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Risposte migliori

Inviato (modificato)

Nessuna verità rivelata e nessuna lezione da impartire. Gli stessi storici ed economisti hanno idee diversissime in proposito. Credo però che molti di voi abbiano cercato di ragionare sull'argomento, nel momento in cui si sono posti domande sulla relazione fra questi splendidi oggetti ed il loro contesto storico e sociale. Sarebbe bello conoscere il frutto di alcuni di questi ragionamenti, anche perché non essendoci nessun pensiero 'omogeneo' sull'argomento, non c'è il rischio che qualcuno alzi il ditino per dire cosa è giusto o sbagliato.

Può darsi che l'argomento sia già stato oggetto di discussione in passato, non ho tempo di controllare. Se sì, mi scuso. e mi limito ad invitare qualcuno a riprendere quella discussione, se interessato

Andreas

Modificato da Andreas

Inviato

Prima di tutto direi la capacità di ispirare fiducia e quindi la facilità di circolazione e di accettazione.


Inviato

Fiducia che comunque si basava sul contenuto intrinseco di metallo prezioso. Una fiducia condizionata quindi...

Arka


Inviato

Siamo nel medioevo e in questo ambito, il metallo, il valore, il nominale sono superati in un periodo storico dove c'era analfabetismo, c'era anche il baratto dalla percezione di avere in mano una moneta riconosciuta, che si era imposta, l'immobilizzazione della tipologia poi deriva anche da tutto questo, non si cambia il logo vincente, apprezzato perché funzione, la popolazione lo riconosce e si fida e quello che poi contò per molte monetazioni medievali fu quello, gli esempi non mancano e li conosciamo bene.


Inviato

Probabilmente la fiducia non solo era condizionata, ma anche diversificata, a seconda del mestiere di chi usava la moneta...

Forse la prima domanda da porsi è per chi veniva coniata una moneta?

Arka

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Inviato

Cosa dava valore ad una moneta, nel medioevo?

Bella domanda!

Ci sarebbe da scrivere un volume per poi non giungere, come già detto da chi ha posto la domanda, ad una conclusione soddisfacente per tutti. In poche parole, però, partendo dal presupposto che nel medioevo già si era ben a conoscenza del valore intrinseco dei vari metalli in base alla loro possibilità di reperimento sui mercati, ciò che dava valore ad una moneta era sicuramente il suo potere d’acquisto, all’inizio nei mercati locali e poi anche nei mercati più allargati sino a quelli internazionali. Non dimentichiamo che già allora esisteva (anche se magari veniva chiamata in altro modo) l’inflazione e che molti tesaurizzavano le monete di maggior pregio e di maggiore intriseco dato che nel tempo le monete venivano sempre più depauperizzate. Non a caso, due esempi per tutti, i denari passarono da una situazione di alta presenza di argento sino ad una presenza minima quasi insignificante, così come i grossi che diminuirono sia di peso che di intrinseco. Non per niente, quando andiamo a leggere qualche vecchio libro, leggiamo “ 100 lire di buon argento, di oro fino” , o similari.

Esistevano sicuramente altri elementi che davano valore ad una moneta, quali il nome del “signore” o della “zecca” che avevano battuto moneta ed altri elementi ancora, ma tutti stavano a confermare che quelle monete avevano un potere d’acquisto superiore rispetto a quelle battute da altri “signori” o da altre zecche.


Inviato (modificato)

In effetti, ripensando al quesito, mi viene da pensare di aver mescolato i concetti di valore e di "fortuna", che sono collegati ma distinti. E allora si, l'intrinseco può essere premessa per la fortuna di un'emissione.

Modificato da Fratelupo

Inviato

Continuo a pensare che la percezione del valore di una moneta era differente in soggetti differenti. Il commerciante o il banchiere valutavano una moneta in modo molto diverso dal mercenario che riceveva la paga dal suo comandante.

Non dimentico poi l'insegnamento che ho avuto sul fatto che alcune città (vedi Verona) erano obbligate da un'autorità superiore (in questo caso l'imperatore) a emettere moneta con un buon intrinseco, mentre altre concorrenti (vedi Venezia) potevano tranquillamente svalutare la propria moneta. Nell'esempio qui usato il denaro di Venezia partendo da una parità con Verona in un paio di secoli si svaluta fino a valere la metà di quello veronese...

Arka


Inviato (modificato)

Si, certamente la moneta in mano a per esempio un mercante era valutata in altro modo, quindi anche l'intrinseco, ma girando per la popolazione credo che la percezione finale fosse sulla tipologia, su quanto valesse nella percezione comune dell'epoca, se una moneta era accreditata lo era facilmente poi da tutti, poi magari il titolo diminuiva, il peso pure, magari era anche imitata, contraffatta, falsificata, ma il messaggio che rappresentavano e identificava certe monete passava comunque nel popolo....

Modificato da dabbene

Inviato

Sicuramente un tema interessante.

Semplificando al massimo, forse rischiando di banalizzare, a parer mio,ritengo che il valore della moneta fosse principalmente dipendente dall'autorità che la emetteva, riconoscibile per l'impronta: altrimenti non si spiegherebbero le imitazioni o le contraffazioni che carpivano la fiducia mediante l'utilizzo della simbologia di quella determinata autorità emittente...

Resta da chiarire cosa determinasse la fiducia verso l'autorità stessa e, in questo caso, sicuramente l'intrinseco utilizzato aveva una parte.


Inviato

in otto anni di frequentazione mi pare di aver incontrato almeno un paio di volte tale argomento.

molto tempo è passato. vagamente ricordo che erano state citate le pubblicazioni di Philip Grierson e di Lucia Travaini.

Avevo anche salvato un file pdf che purtroppo è scomparso in una delle tante formattazioni...

Se qualcuno recupera la discussione non sarebbe male evidenziarla e inserirla nell'Indice di Sezione.

Awards

Supporter
Inviato

Buona Domenica

Complimenti per la discussione, tutt'altro che facile! Delle precedenti non ho memoria, ma non ho una anzianità di frequentazione del forum così elevata!

Pensandoci ho avuto un problema di interpretazione iniziale; cerco di spiegarlo, "scrivendo" a voce alta!

Siamo parlando del valore di una moneta che correva nel territorio/stato che l'aveva generata o del valore che veniva riconosciuto alla stessa moneta in ambiti più allargati, diciamo sovranazionali?

Nel primo caso, ho meno dubbi: (faccio un esempio semplicistico) se a me, contadino analfabeta, il mio signore (o chi per lui) al quale debbo cieca obbedienza, mi dice che con denaro che ha emesso la zecca del mio stato, posso comperarmi un cappone, non ho grosse alternative, quello è!

Nel secondo caso, invece, i problemi ci sono ed entrano in gioco considerazioni di diversa natura.

Se uno stato limitrofo a quello che ha emesso la moneta, si trova per necessità commerciali a doverla considerare, ha l'obbligo di dover fare delle valutazioni di congruità dell'intrinseco di quella moneta.

Mai più potrà accettare che circoli nel suo territorio una moneta che non rispetti la metrica della propria moneta; potrebbe essere costretto a rivedere la propria politica monetaria al riguardo se una moneta transnazionale, magari di pari valore nominale alla propria, ma intrinseco inferiore, cominciasse ad essere accettata dalla popolazione. La prima azione sarebbe quella di bandire quella moneta, fino ad arrivare, nei casi più estremi, ad emettere nuova moneta svalutata in sostituzione della precedente per evitare che si verifichino gli effetti della legge di Gresham.

La fiducia nella moneta e dello stato che l'ha emessa, credo, possa riferirsi solamente a situazioni di "commercio estero", cioè solo quando c'è la libertà di accettare o meno quella data moneta e dare alla stessa un valore condiviso, sia nel momento di accettarla o di cederla.

saluti

luciano


Inviato

Riguardo alle prime due affermazioni io credo che siano entrambre vere, e per nulla in contrapposizione (escludendo ovviamente il presente, quando solo l'affermazione di Fratelupo è vera, non essendoci più la parità metallica). il valore alla moneta era sicuramente basato sulla quantità di metallo prezioso rappresentata da una moneta, ma questo valore era sicuramente soggetto a variazioni in meno o in più determinate dalla fiducia del mercato (solo dalla fiducia o anche da altro?), variazioni che potevamo esser anche molto ampie.

Comunqure i dubbi che ho non riguardano questo aspetti generali, ma si riferiscono a cose più concrete, anche se forse più complesse. Ad esempio, quando si decideva di introdurre una moneta con certe caratteristiche di peso e di lega, cosa si faceva: si prendeva in considerazione il valore commerciale di un peso 'tondo' di metallo prezioso (un grano, un carato, un' oncia, una libbra?) e si immetteva nel mercato un esemplare con quella quantità, lasciando poi che le legge della domanda e dell'offerta ne fissasse il il prezzo definitivo. Oppure, al contrario, si considerava un certo prezzo teorico fisso (che so, il costo nominale di una certa tassa, come il teloneum o il ripaticum) e poi si creava una moneta che contenesse la quantità di metallo prezioso sufficiente a far si che il valore nominale rimanesse stabile nel tempo?

E, di conseguenza, quando il valore commerciale dell'oro o dell'argento aumentava cosa succedeva? Aumentava anche il valore delle monete, oppure queste uscivano dal mercato per essere tesaurizzate e qundi fuse (o tosate e poi reimmesse in circolazione), con la conseguenza che le zecche alteravano il contenuto intrinseco affinché il valore nominale rimanesse stabile. In altre parole: era il valore nominale stabilito a priori che determinava il contenuto di metallo prezioso, o, al contrario, era il contenuto di metallo prezioso che deteminava il valore nominale delle monete? Sembra soltanto una questione dell'uovo e della gallina, ma in realtà è una faccenda molto importante, che nei secoli ha diviso due intere scuole di pensiero (sostenitori della 'moneta merce' oppure fautori della 'moneta segno'), e che se oggi la moneta avesse ancora la parità metallica, sicuramente annoverebbe fra i primi la Merkel e tutto il Nord Europa (la moneta deve mai perdere di valore, non importa a quali conseguenze), e tra i secondi la Federal reserve, il Giappone etc. .

I due interventi successivi hanno toccato altri due momenti fondamentali del pensiero medievale sulla moneta: ero un strumento del 'principe', che ne poteva decidere a piacere, oppure era un qualcosa di oggettivo (e si ritorna al contenuto metallico stabile), che nessuno poteva alterare senza venir meno ai precetti della fede? ). Migliaia di pagine sono state scritte sull'argomento, ma io vorrrei riuscire ad immedesimarmi in un piccolo mercante di foleas del mercato che si teneva nella platea di Gargonza nell'aretino (da quell parti sono nato). Cosa pensava di quelle monetine, conosceva il loro valore effettivo, con che criteri accettava e rifiutava i vari pezzi. Poteva farlo?

Andreas

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Inviato

Tutto poi si basa sulle manipolazioni monetarie e sullo scollamento sempre più evidente tra valore intrinseco e valore nominale e sulle difficoltà di convertibilità della moneta.

D'altronde o si immettevano più monete con lo stesso valore nominale ma con un contenuto metallico inferiore o si aumentava per decreto il valore nominale lasciando uguale l'intrinseco.

E se poi le monete circolano con un valore nominale superiore a quello intrinseco entriamo in quelle che vengono chiamate monete - segno ed entriamo anche in una differente valutazione tra moneta piccola e moneta grossa, una per transazioni minori, per commerci minuti, l'altra per operazioni importanti, transazioni anche internazionali.

Di fatto credo rappresentassero due sistemi monetari diversi, con quello della moneta piccola che cambiava in continuazione, l'altro più stabile, con i rapporti tra i due in evoluzione.

All'interno di ogni area monetaria circolava si la moneta dominante, ma non essendo impermeabili, circolavano anche quelle di altre aree e anche queste dovevano poi seguire i movimenti della moneta che monopolizzava quell'area.


Inviato

ll valore di una moneta poteva essere dato solo dall'autorità emittente, ovvero la Repubblica o l'imperatore che poi delegavano tale diritto a comuni o feudatari di alto o basso livello che lo esercitavano per conto dell'autorità costituita. Battere moneta era cosa estremamente seria, non per niente ai falsari veniva comminata spesso la pena di morte (pensate oggi - io la proporrei per tutti coloro che impunemente spacciano monete "ântiche" false rovinando il mercato numismatico :lol: ). Littore ha ben centrato le ragioni e aggiungerei he l'autorità era legittimata dallo stesso potere che esercitava, ovvero era legittima proprio perche esercitava il potere su un territorio e poteva quindi imporre a quel territorio la propria moneta. Sul territorio potevano circolare eventualmente monete straniere che venivano ivi cambiate ma non monete di altra autorità sul medesimo territorio (tranne in periodi molto particolari in occasioni di conflitti civili etc.).

L'economia era una cosa seria, i commercianti e il popolo sapevano cosa serviva a pagare e cosa invece non sarebbe stato accettato.

L'autorità garantiva l'intrinseco, o meglio il valore della moneta - attraverso i simboli/sigilli adottati nel tondello e la legenda che riportava l'autorità e il potere in virtu' del quale la moneta poteva essere battuta.

La moneta non veniva battuta con valori di peso e/o di fino battuti a casaccio ma discendeva da una precisa scala di valori utilizzata come riferimento. In tutto il Medioevo una di questa era data dalla grande riforma di Carlo Magno che influenzo' centinaia di monetazioni per lungo e lunghissimo tempo, in INghilterra fino alle divisionali pre-conversione decimale in pratica.

Alcune autorità si trovarono a diminuire progressivamente il contenuto di fino nelle loro emissioni, pensate ai Fieschi ad esempio (o dando vita addirittura a contraffazioni da parte dell'autorità stessa) con il risultato che , essendo l'economia piu' forte , le monete cattive venivano emarginate dagli scambi soprattutto dei paesi limitrofi.

In quanto alla svalutazione ricordata sopra, i sistemi economici hanno la tendenza nel tempo a svalutare progressivamente la loro moneta (esistono anche fenomeni di rivalutazione ma sono di durata breve e ben definita ed eccetto per casi ben specifici non danno vita a rivalutazioni dell'intrinseco). Questo puo' avvenire o diminuendo il peso a parità di fino, o diminuendo il titolo di fino.

Quando due monete di eguale nominale, ma di diverso fino, si trovano in contemporanea circolazione la moneta di valore piu' basso "caccia" quella buona, che sparisce progressivamente e viene tesaurizzata. E' quanto successo, ad esempio, quando circolavano contemporaneamente, per un breve periodo di tempo , le 500 lire di carta e le 500 lire d'argento. In poco tempo la moneta d'argento, pur avendo perfettamente corso legale spari' dalla circolazione e restarono solo le 500 lire di carta a regolare gli scambi e ele transazioni di tutti i giorni.

Quello delle 500 lire di carta è anche un'ottimo esempio per mostrare come non sia lil contenuto di fino a far accettare una moneta, bensi la fiduciarietà data dall'autorità emittenete e la sua accettazione come mezzo di pagamento per la regolazione degli scambi, garantita naturalmente da un'autorità centrale.


Supporter
Inviato

Buona serata

......Ad esempio, quando si decideva di introdurre una moneta con certe caratteristiche di peso e di lega, cosa si faceva: si prendeva in considerazione il valore commerciale di un peso 'tondo' di metallo prezioso (un grano, un carato, un' oncia, una libbra?) e si immetteva nel mercato un esemplare con quella quantità, lasciando poi che le legge della domanda e dell'offerta ne fissasse il il prezzo definitivo. Oppure, al contrario, si considerava un certo prezzo teorico fisso (che so, il costo nominale di una certa tassa, come il teloneum o il ripaticum) e poi si creava una moneta che contenesse la quantità di metallo prezioso sufficiente a far si che il valore nominale rimanesse stabile nel tempo?

A mio giudizio, chi emetteva una moneta nuova, doveva porsi anzitempo il problema che questa "entrasse" in un circuito che era già esistente e quindi si armonizzasse con le monete che già c'erano; non poteva emettere monete con caratteristiche troppo differenti e lasciare che il mercato ne fissasse il prezzo, sarebbe stato pericoloso; doveva essere lo stato a "pilotare" il valore della nuova valuta, in maniera che fosse più proficua per le sue casse.

Spesso abbiamo letto che una nuova moneta era stata coniata con caratteristiche che, di volta in volta, potevano essere uguali alla "moneta di conto" ormai troppo scollata dalla realtà, oppure come multiplo di una moneta già esistente, o ancora una moneta con caratteristiche uguali a quella di uno stato limitrofo e ben presente e accettata nel proprio stato.

......E, di conseguenza, quando il valore commerciale dell'oro o dell'argento aumentava cosa succedeva? Aumentava anche il valore delle monete, oppure queste uscivano dal mercato per essere tesaurizzate e qundi fuse (o tosate e poi reimmesse in circolazione), con la conseguenza che le zecche alteravano il contenuto intrinseco affinché il valore nominale rimanesse stabile.

Credo che fosse impossibile, per uno stato medioevale, valutare a priori le conseguenze che potesse generare sul proprio numerario, non solo l'aumento del valore commerciale dell'oro e dell'argento, ma la stessa possibilità di fare affluire tali metalli alla sua zecca, se non aveva la fortuna di possedere miniere nel suo stato.

Se non aveva miniere proprie, diventava un soggetto dipendente dagli stati che le avevano o dalla sola possibilità che questi metalli gli arrivassero; epidemie, guerre, catastrofi naturali, potevano pregiudicare i rifornimenti od anche azzerarli.

Il problema si poneva quando c'era mancanza di questi metalli. La prima strada percorribile era quella di incentivarne la vendita alla zecca da parte di chi ne era in possesso, mercanti o privati, riducendo o azzerando le imposte di importazione, o le spese di saggio e di lavorazione.

Se c'era penuria di metallo da lavorare, si riducevano le spese per il pagamento delle maestranze o si riduceva proprio il numero dei lavoranti.

Esaurite queste iniziative, non restava che sospendere la coniazione di una data moneta ed emetterne una nuova con minor intrinseco, pur lasciandogli lo stesso valore nominale. Ovvio che la popolazione, in questo caso, tendeva a conservare e tesaurizzare la vecchia moneta; ho letto comunque che tante vecchie monete (quelle con maggior intrinseco) venivano tosate e rimesse in circolazione... una sorta di "fai da te" per arrivare a dare alla moneta una parità effettiva di valore rispetto al nuovo conio.

saluti

luciano


Inviato

Consiglio a chi interessato a questa tematica la lettura del saggio del compianto Jacques Le Goff "Lo sterco del diavolo" sotto titolo: il denaro nel medioevo

Ciao

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Inviato

Il problema è effettivamente complesso. vorrei scrivere alcune considerazioni tanto per schiarirmi le idee e controllare che possano essere giuste...

La prima considerazione che mi viene in mente è che, tranne le primissime emissioni, tutte le altre monete furono immesse in un mercato che usava già delle monete con un valore stabilito. Ora, inserendo una nuova moneta nel mercato, cosa e chi ne determinava il valore?

Innanzittutto lo stato, come ha scritto Numa Numa nei post precedenti. Sì, lo Stato poteva stabilire il valore di una nuova moneta là dove era abbastanza forte da imporre il proprio potere anche economico. Penso ad esempio al Regno di Federico II e a realtà politiche forti. In questi stati proprio grazie al potere dello stato veniva spesso usata la ''renovatio monetae'' con grave danno alla popolazione, ma forte lucro per il principe di turno.

Ma dove lo stato non aveva questa possibilità? Subentrava il mercato. Là dove l'autorità non aveva un potere assoluto, la nuova moneta doveva trovare un proprio spazio sul mercato e relazionarsi con le monete che già vi circolavano. In questo caso bisogna anche tener conto della legge di Gresham. Interessante da questo punto di vista l'introduzione del grosso a Venezia ad un valore tale che fece sparire i denari dal mercato.

Ma spariti quelli, quale era il valore reale del grosso?

Arka


Inviato (modificato)

io riporto dal fiorinaio una citazione che per me è ineteressante sotto quest'aspetto: non indica necessariamente quello per cui una moneta valeva nel Trecento, ma per cosa, almeno all'epoca, nell'immaginario culturale si credeva potesse conferire ad una moneta consenso o meno:

«In dicta moneta sunt plures defectus, etmaxime quia Benincasa Lapi intagliator ferrorum, propter senectutem, adeo actenuavit et ingrossavit visum plus solito, quod ferros cum quibus cuduntur floreni auri, sive intaglium et coneum ferrorum, deterioravit et ingrossavit, quod florenus auri quodammodo similatur florenis Ianuensibus; et nisi de opportuno remedio provideatur, quod dictus Benincasa in dicto officio habeat choaiutorem et sotium, qui cum eo laboret et ab eo instructus similes conios faciat, ipsos paulatim meliorando, de facili perderet florenus auri cursum suum, quem habet per universum mundum»

Dunque Benincasa, incisore vecchio e orbo della zecca fiorentina faceva conii che prducevano fiorini tanto prutti che sembravano genovini :D e questo preoccupa lo scrivente, nel 1332, il quale teme che questo possa comprometterne la stabilità sul mercato.

Questo per dire che Prima dei valori legali viene sicuramente la fiducia dello spenditore nei confronti dell'autorità emittente (che egli riconosce nel benessere della stessa autorità), come diceva il caro numa numa, ma non concordo con il ragionamento sull'intrinseco... porto ad esempio il periodo intorno alla crisi del 1346/48, subito prima dell'avvento dei grossi guelfi a Firenze, e poi anche alcuni anni dopo, in cui ricevere una somma in piccioli o in grossi (parlo di moneta reale) significava perdere o guadagnare il 25% del valore: queste monete non hanno circolato allo stesso modo, nonostante formalmente ci fosse un cambio legale tra fiorino/quattrino/grosso. la quantità di fino, e quindi il valore effettivo è tra i parametri principali che decretano la fortuna o meno delle monete, vale sempre la legge di Gresham: "moneta cattiva scaccia moneta buona". Non dimentichiamo mai i costi di coniazione, che non permettono di far rendere allo stesso modo una libbra di piccioli ed una libbra di grossi, che proporzionalmente hanno costi estremamente diversi.

Per questa ragione la fortuna di una moneta, secondo me, dipende anche da tutta una serie di variabili riguardanti la prevalenza di un commercio grosso o minuto, la presenza di società creditizie, la politica statale nei confronti della moneta stessa: se vedete per rialzarsi dalla crisi di cui parlavo prima, il Comune tenta la svalutazione del grosso, con l'arrivo del grosso guelfo invece di svalutare il fiorino (che pure poteva essere una soluzione, e che viene presa in considerazione, per quanto ce ne viene dai registri); queste scelte legislative, che riguardano comunque e sempre l'intrinseco, sono alla base, per esempio, della grande ripresa degli anni successivi.

Modificato da magdi
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