettata agli ebrei subalpini, mentre inatteso e traumatico fu il ritorno nei ghetti sancito dalla Restaurazione.
La liberazione definitiva giunse nel 1848 con lo Statuto albertino e gli ideali del Risorgimento.
Parità di diritti, intensa e proficua partecipazione alla vita della società circostante sul piano economico e culturale, impegno emergente nel processo risorgimentale, ma anche graduale allontanamento dalla tradizione e dall’osservanza dei precetti: questo il quadro di un ebraismo piemontese emancipato e sempre più urbanizzato.
Le leggi razziali nel 1938 furono l’avvio verso il precipizio.
Poi la tragedia, la Shoah: quasi quattrocento furono gli ebrei torinesi deportati. Molti gli ebrei piemontesi impegnati nella Resistenza.
Nel dopoguerra la difficile ricostruzione della sinagoga bombardata e della Comunità.

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