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Inviato (modificato)

Pensare che nei primi mesi, Onoria cara, io provai una certa stizza tanto nei tuoi riguardi, quanto verso l’augusta Galla Placidia! E’ che ero così poco consapevole e vedevo ogni cosa solamente con gli occhi dell’imperatore Valentiniano… mi sentivo così orgogliosa di essere la sua sposa e grazie a lui imperatrice… Che altro può avere una donna educata a corte? Non solo ci è precluso di mostrare qualunque emozione, di essere sempre ieraticamente distaccati da tutti i nostri sudditi, di parlare senza mai degnare di uno sguardo il nostro interlocutore che a sua volta deve tenere gli occhi rivolti a terra, che così è imposto dalla rigida etichetta di palazzo. Ma così facendo ci viene precluso persino di provare dei sentimenti. L’amore? Cupido? Sono artifizi dell’arte, buoni per la commedia. Quale augusta ha mai provato le gioie dell’amore? Quale augusta ha mai amato? Quale augusta è mai stata amata?

Sbaglio: Galla Placidia amò Ataulfo riamata e il ricordo di questa sua grande storia d’amore e di passione l’accompagnò durante tutta la sua vita e mise nel suo sguardo una calda luce che solo in ella ebbi occasione di vedere. Forse amò e fu riamata Onoria? Pulcheria? Mia madre Atenaide? Le mie figliole? Io stessa?

Ero molto confusa, allora.

Crebbi cosciente che avrei un giorno sposato l’imperatore di Roma. Sin dai primi ricordi della mia infanzia mi prepararono a essere la sua sposa, e non di altri, ad essere l’imperatrice di Roma e non altrimenti. Nella III indizione, essendo consoli Teodosio e Valentiniano (anno Domini 435) io entrai nel mio tredicesimo anno d’età e dunque si compiva quanto stabilito dalla legge per contrarre matrimonio. Valentiniano, dal canto suo, che già da un anno era uscito dalla tutoria dell’augusta Galla Placidia, principiò a reclamare il rispetto delle promesse nozze. Ma io vedevo quanto l’imperatore Teodosio, padre mio, e con lui la madre mia Atenaide, dubitassero di rispettare il patto a suo tempo stipulato. E anche l’augusta Pulcheria dubitava e con loro dava mostra di avere poca stima per il mio promesso sposo. Fu allora che iniziarono a considerare la possibilità ch’io convogliassi ad altre nozze, che a me apparivano ben meno nobili. Io volevo essere sposa di Valentiniano e imperatrice di Roma e non altrimenti, anche se non avevo nessuna possibilità neppure di manifestare il mio pensiero. Si parlava di dinastia, si discuteva se giuridicamente un mio eventuale sposo che non fosse discendente del casato di Teodosio, il primo a fregiarsi di questo nome, potesse o meno considerarsi accettabile nell’aspetto dinastico solo per aver contratto matrimonio con me.

Ora lo comprendo bene: erano tutti molto delusi dal comportamento indegno dell’augusto Valentiniano, dalla sua nulla capacità di governo, dal suo darsi a turpi vizi, e già cercavano come trovargli un sostituto nel trono romano dandogli me in sposa. Tre lustri più tardi appoggeranno il gesto di mia cognata Onoria di contrarre matrimonio con Attila e avere un figlio che potesse essere incoronato imperatore: l’augusta Onoria sarebbe stata la reggente e Attila il suo braccio armato.

L’augusta Onoria sottovalutava l’imperatore fratello suo: intelligente non lo era, ma sì era furbo, e ben comprese il disegno che si andava tessendo presso la corte di Costantinopoli.

Ed ecco che quasi inatteso giunse con un largo seguito reclamando la mia mano e distruggendo nel nascere qualunque altro ordito, ben conscio che si tramava per destituirlo dal trono romano.

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Solido coniato dalla zecca di Ravenna subito dopo le nozze tra Valentiniano III e Licinia Eudossia (RIC 2023)

Subito mi piacque il mio sposo: mostrava interesse per quanto io dicevo, o fingeva di mostrarlo. Ma soprattutto mi piaceva il suo anticonformismo, l’indifferenza per la fede, l’intolleranza per l’etichetta. Mi pareva finalmente di respirare la libertà dopo tanti anni di oppressione.

Poi mi resi conto che era tutta una finzione. La mia erudizione l’annoiava, così come l’annoiava l’arte del buon governo e lasciava ben volentieri decisioni d’importanza nelle infide mani del generale Ezio. Anticonformismo, indifferenza, intolleranza non erano frutto di un desiderio di vera libertà, ma di piena volontà di turpe libertinaggio. Bastarono pochi mesi per vederlo come era davvero e perdere per lui ogni stima.

Inizialmente provavo stizza per l’augusta Galla Placidia che mi pareva volesse mantenere in vigore la sua lunga reggenza; per l’augusta Onoria che manifestava ad ogni occasione arrogante disprezzo per l’imperatore – conscia della tua superiorità intellettuale, sei sempre stata arrogante, cara Onoria, non me lo vorrai negare! – e si rivolgeva a lui tenendo ben alta la fronte e guardandolo dritto negli occhi.

Ma poi, quando lo conobbi meglio, la stizza cedette il passo alla complicità”.

Modificato da antvwaIa

Inviato

Sono ancora io, Licinia Eudossia.

Non vorrei che voi v’immaginaste che nel Sacro Palazzo la vita di una bambina non ancora assunta alla dignità augustale, fosse una vita oziosa, trascorsa a farsi servire e a discorrere con le amiche nelle piccole terme private del palazzo. Forse un secolo prima era così, non lo so: ma quando io ero bambina le cose erano molto diverse. Non nego di aver avuto gioielli sfarzosi da indossare nelle occasioni più formali; tessuti di seta che giungevano da terre molto lontane, forse mitiche, portate sino alla frontiera dell’impero da uomini con gli occhi obliqui e la pelle giallastra, che giungevano dall’oriente con lunghe carovane di cammelli; ancelle e servette che mi vestivano, mi pettinavano, mi lavavano con acqua tiepida e profumata; tutto questo non lo nego. Ma non vivevamo nella bambagia passando da un festino all’altro, disattente al mondo intero e preoccupate solamente di noi stesse.

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Il palazzo imperiale di Costantinopoli al tempo di Teodosio II, detto Sacrum Palatium (Ιερό Παλάτιο).

A palazzo sin da bambina la sveglia era all’alba: il tempo che le ancelle curassero il mio aspetto, solamente per quanto essenziale, e poi tutta la famiglia imperiale con i dignitari di Corte di maggiore importanza si riuniva nella cappella privata per la celebrazione delle preci mattinali. Anche se cascavo dal sonno dovevo tuttavia stare attenta e rispondere a tono alla liturgia quotidiana. Poi veniva un frugale pasto con frutta, pane bianco e formaggio. Gran parte della giornata, quindi, era dedicata allo studio con i precettori di corte: la grammatica, il latino, l’astronomia e l’uso dell’abaco; ma soprattutto la storia degli imperatori che precedettero il nostro, e quella degli altri popoli del limes, anche se barbari, e l’attento studio delle Sacre Scritture onde non smarrire mai la vera Fede, e la filosofia aristotelica; e poi ancora vi era la tessitura e la musica, lo studio della retorica e la declamazione delle odi; infine l’apprendimento dei cerimoniali di corte e dell’etichetta da rispettarsi per ogni occasione. A metà pomeriggio c’era la preghiera serale con la benedizione cantata, che poteva protrarsi anche molto a lungo nelle celebrazioni festive.

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Teodosio I si affaccia dalla tribuna de kathisma per assistere alle corse dell’ippodromo.

A sera ci ritrovavamo tutti insieme nel triclinio per un pasto con carni speziate e caramellate con mandorle e miele, pesci del Bosforo ripieni di menta, frutti esotici che accompagnavano carni altrettanto esotiche: ma questo avveniva solamente quando si celebrava un visita importante, per esempio giungeva a Corte il nostro ambasciatore Prisco di Panion, che ci narrava gli usi di gente barbara e lontana, oppure un poeta che declamava un suo recente poema epico o una ode che esaltava la vera Fede. Ma non erano frequenti queste occasioni, e allora anche il pasto serale era frugale e dai sapori semplici, seppur abbondante. Al mercoledì, poi, si osservava il sacrificio in memoria della passione del Cristo e allora le porzioni erano piccole e insaporite non con spezie, ma con erbe amare dal sapore poco gradevole.

Ognuno di noi è allo stesso tempo tante persone. E’ ciò che è, ma anche ciò che crede di essere, ciò che vuol far credere agli altri di essere e ciò che gli altri credono che uno sia. Insomma, in ognuno di noi esiste una grande dicotomia.

(Sento Antvwala che mi domanda se ho letto Pirandello, se sto citando il “così è, se vi pare”, oppure “uno, nessuno, centomila”. Non so proprio chi sia questo Pirandello, dal nome così barbarico: forse un allievo della scuola di Anassimandro? Comunque non ho letto nulla di suo, né l’ho mai sentito nominare).

Immaginate questa dicotomia, questa pluricotomia, riferita non al singolo individuo, ma a tutta la Corte.

In pubblico, il Sacrum Palatium doveva innanzitutto meravigliare. Ecco che c’erano mille giochi d’acqua; nei giardini, sui rami, cinguettavano uccelli d’oro dal prezioso meccanismo interno che faceva loro muovere le ali; nella sala del trono, questo veniva sollevato lentamente e il sovrano assiso sembrava involarsi verso il cielo. Per il volgo, che non doveva mai rivolgere gli occhi verso le nostre sacre persone, l’imperatore era tale per volontà di Dio: in qualche misura, l’augusto e tutta la sua famiglia partecipavano della natura divina e quindi erano sacri e come tali dovevano essere venerati. L’adorazione è riservata al solo Dio vero, ma la venerazione spetta alla famiglia imperiale tutta. Ecco perché in pubblico il nostro sguardo doveva sempre essere rivolto lontano, dritto davanti a noi e leggermente rivolto al cielo, non all’interlocutore, per manifestargli che noi vedevamo ben più in là delle sue parole.

(Solo mia cognata, l’augusta Giusta Grata Onoria, aveva la sfacciataggine di guardare dritto negli occhi l’imperatore Valentiniano, e lo faceva con un sorriso nel quale traspariva tutto il suo sarcasmo. Valentiniano provava per lei un odio viscerale, ma la temeva; Onoria provava per lui un disprezzo viscerale, ma non lo temeva).

Nel privato, invece, la nostra vita era quasi monacale: scandita dall’accorrere alla cappella privata per le preghiere, dai canti monocordi dei monaci, dal silenzio interrotto solo dal fruscio delle vesti. Non solo ai servi, alle ancelle e agli eunuchi era proibito parlare se non quando interrogati, ma anche a noi membri della sacra famiglia imperiale l’etichetta di corte esigeva di mantenere sempre sommesso il tono di voce, né ci era permesso di ridere, che risum abundat in ore stultorum. Comprendete ora quanto fosse opprimente per una bambina crescere a Corte, in questo ambiente alienato e alienante, priva di ogni gesto di vero affetto, senza mai conoscere un sentimento ma vivendo fin dalla più tenera infanzia una recitazione ininterrotta, indossando cento maschere che doveva di volta in volta cambiare secondo quanto richiedesse la parte del momento? Che altro poteva desiderare, se non un matrimonio imperiale? Forse che le era stato insegnato che è possibile desiderare altre cose? Ad esempio, l’amore?

Quindi perché stupirvi se, ancora adolescente, nel comportamento del mio augusto marito non m’avvidi subito che vi era vizio e stupidità, ma invece mi parve scorgere anticonformismo e libertà?

Io era un’allieva diligente: erano contenti di me i precettori ed era contento di me il padre mio, l’augusto Teodosio, che spesso m’interrogava e di questo e di quello, e trovava il tempo di spiegarmi le novellae degli antichi imperatori e quanto fosse importante il codice giuridico nel quale le raccoglieva tutte ben suddivise per tema, e che nessuno poteva essere al di sopra delle leggi, neppure l’imperatore. Di tutti i precettori, era il padre mio quello più esigente, ma raramente accadde ch’io gli diedi disgusto. Amai sempre lo studio, soprattutto la storia degli antichi e quella del nostro tempo, e quanto concerneva l’arte del buon governo. E fu proprio la mia cultura e la mia preparazione, anche sull’arte della corretta gestione della res publica, che ben presto mi aprirono gli occhi, mi fecero vedere l’imperatore Valentiniano per quello che davvero era, e mi unirono sempre di più all’augusta Onoria, della quale invidiavo la sua sfrontatezza che io non avrei mai osato mostrare”.

Antvwala


Inviato

Certamente che arrivando dalla grandiosità della corte di Costantinopoli, quella di Ravenna mi parve a mala pena degna di essere un edificio aggiunto al margine della prima. La superficialità di chi era appena una ragazzina!

In realtà, la vita alla corte di Ravenna non era molto differente da quella che si svolgeva nella capitale dell’Oriente, anche se priva di quella grandiosità e magnificenza. L’augusta Galla Placidia assomigliava molto nel pensiero e nel comportamento austero e ieratico a Pulcheria, la sorella del padre mio, Teodosio. Tuttavia era meno impositiva: un po’ perché l’augusto Valentiniano si faceva beffe della vera Fede, in privato ma mai in pubblico, e un po’ perché mia cognata Onoria, pur mostrando rispetto, con la sua abituale schiettezza non nascondeva quanto poco credito desse alle Sacre Scritture, che furono rivelate e ispirate agli uomini per opera dello Spirito Santo. Io, dal canto mio, dopo quel primo momento nel quale godevo di un’inattesa liberazione dall’oppressione del formalismo di corte grazie al comportamento del mio sposo, ben presto mi adeguai a quanto l’augusta Galla Placidia desiderava da me. Sia in quanto io credo nella verità testimoniata dal Cristo con la sua morte e risurrezione, sia perché è proprio del mio carattere mettere in discussione quanto stabilito.

Io sono una persona che sta sempre in disparte e passo quasi inavvertita ai più. Tuttavia osservo ogni cosa con molta attenzione: peso le parole, valuto gli eventi e i comportamenti, anche se poi tengo per me i miei pensieri. Solamente con Onoria, che ben presto mi fu sorella e non cognata, parlavo liberamente e le confidavo i miei dubbi e i miei disagi.

L’augusta Galla Placidia nel suo modo di rapportarsi con Onoria era prima di ogni altra cosa madre e non si lasciava imprigionare da quanto prescritto dall’etichetta di corte; non passò molto tempo che anche con me trattava nello stesso modo come con sua figlia: forse perché eravamo quasi sempre insieme e mostravano di essere così bene affiatate e di provare sempre molto piacere l’una per l’altra.

Entrata in confidenza, le chiesi maggiori ragguagli su come fosse stata davvero la sua vita con Ataulfo, quando fu regina dei visigoti, e su come fossero quei barbari e se davvero ora fossero civilizzati e degni di essere foederati dall’impero, anche se agivano più spesso da nemici che da foederati. L’augusta Galla Placidia non ricusò parlarne a lungo, e di ogni aspetto di quanto conosciuto e vissuto in quegli anni: di quanto fossero cambiati i costumi di quei barbari che ora erano davvero atti a far parte dell’impero se solo avessero deposto il loro spirito battagliero rivolto contro i romani e avessero abbandonato l’errore dell’eresia ariana, abbracciando la vera Fede in Cristo. Mi parlò delle loro leggi, che dalle nostre stesse traggono fonte; della virtù delle loro donne, della generosità che mostrano verso i più deboli del loro popolo e del grande rispetto che hanno per gli anziani e la saggezza della loro chioma nivea; di come Ataulfo credesse davvero nella possibilità di fondere in un solo popolo goti e romani di Gallia e Hispania e per aver voluto la pace fosse stato ucciso a tradimento dal principe Sigerico, che poi gli successe sul trono e che tanto odio nutriva verso i romani.

Fu sempre restia, invece, a parlare del suo rapporto con Ataulfo, figlio di Alarico e loro sovrano, anche se dal suo stesso sguardo traspariva quanto lo avesse amato e quanto avesse pianto quel figlio che ebbero e che morì in così tenera età: Teodosio fu il suo nome, e quando lo nominava mi pareva di leggere nei suoi occhi il rimpianto per colui che avrebbe ora potuto sedere sul trono dell’Occidente al posto di quel figlio che lo occupava in modo così poco degno. Da quelle scarne parole che di quando in quando diceva – ma quante più cose dicevano i suoi occhi! – ben m’avvidi di quanto fosse grande l’amore vissuto con Ataulfo: un amore dato e ricevuto così grande che il suo ricordo bastava a dare un senso compiuto alla sua stessa vita”.

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Moneta d’argento della zecca di Trier, attribuita a Ataulfo (1,80 g, collezione ATR).

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Moneta d’argento della zecca di Narbonne, attribuita a Alarico (0,92 g, collezione ATR).

Perdonate se interrompo la narrazione di Licinia Eudossia, ma vorrei fare una piccola escursione nella numismatica.

Noi parliamo di solidi e di denari, di centennionali e di follis, di nummi e di silique, e di tante altre unità di conto del denaro. Dobbiamo tuttavia tenere ben presente che quasi tutte queste definizioni sono state date dai numismatici moderni e non corrispondono in assoluto a quelle date nell’antichità da coloro che, di quei dischetti metallici, facevano davvero uso.

Nel V secolo di tutte quelle definizioni, le uniche davvero reali erano quella di “solido” e di “nummo”, entrambi definiti da una novella (legge) di Teodosio I, poi ribadita da Valentiniano III, nella loro natura metallica, oro e bronzo rispettivamente, nel peso che è pari a 1/72 di libbra latina per il solido (4,5 g) e a uno scrupulum per il nummo (1,2 g), e nel valore reciproco che era pari a 7.200 nummi per un solido.

La siliqua era una unità di peso dal significato ambiguo, in quanto a volte pare usata in senso assoluto, ed altre quale frazione dell’aureo. Il fatto di definire siliqua quella moneta d’argento del IV e V secolo con un peso compreso tra 1,5 e 2,5 grammi è del tutto arbitrario e corrisponde solamente a una definizione della numismatica moderna.

Il follis, infine individua un semplice sacchetto che contiene un numero conosciuto di monete apposto sopra un sigillo che chiude il sacchetto stesso. Nella letteratura antica appaiono riferimenti al follis aureus e al follis argenteus, oltre che, ovviamente, a quello il cui contenuto è costituito da monete di bronzo.

Anche il fatto che in epoca bizantina chiamiamo follis il multiplo da 40 nummi, è una convenzione della numismatica moderna.

A questo proposito, segnalo l’ottimo articolo di Filippo Carlà, Il sistema monetario in età tardo antica: spunti per una revisione.

Antvwala


Inviato

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Non riuscivo più a trovarla, ma ecco l'immagine di 4 "follis" come appare in una miniatura del codice medioevale Notitia dignitatum: insignia comitis largitionum:


Inviato (modificato)

Scusa, augusta Licinia Eudossia: non volevo interromperti ma visto che avevo illustrato le tue parole con un paio di monetine d’argento, evitando di chiamarle rispettivamente “siliqua” e “mezza siliqua” mi sentivo un po’ in obbligo di spiegare perché avessi evitato di usare quei termini.

In quanto al fatto di rendermi antipatico… ebbene, è vero, ci riesco con grandissima facilità, senza fare nessuno sforzo, è proprio una mia seconda natura, come hanno giustamente fatto notare alcuni lamonetiani a Verona commentando qualche mio post …

D’altra parte, cara Licinia Eudossia (non ho usato il titolo che ti spetta in senso di affetto, non per mancarti di rispetto) pensa che già da ragazzino ero notevolmente antipatico, tanto che all’Università ero soprannominato “collar de trenes” (collana di treni).

Già, è vero, non ti è molto chiaro cosa sia un treno … un enorme cavallo meccanico che ne trascina seco tanti altri. Come i leoni meccanici della corte di Costantinopoli? Sì, ma molto più rumoroso e meno bello …

Comunque continua a narrarci la tua vita, augusta Licinia Eudossia: ti prometto che non t’interromperò più. Ti faccio solo presente che gli amici che ti stanno ascoltando (“leggendo”, per essere preciso), sono in attesa di sapere se tu quel famoso messaggio a Genserico chiedendogli di venire a Roma a liberarti da Petronio Massimo, l’hai o non l’hai spedito.

Mi stai dicendo che non puoi rispondere così su due piedi, che prima devi farci capire come si arrivò a quel terribile momento, a quella decisione terribile, e che per farcelo capire devi spiegarci per bene tutto ciò che avvenne prima di quel momento? E’ così?

Va bene, allora, continua con la tua narrazione e da parte nostra non mostreremo impazienza per giungere a quella missiva e a quella scelta che poi, per il resto della tua vita ti condusse a chiederti se avevi preso o meno la decisione giusta.

Valentiniano, il mio augusto marito, come dovetti accorgermi ben presto era poco interessato agli affari del governo della res publica e lasciava tali incombenze alla madre sua, l’augusta Galla Placidia. Lei scriveva le novellae che diventavano leggi per i due imperi, ma era lui che appariva in calce alle stesse. All’imperatore Valentiniano andava assai bene che fosse la madre sua a governare, purché fosse lui chi appariva con le redini in mano. Per fortuna! Che se avesse governato davvero lui non so proprio come sarebbero andate le cose, ma credo che proprio nel peggiore dei modi.

Nei primi tempi, lo riconosco, fui coinvolta molto spesso quando l’imperatore riceveva visite illustri e, nella mia ingenuità, credetti che fosse perché stimava la mia intelligenza: ma poi mi resi conto che lo fece solo per sminuire il ruolo dell’augusta Galla Placidia. A volte lo faceva anche in modo davvero puerile, per esempio facendo togliere dalle monete il PLA davanti al suo nome.

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Nummo di Valentiniano III con il rovescio della Victoria Avg. Prima del 434, anno in cui l’imperatore raggiunge la maggior età, la legenda al dritto è DN PLA VALENTINIANUS PF AVG (a sinistra, RIC 2118-20, nummo molto raro), mentre dopo tale anno si riduce a DN VALENTINIANVS PF AVG (a destra, Ric 2121, uno dei più comuni nummi di Valentiniano III). Invece la legenda resta invariata nei solidi.

Ella, dal canto suo, era sì delusa della scarsa capacità del figlio, e soprattutto della sua viziosità immorale, ma era anche soddisfatta che in buona misura il potere imperiale continuava a essere nelle sue mani, anche se non più in modo manifesto. Molte decisioni davvero strategiche fu lei a prenderle, per esempio come affrontare la trattativa con i vandali nel 435, quando in cambio del riconoscimento della parte occidentale della Provincia d’Africa riconobbero l’autorità dell’imperatore restandoci quali foederati. Quando poi, quattro anni più tardi, dieci dopo il loro ingresso in Africa, Genserico ruppe i patti e colse di sorpresa Cartagine indifesa, conquistandola quasi senza trovare resistenza, il generale Ezio criticò senza ritegno l’augusta Galla Placidia.

Già, il generale Ezio: fu sempre una spina nel fianco dell’imperatrice.

Nell’estate della VI indizione, essendo consoli Teodosio e Fausto (anno Domini 438), nacque la mia primogenita, Eudocia, e l’imperatore celebrò la nascita attribuendomi il titolo di augusta. Tre anni più tardi, nella IX indizione, essendo Ciro console (anno Domini 441), ebbi la mia seconda figlia, Placidia. Fu un parto molto travagliato, dal quale non credetti uscirne con vita, ne che il fato risparmiasse la mia figliola. Invece la volontà divina fu che entrambe sopravvivessimo e che la piccola Eudocia non fosse orfana anzitempo. Fu chiaro – così dissero tutti i medici che furono interpellati – che non avrei avuto altra possibilità di essere madre e di dare un erede maschio all’impero d’Occidente. Questa notizia costernò il padre mio, l’augusto Teodosio; invece fu accolta con distacco, addirittura con apparente indifferenza dall’imperatore Valentiniano e io fui contenta di non averlo deluso. Solo più avanti compresi che la sua apparente indifferenza nascondeva una segreta soddisfazione: che non ci fosse un figlio maschio che desse la possibilità all’anziano augusto dell’Oriente di allontanarlo dal trono, dandoselo al suo figliuolo e facendo di me la sua reggente.

Questo avrebbe poi spiegato molte sue decisioni: anche l’aver promesso la mia piccola Eudocia in sposa al barbaro figlio di Genserico”.

Modificato da antvwaIa

Inviato

Come colei che resta sempre in disparte, ma che tutto ascolta e molto comprende, così si è descritta Licinia Eudossia. Io che la conosco bene e che imparai ad amarla quasi fosse una seconda figlia, non posso che ammirare quanto bene si è descritta e quanto dimostra di conoscere sé stessa. E conoscere sé stessi è impresa assai difficile.

Ma, vi chiedo venia, non mi sono presentata: sono l’augusta Galla Placidia.

Mia nuora dice che nel mio sguardo vede che ancora vi è la luce del mio amore per Ataulfo. Non nego che l’amai moltissimo e che da lui fui moltissimo riamata. Lo amo ancora? No. Ora è solo un bellissimo ricordo, il più bel ricordo della mia vita, questo sì. Lui fu ucciso e io fui disprezzata dal suo assassino, Sigerico, e da colui che assassinò l’assassino, Vallia. Per Vallia fui semplicemente una merce da vendere a caro prezzo al fratellastro mio, l’imperatore Onorio. Fu così che dopo sei anni tra i visigoti, prima ostaggio, poi regina e infine incomoda presenza, feci ritorno nell’impero e alla corte.

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Flavio Costanzo III. A sinistra, siliqua (Manca nel RIC, da Lanz); a destra, solido (RIC 1325).

Flavio Costanzo fu il generale che ottenne dai visigoti la mia restituzione e di lui mi fece serva il mio fratellastro imperatore: non per riconoscenza verso il suo generale, né per maritare me, non più giovane né vergine, ma per poter più facilmente soddisfare con il mio corpo le sue turpi voglie incestuose.

Mai amai il marito mio, al quale l’imperatore volle conferire il titolo di augusto. Che errore fu tale conferimento! Prima Flavio Costanzo fu un generale retto, restituì la Gallia e l’Hispania all’impero e non mostrava avidità e desiderio di ricchezza. Poi l’augusto Costanzo fu assai diverso e mostrò quanto il suo cuore bramasse ogni potere. Eppure – con voi voglio essere sincera – la mia influenza non fu estranea al suo cambiamento. Regina fui, e lo fui davvero, che Ataulfo sempre si rivolgeva al mio senno per districarsi nell’arte del governo, né mai prese decisione alcuna senza prima sentire quanto io avessi a dirgli, e quante ricchezze furono portate via dalla Caput Mundi da Alarico, a me tornarono in dono dal figlio suo a onorare la mia persona.

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Solido di Valentiniano III, attribuito alla zecca di Tessalonica in occasione del matrimonio di Valentiniano III (Manca dal RIC, tessalonica 437 ca, riferimento asta NAC n. 23, 2003, lotto 1718 4,46g).

Amo il potere, lo confesso, più di ogni altra cosa. Fui regina, ora voglio essere imperatrice, né mi basta il titolo di augusta e mi compiaccio della limitata capacità di governo dell’augusto Valentiniano poiché mi consente, senza apparir tale, d’essere sempre io la reggente. E se per breve tempo la sua giovanissima sposa Licinia Eudossia sedette accanto a lui nella sala del trono, lo fece per umiliare me, madre sua, e dare dimostrazione di essere lui e lui solo l’imperatore. Ma non s’avvide mai di quanto Licinia Eudossia potesse essere una sua valida spalla, e presto si stancò della sua bambolina e io tornai ad essere quella reggente che mai cessai d’essere.

Quanto poco gradiva l’augusto Costanzo quell’onore che gli fu concesso quando sulle sue spalle fu posta la porpora! Amava la caccia e i giochi, e andare liberamente ovunque gli piacesse: e tosto comprese quale schiavitù comportasse l’essere un augusto e quali terribili catene si celassero dietro l’etichetta di corte e le sue inesorabili regole. Durante solo sette mesi l’augusto marito mio fu imperatore: poi abbandonò il regno dei vivi e lasciò me vedova in balia del mio degenerato fratellastro, con la figlia mia, Giusta Grata Onoria, che da poco tempo non poneva più la sua tenera bocca sul mio seno rigonfio di latte sostituita da quella del suo minore fratello, Valentiniano, il cui segreto mai fu conosciuto dall’augusto marito mio. Erano i primi giorni del mese di settembre della IV indizione, essendo consoli Eustachio e Agricola (Anno Domini 421)”.


Inviato (modificato)

“Parla poco l’augusta Licinia Eudossia: l’etichetta di corte le impone di far sì che la sua voce mai vada oltre l’uscio della stanza in cui soggiorna. Ma tutto ascolta. Così come tutto ascolta l’ancella Creusa, che in quanto muta non può parlare neppur se lo volesse. Ella è il mio orecchio nella sala del banchetto della corte vandala; e talvolta lo è anche nel talamo di Genserico, quando la sua mente è annebbiata dal vino della Numidia e allora non esista a dire ciò che non dovrebbe essere proferito davanti a una persona estranea: ma che può importare? Creusa è solo una donna e dunque può parlare davanti a lei senza troppo ritegno. Ma già avremo tempo per parlar di Creusa che così preziosa ci fu per svelare il disegno del vandalo.

Parla poco l’augusta Licinia Eudossia e sa serbare assai bene la discrezione di quanto ascolta. Per questo a lei, e a lei soltanto, potei confidare l’immondo segreto che seppe mantenere tale e grazie al quale poté essere impedito all’imperatore Valentiniano di porre fine anzitempo alla vita di sua sorella Onoria.

Ascoltando le sue parole m’avvedo che ben comprese la ritrosia dell’augusto marito suo ad avere quel figlio maschio ch’ei temeva potesse un giorno insidiargli il trono. Sapendo quanto poco era amato e ancor meno stimato dalla Corte dell’impero d’Oriente, sempre temette l’augusto Valentiniano che l’imperatore Teodosio, cugino suo, tramasse per privarlo di quel trono che pure a lui dovette. Si rallegrava, dunque, che la sposa sua Licinia Eudossia non avesse avuto quel figlio maschio che tanto auspicavano nel sacro palazzo che s’affaccia al Bosforo temendo che se fosse giunto esso avrebbe dato quella continuità alla dinastia che voleva l’augusto cugino suo e quindi modo di spodestarlo dal trono grazie al suo stesso figlio.

Pure temeva che un eventuale figlio delle sue stesse figlie potesse servire a tal disegno: ecco perché non disdegnò promettere Eudocia al figlio del vandalo ben sapendo che mai la romana stirpe avrebbe accettato per imperatore un nipote del re Genserico. E per ciò stesso non impedì che Placidia andasse in sposa al ricchissimo Flavio Anicio Olibrio, esponente della più potente famiglia dei due imperi, purché non fosse lui a raggiungere la sposa a Roma, ma fosse la sposa a installarsi nel suo palazzo a Costantinopoli. Non lo comprese il generale Ezio, che pure era così accorto nelle cose della politica e ben conosceva l’imperatore, quando pretese di divenirne genero, ciò che gli costò la vita. Con la propria mano impugnò il ferro, l’imperatore Valentiniano, non perché ritenesse disdicevole che il patricius divenisse sposo di Eudocia, rompendo la promessa pattata con Unerico, ma perché temeva che il generale potesse convertirsi nel gladio del suo proprio figlio per spodestarlo dal trono e insediare il suo nipote, facendo della sua propria figlia la reggente.

Quanto temette l’imperatore Valentiniano quel figlio imprudentemente partorito dalla sorella sua Giusta Grata Onoria! Non la rottura del voto di castità fu la ragione della sua ira, ma la presenza di quel pargolo al quale Onoria impose il nome più temuto, Teodosio, ben sapendo quanto la sorella sua fosse tenuta in grande stima presso la Corte di Costantinopoli e che tale fanciullo sarebbe stato così tanto d’aiuto ai disegni volti a togliergli quel trono che tanto amava. E ben comprese che fu per la medesima ragione che l’augusto Teodosio perorò quel matrimonio tra Giusta Grata Onoria e il sovrano unno che avrebbe trasformato Attila nel patricius di Roma e l’eventuale figlio maschio di sua sorella nell’erede al trono che lo avrebbe spodestato avendo ancora il latte materno sulle sue labbra.

Di tutto ciò ben m’avvedo di quanto ne fosse consapevole l’accorta augusta Licinia Eudossia.

Voleva serbare il trono l’imperatore Valentiniano, non perché amasse il potere per il potere, come io lo bramavo, ma perché il potere gli dava immenso spazio e la necessaria autorità per godere dei suoi turpi vizi, insidiando le spose dei senatori e degli alti dignitari della Corte, giocandosi ai dadi fortune enormi e gioielli preziosi e palazzi suntuoso, e comprando ogni assoluzione ai suoi peccati, ora edificando una chiesa, ora approvando una legge che garantisse un nuovo privilegio fiscale al vescovo di Roma, ora perseguendo l’eretico o il giudeo.

L’infido Ezio, generale celebrato solamente nei panegirici del poetastro Merobaudes, membro della vil razza dannata dei cortigiani. Averlo ucciso, fu l’unica prova d’intelligenza del figlio mio: ma in quello l’imperatore Valentiniano fece nel modo sbagliato la cosa giusta. Ucciderlo di sua propria mano con un pugnale! E pure davanti ai suoi servi! Sarebbe stato facile assoldare un sicario anche a Corte, o durante un banchetto far porre nascostamente nel suo boccale poche gocce del succo della mandragora e far certificare dal medico di Palazzo che la morte fu causata dal cedimento del suo cuore. E poi pubblicamente piangerne la morte, celebrarne i trionfi inesistenti, coniare un aureo per celebrarne il nome… e invece – stolto figlio mio – lo fece di sua propria mano…

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Contorniato in nome di Valentiniano III. Nella legenda al rovescio è riportato il nome di Bonifatius e in esergo una lunga legenda scritta tutta con monogrammi (Rif. Alfoldi 462.2, 38,17g, citato da Sarah Dawson, Social Memory in fifth century Rome, University of Wisconsin, 2004).

Ezio l’infido, che giunse in aiuto dell’usurpatore Giovanni, ormai sconfitto dal mio esercito e, annusata la direzione del vento, cambiò prontamente di campo. Ezio l’infido che fece a me credere che il fido Bonifacio volesse tradirmi e a lui credere che io, a lui debitrice del suo favore, volessi giustiziarlo. Ezio l’infido sconfitto da Bonifacio sul campo di battaglia e por ramingo, ma vincitore per la gangrena sorta dalla modesta ferita inflitta al mio campione. Ezio l’infido che celebrò il trionfo ai campi Catalaunici, vittoria che fu del visigoto Teodorico. Ezio l’infido che fece credere che Attila fuggisse dall’Italia timoroso del sopravvenire del suo esercito e soggiogata dal monito del vescovo di Roma, quando non vi era esercito alcuno né Attila ricevette papa Leone e si ritirò poiché l’imperatore lo colmò d’oro purché rinunciasse a proseguire nella sua guerra.

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Nummo probabilmente di coniazione maura, impropriamente spesso definito “proto-vandalo” ed erroneamente interpretate quale vittoria imitativa. La figura sul rovescio della moneta ha le sembianze di Anubis e, dunque, non può trattarsi di coniazione né vandala, né di altra popolazione cristiana, ma proprio di una nazione pagana e legata alle antiche divinità egizie, qual’erano i mauri.

Poco comprendeva l’imperatore Valentiniano degli affari della politica ed era facile a ingannar sé stesso.

Io credetti che un braccio di profondo mare fosse sufficiente a riparare la Provincia d’Africa, che alimentava le bocche affamate di tutto l’Occidente, dalla furia del barbaro. Invece l’astuto Genserico trovò aiuto nelle maestranze romane che tradirono per desiderio di vendetta il proprio sangue e la propria stirpe e irruppero inaspettatamente nella Provincia sguarnita e con le poche milizie impegnate nella guerra contro il mauro. Volle far credere, l’infido Ezio, che Genserico giunse invitato dal comes Bonifacio, ma questa è un’altra delle sue infingardie. Questo successe durante l’XI indizione, essendo consoli Felice e Tauro (anno Domini 428)”.

Modificato da antvwaIa

Inviato

Ora sono io che vi parlo, Licinia Eudossia.

Erano trascorsi appena un anno dalla nascita della mia prima figliuola, Eudocia, e da quando ero stata onorata del titolo di augusta, quando giunse a corte l’inattesa notizia che Genserico aveva tradito quanto pattuito durante la seconda indizione, essendo consoli Aspar e Ariobindo (anno Domini 434), occupando Cartagine, quasi senza trovare resistenza. S’impadronì, così, non solo della città, ma anche di gran parte della flotta del nostro impero e fu non solo padrone indiscusso della più ricca Provincia dell’impero d’Occidente, ma anche padrone della parte occidentale del Mare Nostrum.

Grande fu lo sconforto nelle due Corti, non potendo intervenire l’esercito del padre mio, l’augusto Teodosio, impegnato nella difesa della frontiera balcanica, minacciata dall’unno, e di quella orientale, minacciata dal sassanide. Pur giovanissima, ero solamente nel mio diciassettesimo anno d’età, tuttavia m’avvidi della portata di quanto occorso. Ne fu cosciente anche l’imperatore Valentiniano, ma ciò non bastò ad allontanarlo dalla sua passione principe: i giochi delle arene quanto quelli nel Sacro Palazzo. E con il trascorrere dei mesi, pareva dare sempre minore importanza a quanto avvenuto, non avendo come opporsi a Genserico. Seguì dunque il consiglio dell’augusta Galla Placidia, per una volta tanto coincidente con quello del generale Ezio, e tentò di minimizzare la perdita della Provincia, dandole una qualche cornice legale che la facesse apparire dignitosa.

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Contorniato in nome di Valentiniano III, probabilmente usato quale premio nei giochi circensi; al rovescio è rappresentato un atleta nudo (Alfoldi 463.1, 45,37 g).

Ebbero così inizio lunghe trattative volte a dare soluzione agli eventi: ora Genserico mostrava volontà di trovare un accordo e convivere in pace con l’impero, ora procedeva a nuove conquiste nelle isole del Mare Nostrum, e ne saccheggiava le coste, persino la Sicilia, così da assicurarsi ricchi bottini e obbligare l’augusto Valentiniano a nuove concessioni.

Quando cadde Cartagine, il re vandalo aveva stipulato un’alleanza con il re visigoto, Teodorico, sicché il vandalo ci aggrediva per mare e il visigoto nella Gallia. L’alleanza tra i due fu sancita dal matrimonio tra sua figlia e Unerico, figlio primogenito di Genserico. Tuttavia durante l’XI indizione, essendo Ciro il solo console (anno Domini 441), qualcosa di grave avvenne poiché l’alleanza si ruppe e la figlia di Teodorico venne restituita al padre orrendamente mutilata.

Restato senza l’alleato e pare anche contrastato dalla sua stessa Corte, il re vandalo volle sancire una pace vera e duratura. Un anno più tardi, essendo Eudossio e Dioscuro consoli, lo stesso figlio suo Unerico giunse alla corte a Ravenna quale garante della pace e per trasformare la pace in amicizia, Eudocia, la figliola mia primogenita che era appena nel suo quarto anno, fu promessa in sposa al figlio del sovrano. Così come io fui merce di scambio per assicurare l’unità dei due imperi, la figliuolo mia lo fu per garantire l’alleanza con il vandalo”.


Inviato (modificato)

Mi chiamano Creusa da così tanto tempo che ho scordato il mio vero nome. Sono un’ancella del palazzo che fu di Bonifacio e ora è del re vandalo, ma non sono una schiava, né mai lo fui. Serva sì, ma libera, e a volte anche meretrice. Non perché io sia venale, ma perché mi piace quando un uomo arde di passione per il mio corpo e per la bramosia di conoscere la mia grazia, almeno per un breve istante divento signora del mio signore. Sono giovane e sono bella. La mia pelle ha il colore dell’ambra del baltico, i miei capelli sono corti e arricciati, più neri dell’inchiostro della seppia, e i miei occhi sono come due stelle lampeggianti. I miei seni sono piccoli e sodi e i capezzoli si ergono fieri. Piaccio agli uomini e a volte mi danno anche un solido aureo quando trascorro la notte giacendo con loro ma, ve l’ho già detto, non sono venale: faccio all’amore perché mi piace. Appartengo al popolo dei mauri e da quando ho memoria ho sempre vissuto a Cartagine. Non credo di aver mai avuto un padre e appena ricordo che c’erano dei fratelli e io ero la più piccola. Ero, forse, nel mio settimo od ottavo anno quando mi madre mi collocò a far la servetta nella casa di un commerciante visigoto, che fu il primo che mi possedette: è pericoloso essere poveri. Fu così che imparai la lingua dei germanici e i loro usi mi divennero familiari.

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Alcuni dei nomi di Iside, Madre degli Dei. Era figlia di Seb, dio della Terra, e di Nut, dea del firmamento. Prima ancora di nascere, si unì a Osiride e concepì Horus, divinizzazione del Sole, pur restando vergine: da qui l’attributo isiaco di “Madre-vergine degli dei”, governatrice dell’ordine del cosmo, dispensatrice delle messi.

Non sono cristiana né lo voglio essere. Iside, la grande dea madre che sta al di sopra di tutti gli dei, è la mia protettrice. Iside, la prima e l’ultima, colei che è venerata e disprezzata, la prostituta e la santa, la sposa e la vergine, la madre e la figlia. Iside che è sterile, eppure sono numerosi i suoi figli, che è sposata ma nubile, colei che dà alla luce ma non ha mai partorito. Iside consolazione dei dolori del parto, che è sposa è sposo allo stesso tempo. Iside la Madre del suo proprio padre. I cristiani dicono che il loro è un dio d’amore: ma allora perché volevano lapidarmi perché rifiutai di credere al loro dio? Era questo ciò che esigeva il loro dio d’amore?

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Ricostruzione di Cartagine come appariva nel V secolo.

Il comes Bonifacio, prefetto di Cartagine, passò con le sue guardie nella piazza – Iside lo inviò poiché ascoltò le mie grida disperate – e fece disperdere la folla inferocita: con un lembo della sua veste pulì il sangue dal mio volto e con il mantello coprì la mia nudità. Non potevo camminare e ordinò che con una lettiga mi conducessero al suo palazzo. Sopravvissi e a lui devo la vita, ma per i colpi subiti persi la favella. Mi fece sua ancella e seppi, ma questo lo scoprii più tardi, che anche la sposa mi è sorella nella fede e nel sangue.

Nel palazzo conobbi il suo palafreniere e, quando raggiunsi l’età prescritta dalla legge, nel mio tredicesimo anno diventai sua sposa. Entrambi giurammo fedeltà al comes, padrone generoso per il marito mio e angelo della salvezza per me. Quando il comes Bonifacio si recò a Ravenna e si riconciliò con l’augusta Galla Placidia, fu accompagnato da mio marito e io restai sola nel palazzo: ma sapendomi protetta dal comes, nessuno osò recarmi offesa. Poi tornò a Cartagine, ma non tornò più il nostro signore e protettore, poiché il nobile Bonifacio sconfisse Ezio in leale tenzone, ma fu sconfitto da un nascosto morbo.

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Genserico accompagnato dalla corte vandala riceve dei supplicanti romani (miniatura medioevale).

Ancella ero nel Palazzo che fu di Bonifacio quando il re Genserico occupò Cartagine: al vandalo piacque la mia figura e come io svolgevo il mio servizio e non gli spiacque ch’io non avessi più il dono della parola, che lui ritiene che non vi sia donna migliore che quella che tace e pare come assente. Nulla sapendo del mio passato, si rivolgeva a me parlando uno storpiato latino, né mai s’avvide che intendevo perfettamente la sua lingua, né io mai volli che se n’avvedesse, poiché sapere è sempre cosa buona, ma sapere senza che gli altri sappiano che tu sai, è cosa ottima.

Sempre fummo grati al nostro protettore e amico, il comes Bonifacio, che sempre fu fedele all’augusta Galla Placidia, sicché quando l’imperatrice ci fece nascostamente giungere la sua richiesta che noi fossimo le sue orecchie nel palazzo del re vandalo, soddisfacemmo con piacere il suo desiderio e io potei svolgerlo sempre nel migliore dei modi. L’uomo è accorto quando un altro uomo lo ascolta e non si lascia sfuggire quanto non deve essere risaputo; ma non è altrettanto accorto se è una donna, colei che ascolta, poiché è solamente una donna! E tanto meno è accorto se crede che Creusa non intenda la sua lingua.

Io, invece, comandando le ancelle che servono nei banchetti, e servendo io stessa, tutto ascolto e tutto riferisco al marito mio, che sa come far pervenire i miei detti all’imperatrice. E poiché di quando in quando il re Genserico vuole ch’io giaccia con lui nel suo talamo, e spesso ciò avviene quando ha ecceduto nelle libagioni, prima e dopo l’amplesso scioglie le redini del suo parlare, credendosi non compreso e forse anche inascoltato, e io invece intendo quanto dovrebbe restare occulto.

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Ciondolo di bronzo raffigurante Iside che portavano seco gli iniziati (Museo civico di Achao).

Mi piace il re vandalo: è facile all’ira, ma sa anche fare un gesto gentile. Sorrise la prima volta che mi denudò (lo fece con garbo, accarezzandomi i capelli) al vedere il mio amuleto protettore: ma non mi schernì, né mi chiese di privarmene, forse preferendo sapermi pagana piuttosto che cattolica. Io non potrei mai privarmene: Iside mi protesse, colei che generò suo figlio prima ancora di essere partorita e fu poi figlia del suo figlio. Ma come potete comprendere tutto questo voi che non siete iniziati? Voi che non siete mai stati sepolti per tre giorni nell’avello, privati anche del minimo raggio di luce, accompagnati dall’aspide che vi priva della vita per poi risorgere ed abbeverarvi alle mammelle di Iside benigna e succhiare il latte sacro che infine vi restituirà alla vita.

Non è potente Genserico, o almeno non lo è come lo era il comes Bonifacio (e quanto di più lo sono gli augusti Teodosio e Valentiniano!) al quale bastava dare un ordine perché esso fosse obbedito senza indugi. Dapprima restai delusa: un re potente, che tanto timore incuteva ai romani, eppure non poteva comandare, ma solo persuadere. Poi a poco a poco, ascoltando senza darlo a intendere le conversazioni nei banchetti, compresi.

Nei convivi, infatti, vi erano i duci dei tanti clan che accompagnarono Genserico quando salpò con la sua improvvisata flotta dalla costa andalusa e poi, colpo su colpo, conquistò l’intera Provincia d’Africa: alcuni erano clan anch’essi vandali, ma non erano il medesimo di quello del figlio non primogenito di Godigisel e di una serva duce degli asdingi; e neppure di tutti, in quando un figlio di Gunderico, fratellastro suo per parte del solo padre, era duce di un altro clan che pure si diceva asdingo. Poi vi era tra i commensali il duce dei silingi, e quello degli suebi che prima furono sconfitti e quindi divennero alleati, e quello di un clan visigodo insoddisfatto per la ripartizione delle terre della Hispania, e vi erano pure alcuni duci di clan alani, che pur accomunati nella lingua e nel costume, rivaleggiavano tra loro per riaffermare ognuno la propria autonomia.

Il re Genserico, compresi, non era tale per diritto, ma in quanto tutti gli altri conti riconoscevano in lui un’autorevolezza che non vedevano in altri: e il suo potere in essa si basava, e non sull’autorità, e solo poteva mantenere il trono se riusciva giorno dopo giorno a persuadere tutti gli altri duci che lui e non altri che lui era il più autorevole, quello capace di sconfiggere anche il nemico più potente e più avversato, il romano, e difendere la vera fede ariana dall’eretico più odiato, il cattolico.

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Proprietario terriero vandalo. L'adozione del vestire romano - la tunica corta, il mantello e i sandali - riflette il modo in cui le tribù germaniche avevano accettato lo stile di vita romana: il cavaliere ha la sella ma non le staffe, che non erano usate dai vandali (British Museum).

Vedi Creusa, mi confidava con la bocca impastata e l’alito acido per il troppo vino di Numidia, più desideroso di sfogo che di un amplesso, non capiscono che non si può sempre conquistare una nuova terra e un nuovo bottino! Cartagine è ricca, degna capitale di un nostro regno. Così hanno fatto i visigoti quando diventarono padroni di gran parte della Gallia e della Hispania, abbandonando la loro vita raminga. E ora è giunto il nostro turno. Non ci sono altre terre da conquistare, tranne Roma e l’Oriente. Loro vogliono una spedizione per saccheggiare Alessandria: ma questo vuol dire affrontare l’imperatore di Costantinopoli; e ancora contro Roma: ma l’augusto Valentiniano è pronto a trattare de transigere per l’Africa o per la Sardegna, ma mai lo cederebbe il territorio italico! Non comprendono che non abbiamo forza sufficiente per sconfiggere l’impero, che abbiamo strappato la più ricca delle provincie occidentali, solo perché abbiamo avuto dalla parte nostra un incredibile intreccio di situazioni fortunate. So bene che è proprio mio cugino, il figlio di Gunderico, un asdingo come lo sono io, ad accusarmi di debolezza, di codardia per non voler muovere contro Roma, per aver accettato una pace nella quale ci dichiaravamo foederati… ma so di aver ragione io, che ormai è giunto il momento di fermarci, di trarre ricchezza non più dal bottino, ma dal commercio, di essere un rinato regno punico che dal dominio sul mare e dal commercio otteneva tutte le sue ricchezze”.

Modificato da antvwaIa

Inviato

Il re Genserico mi trattava con insolito garbo. Inatteso, poiché era una persona molto brusca, facile all’ira e quando il caso vendicativa e incapace di perdonare.

Le riunioni conviviali con gli altri duci dei clan cominciarono a divenire sempre meno conviviali e più dominate dagli scontri personali. La situazione s’inasprì moltissimo meno di un anno dopo che la mia bella città, Cartagine, cadde nelle loro mani. Io svolgevo il mio umile lavoro di ancella, riempivo i boccali con il vino della Numidia che bevevano puro anziché tagliato con l’acqua, e non passava molto tempo dall’inizio del pasto che iniziavano le recriminazioni sempre più violente.

I commensali, un paio di decine, si trovarono divisi in due partiti: uno, che affiancava il re, il quale conveniva con lui che fosse giunto il momento di fare quanto avevano fatto i visigoti, dando vita a un regno indipendente, e accordarsi con l’imperatore per una pace durevole, rinunciando a ulteriori conquiste e a saccheggiare le coste; l’altro, invece, si opponeva al re e pretendeva che ora si conquistasse Alessandria, oppure la stessa Roma, non per costruire un impero più vasto, ma per ottenere un bottino grandioso. A nulla valevano le ragioni addotte da Genserico per scoraggiarli da tali propositi. Ciò che più dolse al sovrano fu proprio che fossero i clan asdingi quegli che gi erano più contrari, capeggiati da quel cugino suo figlio di Gunderico.

Erano trascorsi un paio di anni da quando Cartagine era divenuta la capitale del Regno vandalo, quando successe un evento terribile: il sovrano Genserico fu avvelenato e la sua vita fu a punto di raggiungere anzitempo la sua conclusione. Io gli feci da medico, poiché solo in me nutriva fiducia, e la sua fiducia era ben riposta perché avevo imparato a volergli bene e supplicavo Iside, lei che risuscitava dalla morte coloro che voleva far rivivere in lei, che lo salvasse e rigenerasse gli organi distrutti del suo corpo, la divina Madre che aveva restituito a Osiride tutti i suoi organi dispersi nella quattro direzioni e lo aveva ritornato alla vita. E Iside ascoltò la mia supplica, così come un giorno ascoltò le mia grida quando, bambina ancora volevano lapidarmi, e volle che le mie pozioni fossero salutari e restituissero al sovrano il perduto vigore.

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Tremisse imitativo visigoto attribuito a Teodorico battuto in nome di Valentiniano III (Ric3721 1,46 g)

Nella sua stessa casa fu ordito l’inganno e il suo stesso figlio primogenito, Unerico, trovò nascosta tra gli oggetti più preziosi della sua stessa sposa, che era figlia del re visigoto Teodorico, l’ampolla con il mortifero veleno dell’aspide. Ebbe salva la vita, quella sciagurata, ma fu in quanto svelò chi fossero coloro ai quali aveva venduto la sua lealtà. Ebbe salva la vita, ma forse la sua sventura fu maggiore di quella che sarebbe stata una veloce morte, in quanto le furono amputati il naso e le orecchie e con quell’orrido aspetto fu restituita al padre Teodorico, infedele sposa ripudiata. Né cessò con il suo castigo la vendetta nei confronti dei traditori: il re Genserico, e con lui tutti i duci degli alani e alcuni di quei clan asdingi che non avevano appoggiato la congiura, vollero che i colpevoli pagassero con la morte. A Cartagine molto sangue scorse per le strade, che insieme ai colpevoli furono trucidati anche i loro figli maschi, affinché restassero privi di discendenza e più nessuno potesse onorare il loro nome o voler vendicare la loro morte.

Come Osiride, il re vandalo tornò alla vita ma già non poteva godere del suo fallo: ma voleva ugualmente la mia compagnia in quanto le mie mani sono abili nel rilassare i nervi e nel ristorare il corpo. E mentre supino io lo massaggiavo, lui parlava nella sua lingua – forse credendo ancora di non essere inteso, ma io credo che in realtà ormai sapesse ch’io lo intendevo, ma poco glie ne importasse essendo io solamente una donna – e sfogava la sua delusione.

Quando fu riposto, tornò a celebrarsi un convivio: ora gli ospiti erano assai meno numerosi, ma era tornata l’unità d’intento. Fu in un convivio che si risolse di scegliere la via della pace e dell’amicizia con Roma, purché Roma rinunciasse a prendere da loro che si riconoscessero quali foederati, rinunciando al loro onore, ma l’Impero trattasse il Regno come un principe tratta un principe di uguale dignità. E lo stesso figlio di Unerico fu inviato a Ravenna per pattare l’amicizia tra il romano e il vandalo”.


Inviato

Sono di nuovo io, Licinia Eudossia.

Ricordo benissimo quando il figlio di Genserico giunse a corte. Con una piccola flotta di navigli, navigò da Cartagine sino al porto di Classe, nei pressi di Ravenna: quivi dapprima sbarcarono degli emissari che contattarono le autorità del porto annunciando l’illustre visita. Immagino che il suo arrivo avrà causato grande agitazione e perplessità sul da farsi: venne inviato immediatamente un messaggero a Corte onde sapere come procedere. L’imperatore Valentiniano, che già era stato preavvisato che sarebbe giunta un’ambasciata da Cartagine ma non che sarebbe stata condotta da Unerico in persona, diede ordine che fosse accolta con ogni riguardo e condotta a Corte. Il principe Unerico sbarcò accompagnato da una piccola schiera di guardie personali e raggiunsero velocemente il Palatium dove furono accolti con cordialità, non scevra da una certa sufficienza.

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Il porto di Classe nei pressi di Ravenna, come appare in un mosaico della basilica di Sant’Apollinare in Classe (inizio del VI secolo).

A lui fu dato il tempo di riposarsi e a noi quello di preparargli un’accoglienza suntuosa, destinato a impressionarlo e a fargli intendere quanto fosse grande la potenza di Roma. Venne dunque ricevuto nel vasto salone delle udienze con la massima pompa, anche se l’imperatore Valentiniano si fece volutamente attendere da Unerico prima di fare il suo ingresso accompagnato da alcuni dignitari, dall’augusta Galla Placidia e da me stessa.

Lo guardai con curiosità: il suo aspetto non era sgradevole, nonostante i suoi capelli avessero il colore della paglia dorata e la sua carnagione fosse quasi lattiginosa e il suo volto invaso da piccole pecche oscure. Era alto, brusco nei modi, arrogante. Quando parlava, mirava dritto negli occhi l’augusto imperatore anziché, ignorante dell’etichetta, rivolgere verso terra il suo sguardo in segno di rispetto. Tuttavia il tono delle sue parole era amichevole e pareva sincero quando affermava di essere venuto poiché Cartagine voleva non solo una pace giusta e duratura con Roma, ma porre altresì le basi per un’eterna amicizia. Certamente l’augusto mio sposo si risentì per proposte che lasciavano intendere in modo molto chiaro che Genserico voleva la pace, sì, ma trattando con l’imperatore da pari a pari, rifiutando qualunque sudditanza. Tuttavia anche noi volevamo la pace, giacché non eravamo nelle condizioni di imporre con la guerra la nostra volontà, e soprattutto avevamo bisogno dell’olio e del grano della Provincia d’Africa e che il Mare Nostrum tornasse a essere percorso pacificamente e senza timori dalle navi onerarie: quindi le sue parole furono accolte con piacere.

Fummo sorpresi dall’eloquenza di Unerico: il suo latino era scorrevole e corretto, nonostante l’accento germanico, ricco di citazioni, di riferimenti ai classici, e ben presto dimostrò di possedere anche una certa padronanza del greco. Ci aspettavamo di interloquire con un barbaro rozzo e analfabeta, e invece ci trovavamo di fronte a una persona colta e non priva di modali affabili. Soprattutto fu per la Corte una sorpresa quando, al termine della sua esposizione, ci disse che si offriva volentieri e con immenso piacere di restare quale garante della pace presso la Corte, senza porre alcuna condizione né limite di tempo: solo nel proposito che fosse ben chiaro a tutti noi quanto Cartagine ambiva l’amicizia con Roma.

L’imperatore ascoltò senza mostrare sorpresa alcuna per l’inattesa disponibilità, né diede risposta alla sua proposta. Disse che era lieto di sentire parole di pace, che Roma desiderava vivere in amicizia con il popolo vandalo e quindi la presenza a Ravenna del figlio del re Genserico era occasione di soddisfazione. E così dicendo pose fine al colloquio.

Nei giorni successivi le parole di Unerico furono attentamente pesate e discusse. L’augusta Galla Placidia suggeriva di cogliere l’occasione di pace, tanto più che la permanenza del figlio di Genserico presso la Corte avrebbe garantito il rispetto dei patti da parte del re cartaginese. In quel frangente, l’imperatrice e il generale Ezio si trovarono a coincidere: una in quanto dubbiosa che Roma avesse la forza per sconfiggere Genserico, l’altro in quanto aveva bisogno per mantenere forte il suo potere che Roma temesse tanto gli unni quanto i vandali e per tanto gli servivano minacciosi e non vinti.

Ma forse sin dal primo incontro con il principe nell’animo dell’augusta Galla Placidia cominciò a prendere forma un progetto che avrebbe coinvolto dapprima la mia primogenita, e che infine avrebbe condotto me e le mie figlie al palazzo di Genserico, non so quanto ospiti e quanto ostaggi del re vandalo”.


Inviato

Ci furono conciliaboli e trattative dalle quali sempre rimasi emarginata, anche se poi ero messa al corrente del loro procedere. Un accordo che, in realtà, fu raggiunto presto e facilmente perché ora era evidente che entrambe le parti volevano la pace. L’imperatore Valentiniano, marito mio, tentò di insistere affinché nell’accordo che riconosceva a Genserico il dominio perpetuo e in pace di gran parte della Provincia d’Africa – la parte più ricca! – ci fosse la menzione dei vandali e alani quale popolo foederato: ma su questo aspetto Unerico fu irremovibile e pretese sempre che l’accordo sancisse la pari dignità di entrambe le parti. Tanto il generale Ezio quanto l’augusta Galla Placidia persuasero l’imperatore affinché non insistesse su tale esigenza, rischiando di vanificare l’opportunità di una pace solida, e alla fine si trovò un compromesso soddisfacente per entrambe le parti: il trattato che stabiliva non solo la pace, ma anche l’amicizia e il reciproco aiuto, fu stipulato non tra Roma e Cartagine, ma tra l’augusto Valentiniano e Genserico, re dei vandali, il quale s’impegnò a sostenere l’imperatore qualora questi fosse stato offeso. Il trattato fu sottoscritto dall’imperatore e da Unerico nella primavera della X indizione, non ricordo la data precisa, essendo consoli Eudossio e Dioscoro (anno Domini 442), alla presenza del generale Ezio che subito dopo dovette abbandonare Ravenna per recarsi in Gallia a domare una ribellione contadina, appoggiata dai Visigoti, sempre intenti a strappare Arles dalla sovranità dell’imperatore.

Trascorsero poche settimane da quella stipula, che vi fu un nuovo e solenne incontro nel salone delle udienze per il quale fu richiesta anche la mia presenza. Il salone era insolitamente gremito: erano presenti i massimi dignitari della Corte, ma anche numerosi altri vescovi, oltre a quello ravennate, e anche il rappresentante della Corte dell’augusto Teodosio. Quindi, con grande pompa e manifestazioni di giubilo, l’imperatore Valentiniano annunciò che la mia piccola Eudocia, che era appena entrata nel suo quinto anno d’età, era la promessa sposa del principe Unerico. Io rimasi impassibile di fronte a una notizia che lacerava il mio cuore, così mi fu insegnato sin da bambina, e allibita nell’animo ma serena nel volto, scrutai l’augusta Galla Placidia. Anche se il suo volto non tradiva alcuna emozione, ormai la conoscevo troppo bene per non riuscire a leggere il suo animo attraverso i suoi occhi: mi fu chiaro che l’annuncio non la sorprendeva, in quanto era attesa, e che solo lei poteva esser stata la regista di questo inatteso corollario del trattato di amicizia con il vandalo. Infatti l’imperatrice madre aveva la capacità di pronunciare in presenza dell’augusto Valentiniano concetti importanti e idee strategiche con estrema noncuranza, quasi non si rendesse conto di quanto diceva: concetti e idee che poi il figlio suo e marito mio ripeteva come fossero propri, e allora era proprio l’augusta Galla Placidia colei che prima di ogni altro lo felicitava per il suo acuto pensiero.

Quella stessa sera ebbi facile occasione d’incontrami con la mia augusta suocera senza che ci fossero orecchie estranee. E manifestai molto schiettamente il mio dispiacere per una siffatta decisione senza che io neppure ne fossi avvertita in anticipo. E’ proprio vero che per gli augusti le nostre figlie non sono null’altro che una merce di scambio, le dissi costernata. Ti sbagli, cara Licinia Eudossia, mi rispose l’imperatrice: grazie alle nostre figlie nascono paci durature e alleanze che rendono potente l’impero. Non solamente la pace, augusta Galla Placidia: Elena fu strumento di guerra.

Devo tuttavia ammettere che il principe Unerico dimostrava di essere degno di quell’incarico regale che un giorno avrebbe coronato la sua fronte e a Corte si dimostrava corretto e, nonostante l’arroganza non voluta ma causata dalla mancanza di conoscenza dell’etichetta, sapeva rendersi ben accetto all’imperatore Valentiniano, il quale mostrava di provare per il principe vandalo simpatia e forse anche amicizia.

In quei giorni s’incontrava a Corte Flavio Merobaudo, un poeta panegirista tenuto in gran conto dall’imperatore Valentiniano e dal generale Ezio. Si celebrò una festa solenne, alla quale partecipava anche il principe Unerico, per festeggiare il battesimo di Placidia, la mia secondogenita, e il poeta volle declamare una sua ode composta per la lieta occasione, nella quale veniva anche celebrata l’augusta Giusta Grata Onoria…”.

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Raro tremisse in nome di Giusta Grata Onoria (RIC 2068).

Perdona se t’interrompo, amata cognata, ma ricordo assai bene quella terribile serata. Volendo forse ingraziarsi la mia augusta madre, oltre che il fratello mio delle cui grazie già godeva, declamò quel terribile poetastro un indegno poemetto prendendo a pretesto il battesimo della piccola Placidia e credette di celebrare anche la mia persona con due tristi versi nei quali diceva che “cum soror adsistit, nitidae candentia lunae / sidera fraterna luce micare putes (quando io siedo accanto al fratello mio, sono come la luna illuminata dalla luce del sole!)”. Che idiota! Non avrebbe potuto offendermi maggiormente! Io, Giusta Grata Onoria, illuminata da quel vanesio e arrogante fratello mio?! Quale orrore! L’imperatore Valentiniano, che nulla capiva di poesia, né di musica, né di nessuna delle arti delle Muse, celebrava il poetastro, ma solo perché Ezio diceva che era da celebrare; credo che la madre mia ne avesse altrettanto fastidio, ma entrambe dovemmo dar mostra di apprezzare i suoi orribili versi e stavamo proferendo ipocrite lodi, quando entrò un messo a comunicarci la notizia di un terribile terremoto che aveva scosso tutta Roma e i colli laziali”.

Non m’infastidisce la tua interruzione, Onoria cara che mi sei sorella più che cognata: convengo con te che quei versi erano davvero brutti, eppure è grazie ad essi che l’orrenda calunnia, che così a lunga infangò i tuoi meriti, venne finalmente svelata e fu ristabilita la verità!”.


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A costo di suscitare l'ira dell'augusta Licinia Eudossia, è però necessario che io interrompa le loro parole per dare una spiegazione a coloro (ammesso che ce ne siano) che leggono queste righe.

La tradizione narra che Giusta Grata Onoria essendo appena adolescente ebbe una relazione con Eugentio, maggiordomo di Corte a Ravenna, e che da quella relazione nacque un figlio. Avendo infranto il voto di castità pronunciato quando era appena dodiecenne, l'augusta Onoria sarebbe stata cacciata dalla Corte e relegata in un convento. Poi, quindici anni più tardi, per vendetta verso il fratello Valentiniano III, che voleva sposarla con un anziano senatore, inviò ad Attila un suo anello chiedendogli di venire in Italia a liberarla: da lì le due spedizioni militari di Attila.

L’attribuzione della relazione con Eugenio e del parto di Onoria all’anno 434 (II indizione) è data da Marcellino; Giovanni d’Antiochia e Iordane hanno Marcellino quale fonte e, pertanto, trascrivono la sua versione. Essa, tuttavia, appare inaccettabile in quanto incoerente con gli avvenimenti successivi e con gli scritti di Prisco di Panion, assai più dettagliati di quelli di Marcellino, e che è testimone contemporaneo dei fatti: Prisco descrive la relazione con Eugenio, il parto e la lettera di Onoria ad Attila (che giunse nella primavera o estate del 450) come sequenziali e, dunque, prossimi nel tempo. Inoltre esiste la testimonianza del poeta Merobaude, presente presso la corte ravennate tra il 440 e il 444, dalla quale si evince senza alcun dubbio che Onoria era presente a Corte, riverita come si conviene ad un’augusta, e che per lei si prospettava qualche matrimonio importante e tale da assicurare alleanze importanti all’impero, come quello tra Eudocia, figlia di Valentiniano, e Unerico, figlio di Genserico. Dunque non è possibile che Onoria avesse avuto una relazione tale da comprometterne il decoro (e un matrimonio ‘eccellente’) con anteriorità al 440-444.

Ind. II, Ariobindo et Aspar coss. Honoria Valentiniani imperatoris soror ab Eugenio procuratore suo stuprata concepit, palatioque expulsa, Theodosio principi de Italia transmissa, male enim contra occidentalem rempubblicam concitabat”, (Marcellini, Chronicon, a. 434). Altre versioni antiche riportano Attilanem invece di male enim, ma pare che quella corretta sia la versione con male enim, in quanto l’accusativo Attilanem non è accettabile. Giovanni d'Antiochia prende per buona l'affermazione di Marcellino e la ripete “Ἧκε γάρ τις ἀγγέλλων, τὸν Ἀττήλαν τοῖς κατὰ τὴν Ῥώμην ἐπιθέσθαι βασιλείοις, Ὀνωρίας τῆς Βαλεντινιανοῦ ἀδελφῆς ἐς ἐπικουρίαν ἐπικαλεσαμένης αὐτόν. Ἡ γὰρ Ὀνωρία τῶν βασιλικῶν καὶ αὐτὴ ἐχομένη σκήπτρων, Εὐγενίῳ τινὶ, τὴν ἐπιμέλειαν τῶν αὐτῆς ἔχοντι πραγμάτων, ἥλω ἐς λαθραῖον ἐρχομένη λέχος, καὶ ἐπὶ τῷ ἁμαρτήματι ἀνῃρέθη μὲν ἐκεῖνος, ἡ δὲ τῶν βασιλείων ἐλαθεῖσα, Ἑρκουλάνῳ κατεγγυᾶται, ἀνδρὶ ὑπατικῷ καὶ τρόπων εὖ ἔχοντι, ὡς μήτε πρὸς βασιλείαν μήτε πρὸς νεωτερισμὸν ὑποτοπεῖσθαι”. (Giovanni d’Antiochia, Historia Kronike, fr. 199).

Il primo storico ad accorgersi dell’incongruenza della data riportata da Marcellino, fu John Bagnall Bury, Justa Grata Honoria, Journal of Roman Study, n. 9, 1919, che dopo una accuratissima analisi dei fatti conclude scrivendo: “In quanto alla data errata che appare nella cronaca di Marcellino, essa ammette una spiegazione abbastanza semplice: basta solo supporre che Marcellino trova la vicenda di Eugenio nella sua fonte correttamente datata come verificata nell’indizione II (e quindi nel 449). La sua cronaca è organizzata per indizioni: inizialmente potrebbe dunque aver correttamente annotato la vicenda nell’indizione II, ma, per inavvertenza, averla poi fatta finire nell’indizione II del ciclo precedente (e quindi nel 434). A causa di questo errore, c’è una differenza di esattamente quindici anni tra la data corretta e quella errata”. Effettivamente, accettando la data 439 per il parto e l’allontanamento di Onoria dalla corte di Ravenna, gli eventi quadrano in modo rigorosamente coerente, e infatti gli storici successivi generalmente attribuiscono il parto di Onoria al 449. Anche J.R. Martindale, Prosopography of Later Roman Empire, vol. II, Cambridge 1980, fa proprio il ragionamento di Bury e adotta la data 449.

Ritenerlo del gennaio del 449 è una mia scelta arbitraria, dettata dalla sequenza dei fatti successivi: relegazione di Onoria a Costantinopoli, che richiese alcuni mesi; adattamento di Onoria alla nuova situazione a tal punto da individuare un complice che potesse recarsi da Attila; invio della lettera ad Attila nella quale chiede il suo intervento, viaggio che richiese almeno un mese; ricevimento della lettera da parte di Attila; risposta di Attila inviata a Teodosio II con la richiesta di matrimonio, che sappiamo essere giunta al più tardi all’inizio di luglio ma più probabilmente nel maggio del 450, poiché Teodosio ebbe il tempo per scrivere a Valentiniano suggerendo di accettare la richiesta di matrimonio prima di perdere la vita in un indicente (28 luglio 450). Dando per dato consolidato l’anno 449 come anno del parto di Onoria e maggio-agosto 450 come ricevimento della lettera, la durata degli eventi intermedi obbliga ad anticipare quanto più possibile la data del parto di Onoria, da qui la scelta – arbitraria, ma razionale – di attribuirlo al mese di gennaio. Nessuna fonte storica dice se il figlio di Onoria fu maschio o femmina, né tanto meno quale sia stato il suo nome: tuttavia il fatto che non sia stata scelta la soluzione più semplice – maritare Onoria con Eugenio e allontanarla definitivamente dalla Corte - fa pensare che la giovane augusta costituisse davvero una minaccia al potere del fratello e, soprattutto, ai progetti di Aezio, il quale già allora non avendo Valentiniano figli maschi perseguiva il disegno di accasare il proprio figlio con la figlia cadetta dell’imperatore (essendo la primogenita già promessa a Unerico). Se Onoria avesse avuto una figlia, non questa non sarebbe stata una minaccia per i disegni di Aezio; lo sarebbe stata, invece, se figlio maschio. Il fatto che sia scomparso di scena, dunque, non è certo una prova che di maschio si trattasse, ma è coerente con lo svolgimento dei fatti successivi. Ovviamente è finzione immaginare che Onoria lo avesse chiamato Teodosio, come il cugino e, soprattutto, il nonno. Tuttavia non si tratta di una finzione gratuita in quanto: a) è coerente con quelli che a detta della maggioranza degli storici moderni era lo scopo di Onoria, giungere al trono attraverso il proprio figlio; b) permette di spiegare un misterioso funerale che si celebrò poco dopo quando venne tumulato in San Pietro la bara con il corpo di Teodosio: Giuseppe Zecchini ritiene che sia il corpo del figlio che Galla Placidia ebbe con Ataulfo (“mentre Giusta Grata Onoria mandava il suo anello e la sua proposta di matrimonio ad Attila. Galla Placidia, pur anziana e già malferma di salute, si recò dall’Italia a Barcellona; a Barcellona riesumo l’urna contenente le ceneri del piccolo Teodosio, cioè del figlio natole trentasei anni prima, e ne fece traslare le spoglie mortali a Roma nel mausoleo dei Teodosidi”, Giuseppe Zecchini, Attila, Ed. Sellerio, Palermo 2007), tuttavia non vi è nessuna fonte storica che accenni ad un possibile viaggio di Galla Placidia a Barcellona e alla riesumazione del figlio di Ataulfo; non appare dunque impossibile, ancorché azzardato, immaginare che quel corpo fosse quello del figlio di Onoria, al quale fosse stato dato per nome Teodosio.

Antvwala

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Omaggio natalizio

Fig. 49: Part of the metal assemblage: steelyard counterweight in the form of a bust of the Empress
Eudocia, sounding lead, and coin hoard (Photo: J. Sharvit; courtesy of the IAA).

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Ti ringrazio moltissimo, Andrea: è bellissimo! Mi pare di capire che è il contrappeso di una piccola stadera usata per pesare monete: è così? E' Atenaide o Eudocia madre di Teodosio II?


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Non ne ho la più pallida idea, ho solo ricevuto l'avviso della messa in rete di un articolo e dentro ci ho trovato questa foto, che mi sembrava in argomento. Non ho potuto leggerlo perché ero atteso a casa dei suoceri per il pranzo, dove mi trovo tuttora. Comunque puoi trovarlo facilmente in academia.edu cercando in google "shipwreck + assemblage + byzantine". Penso si tratti di Atenaide, visto l'associazone con più tarde monete bizantine, però non è detto.

Andreas


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Nella primavera della XIII indizione, essendo consoli Valentiniano e Nonio (anno Domini 445), l’imperatore e marito mio, Valentiniano, dispose che la corte si trasferisse a Roma. L’Urbe mostrava ancora la grandezza di un tempo, ma anche la sua attuale decadenza: ovunque edifici danneggiati dal violento terremoto di tre anni prima, non più riparati in quanto molti patrizi avevano abbandonato la città e avevano stabilito nell’agro la loro dimora, fortificando le villae e le abitazioni dei coloni. Le parti più basse della città, un tempo paludose e rese asciutte dalla canalizzazione che ne faceva scorrere le acque, ora erano lentamente riconquistate dagli acquitrini in quanto era venuta a meno la manutenzione dei canali: durante il tempo dei calori estivi, l’aria si era fatta insalubre, gli insetti alati molto più fastidiosi d’un tempo e le febbri, causate vuoi dall’una vuoi dagli altri, più frequenti e mortifere.

Quella stessa estate il generale Ezio fece ritorno dalla Gallia e ben presto la sua influenza sull’augusto Valentiniano fu evidente. L’imperatrice madre, Galla Placidia, era spesso lasciata in disparte, anche se per la sua insostituibile capacità ed esperienza era in ella che si confidava ogni qual volta vi era la necessità di promulgare una novella.

Al generale Ezio piacque l’accordo stipulato tra l’augusto Valentiniano e il principe Unerico, ormai restituito a Cartagine, in nome del re Genserico. Invece la promessa di matrimonio tra la figliuola mia e il principe vandalo fu da lui accolta con evidente contrarietà. Sosteneva il generale che tale matrimonio era disdicevole per l’impero e per la casa teodosiana, che avrebbe indebolito o addirittura compromesso l’autorevolezza dell’imperatore, che addirittura un giorno avrebbe potuto costituire una minaccia per lo stesso trono dell’augusto. L’imperatore Valentiniano ascoltava: non si pronunciava di fronte alle parole del generale Ezio, ma era evidente che esse entravano nel suo animo e che l’augusto marito mio meditava su come trarsi d’impaccio e rinnegare l’impegno nuziale senza vanificare la pace e l’amicizia col vandalo, che dal canto suo mostrava di rispettare nella forma e nella sostanza.

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Nave oneraria romana.

Il Mare Nostrum era tornato ad essere solcato dalle navi onerarie, che più non temevano le actuariae e le liburnae dei corsari vandali, e l’unico timore era quello causato dalle tempeste. Al porto traiano giungevano costantemente le navi vandale, i grandi muriophoroi, con il loro carico di 20 mila anfore, o anche maggiore, e oltre cento mila modii di grano.

Nei miei confronti il generale Ezio, che un tempo mi ignorava, ora era divenuto stranamente cortese: mi onorava con le sue parole e celebrava la bellezza delle mie piccole figliole. I suoi complimenti m’infastidivano anche di più di quanto un tempo poteva irritarmi la sua mancanza di considerazione, e anche mi preoccupavano: timeo danaos ut dona ferentes, come scrisse il grande poeta. Era chiaro che non erano scevri da un secondo fine.

La mia amata cognata, l’augusta Onoria, era sempre più arrogante nei confronti dell’imperatore, nonostante la loro genitrice cercasse di lenire il costante conflitto, ora assai meno latente di un tempo. I rapporti tra i due fratelli giunsero ad essere talmente tesi che quando Giusta Grata Onoria chiese di poter vivere in modo assai più riservato, l’imperatore Valentiniano acconsentì prontamente, contento di poter così appartarla dalla quotidianità della Corte, e dispose che all’interno del Sacro Palazzo fosse approntato un appartamento che fosse segna dimora per la sorella sua: ciò avvenne nell’estate della XV e ultima indizione, essendo consoli Adaburio e Callipio (anno Domini 447). Il desiderio di mia cognata nascondeva un’altra motivazione per ritirarsi dalla Corte e condurre una vita più riservata. Sapevo, infatti, e credo che anche l’augusta Galla Placidia non lo ignorasse, che mia cognata viveva il suo voto di castità già da tempo con insofferenza e aveva allacciato una nascosta relazione con il maggiordomo del Sacro Palazzo, Eugenio. Io le raccomandavo prudenza, non avvenisse mai che il fratello suo scoprisse l’intreccio o che la natura facesse il suo corso rendendola madre. Lei sorrideva enigmatica alle mie parole e io credo che tramasse ben altra cosa e porre termine a una verginità indesiderata. Né credo io che la freccia di Eros avesse trafitto il suo cuore, poiché so bene che l’augusta Onoria donerà davvero il suo amore solamente a colui che potrà farla sovrana di una vasta, ricca e potente nazione.

Nel maggio dell’anno seguente, il I del nuovo ciclo di indizioni, essendo consoli Zenone e Postumiano (anno Domini 448), l’imperatore Valentiniano decise che la Corte tornasse a vivere nel Sacro Palazzo di Ravenna.

Eudocia, la mia primogenita, si avviava al suo undicesimo anno di età e quindi s’avvicinava l’età prescritta dalla legge per il suo matrimonio, ma era evidente che l’imperatore non predisponeva nulla per la celebrazione delle nozze, ciò che era evidente causa di soddisfazione per il generale Ezio, e non dubito che a Cartagine il re Genserico ne fosse informato e anche assai contrariato”.


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Come avviene nella calda estate quando inattesi nel cielo prima terso giungono grossi nuvoloni scuri, e s’accavallano, e si contorcono, e il cielo tutto riempiono, e l’aria s’abbuia e poi, improvvisa, sguizza la saetta e ad essa fa seguito l’esplosione rimbombante del tuono che sorprende colui che, stando in una stanza dalle finestre minute non s’accorse del cambiamento avvenuto, mentre non sorprende chi trovandosi all’aperto vide sopraggiungere il temporale, così avvenne quando all’augusta Onoria non fu più possibile nascondere l’imminenza del parto e fu inevitabile darne notizia all’imperatore Valentiniano. Ciò accadde alcuni mesi dopo che la Corte era tornata a Ravenna.

Divisando per tempo il sopraggiungere della tempesta, entrando rimproverammo all’augusta Onoria l’aver infranto il suo voto di castità e soprattutto non aver posta la necessaria attenzione onde evitarne le conseguenze: ma la cognata mia pareva invece soddisfatta. – Darò un discendente alla casa teodosiana – diceva – Teodosio sarà il nome che porterà mio figlio e un giorno cingerà il serto imperiale! – e a nulla servirono i moniti della madre sua. A me parve che nel male ci fosse pure una notizia serena, non avendo discendenza maschile il padre mio, l’imperatore Teodosio, né potendo io stessa avere altra prole. Ma l’augusta Galla Placidia temeva la reazione violenta dell’imperatore, il suo viscerale odio per la sorella e il suo timore che, garantendo un’erede all’impero, potesse la Corte di Costantinopoli tramare per spodestarlo e forse anche per togliergli la vita.

Ci fu una terribile scenata. Solo l’augusta madre, l’imperatore e io eravamo presenti negli alloggi privati del Sacro Palazzo e l’assenza di orecchie estranee ci permisero di toglierci ogni maschera imposta dall’etichetta.

I timori dell’imperatrice madre si compirono appieno, nulla importando all’augusto Valentiniano che sua sorella avesse infranto il suo voto, ma molto temendo il sopraggiungere di un erede che potesse un giorno rivestire la porpora. L’augusta Onoria fu relegata nel suo alloggio e le fu impedito di comunicare con chiunque, noi comprese, e l’ingenuo ma presuntuoso Eugenio fu giustiziato rapidamente.

Nacque, l’erede della casa teodosiana, nel mese di gennaio della II indizione, essendo consoli Protogene e Asturio (anno Domini 449): le fu quasi strappato dal ventre e prima ancora che l’augusta Onoria potesse riceverlo nelle sue braccia, fu portato via dal suo appartamento e quindi, per ordine dell’imperatore, l’innocente fu ucciso. Mia cognata non seppe quale fato si fosse compiuto per il suo figliolo, anche se presagiva il peggiore, né noi avemmo mai l’animo di dirle la verità ma preferimmo tacere per sempre.

Quella stessa sera nel salone dove fu servita la cena, l’augusta Galla Placidia giunse in ritardo: un’intollerabile villania. Non si scusò e ordinò perentoria che tutti si allontanassero e che chiudessero ogni porta. I pretoriani di guardia, le ancelle del servizio e alcuni funzionari di corte si guardarono perplessi, poi volsero il guardo verso l’imperatore il quale, iratissimo in viso, tuttavia taceva. Il volto dell’imperatrice pareva quello di Medusa anguicrinita e tale era la rabbia che ne scaturiva, che i presenti ebbero più timore dell’augusta che dell’augusto e, senza mai dare il tergo, si allontanarono rapidamente e in assoluto silenzio. Poi, chiusa ogni porta, l’augusta Galla Placidia apostrofò il figlio come mai le avevo sentito fare e come mai avrei immaginato che osasse fare. Fu il figlio ad abbassare il suo sguardo verso terra, restando in silenzio e fu così che io, pur impassibile, venni a conoscenza di quel terribile segreto che non avrei mai immaginato potesse esistere. Poi l’imperatrice uscì dal salone per ritirarsi nel suo appartamento, senza una parola di commiato e volgendo ostentatamente le spalle all’imperatore e mai come in quel momento mi fu evidente la grandezza di lei e la pochezza di lui.

Più tardi, quando la raggiunsi ancora sconvolta nell’intimità del suo alloggio, mi chiese di accompagnarla nella cappella del Sacro Palazzo: quivi mi fece giurare solennemente che avrei guardato assoluto silenzio in merito a quel terribile segreto, e che lo avrei svelato solamente se il svelarlo fosse stato necessario per salvare la vita dell’augusta Giusta Grata Onoria, o la mia stessa. Quel ripugnante segreto, ben comprendendo quanto avesse sofferto l’augusta Galla Placidia, me la rese ancora più cara; e anche l’imperatore Valentiniano mi parve meritare la mia compassione”.

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L’augusta Galla Placidia per risolvere la situazione pensò che la cosa migliore fosse allontanare la figlia da Ravenna e ripararla presso la Corte di Costantinopoli. Meno di un mese più tardi, mia cognata si allontanò da Ravenna in un piccolo naviglio e con la sola compagnia di un’ancella fedele, nonostante che la brutta stagione ancora sconsigliasse la navigazione. Contrariamente ai timori che ella nutriva, al suo arrivo a Corte fu bene accolta tanto dall’imperatore Teodosio, padre mio, quanto dall’augusta Pulcheria, ciò che rese sospettoso l’imperatore Valentiniano: infatti egli s’aspettava che la sorella sua venisse privata del suo titolo e relegata in un convento.

Flavio Ercolano Basso era un ricco senatore che viveva lontano da Roma: uomo ricco e taciturno, non vecchio seppure maturo negli anni, ma incapace di generare. Sconosciuto ai più, era ritenuto quale persona di ben poco conto. Ignorato dai pochi che lo conoscevano, per qualche misteriosa ragione era assai legato e fedele all’augusto Valentiniano. Poiché l’imperatore temeva che a Costantinopoli si tramasse ai suoi danni – così interpretava la buona accoglienza ricevuta dalla sorella presso quella Corte – si risolse ad accasare l’augusta Onoria con quel senatore e in questo senso nell’ottobre di quello stesso anno scrisse all’imperatore Teodosio affinché rimandasse indietro sua sorella non appena il Mare Nostrum fosse stato riaperto alla navigazione.

Che l’augusta Onoria tornasse di buon grado a Roma per convogliare a nozze con quel senatore non ci contavamo troppo. Piuttosto sarebbe entrata in convento – diceva l’imperatrice Galla Placidia – ma non accetterà mai un matrimonio così modesto e così poco confacente alla dignità augustale. Anch’io, al pari della suocera mia, ero rimasta contrariata dalla decisione dell’imperatore: anche se mi parve opportuno non contrariarlo apertamente, gli lascia intendere quanto per l’augusta Onoria sarebbe apparsa offensiva la sua decisione.

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Dracma unna della regione di Khingila (440-490 dC) imitativa delle dracme sassanidi (29 mm, 3,43 g).

Poiché della tempesta causata dall’imprudente relazione della mia cognata ne divisammo per tempo l’approssimarsi, sebbene impreparate, tuttavia essa non ci colse di sorpresa. Non fu così, invece, con la missiva che giunse a Roma, dove era tornata a stabilirsi la Corte, nel mese di marzo della III indizione, essendo consoli Valentiniano e Avieno (anno Domini 450) ed essendo trascorso poco più di un anno dall’allontanamento dell’augusta Onoria. La lettera era stata vergata dal padre mio, l’imperatore Teodosio, e in essa si diceva che la sua ospite aveva inviato un suo anella al re unno promettendole la sua mano: diceva l’augusto Teodosio che, sebbene inattesa, la decisione della cugina sua Onoria non gli pareva scellerata ma, al contrario, non mancava di logica; che Attila avrebbe guidato gli unni contro i visigoti per poter così liberare l’intera Gallia e l’Hispania e restituire a Roma quelle due ricche provincie e così rendersi meritorio di tale sposalizio; che infine il re unno da nemico implacabile di Roma, grazie al sacrificio dell’augusta Onoria sarebbe diventato il campione dei due imperi.

Mai vidi l’imperatore Valentiniano così incollerito come quando lesse quella missiva. A mio marito ben poco importava che Onoria sposasse l’unno, e ciò gli sarebbe stato gradito se ella fosse andata a vivere con il suo barbaro sposo in Pannonia. Ma ben comprese che tale matrimonio era una trama ordita dalla corte di Costantinopoli ai suoi danni: o se anche non lo era, e io non credo che lo fosse, tuttavia la tenne per tale. E ad aggiunger fuoco al fuoco, ci pensò bene il generale Ezio, colui che da tale matrimonio aveva tutto da perdere: la minaccia dell’unno sulla quale si basava il suo potere sarebbe cessata, e addirittura il re Attila lo avrebbe soppiantato nel ruolo di patricius e di generalissimo di tutto l’impero d’Occidente, avendo quello l’appoggio della corte orientale e imparentandosi con la stessa casa teodosiana. Dal canto mio, comprendevo bene la portata di quel gesto ed ero combattuta tra la lealtà nei confronti dell’imperatore Valentiniano, marito mio, e l’affetto verso la mia cognata, comprendendone lo sdegno al vedersi imporre un matrimonio così disdicevole. Poiché fui sempre attenta a quanto avveniva nell’impero e alle sue frontiere, né mi era oscura l’arte del buon governo, compresi appieno la portata del gesto dell’augusta Onoria, di quanto di positivo in esso ci fosse ma anche di quanto scardinasse il potere dell’imperatore Valentiniano, fratello suo, e ancor più del generale Ezio, che mostrava viepiù maggior insistenza nel maritarsi con la mia primogenita che aveva appena raggiunto l’età legale per celebrare il matrimonio.

L’imperatore Valentiniano rifiutò persino di prendere in considerazione che l’augusta Onoria potesse sposare il re unno, e le ordinò perentoriamente di fare immediato ritorno a Roma.

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Il palazzo imperiale di Roma nel IV secolo con il Circo Massimo in primo piano (disegno di Francesco Corni).

Erano appena trascorsi un paio di mesi, o poco più, che Giusta Grata Onoria fece ritorno a Roma e insieme a lei giunse anche la risposta di Attila accettando la proposta di matrimonio e comunicandoci che in nome di Roma avrebbe restituito all’impero d’Occidente le ricche provincie ora in potere dei visigoti.

Il terribile segreto di cui ora anch’io ero partecipe, protesse la vita dell’augusta Onoria dalla mano vendicatrice del fratello, ma non poté impedire ch’egli compisse la sua volontà: l’infelice cognata mia fu sposata al senatore Ercolano, anche se tale matrimonio non fu consumato poiché ella preferì chiudersi in convento.

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A sinistra: medaglione del valore di 6 solidi coniato per l’incoronazione di Marciano (Ric 501) con al rovescio imperatore a cavallo e legenda ADVENTVS SDN AVG; a destra: solido nuziale (Ric 502) con al rovescio Marciano e Pulcheria che si danno la mano e nel centro Cristo stante che li unisce e legenda FELICIER NUBTIIS.

Prima che quel terribile anno avesse fine, morivano l’imperatore Teodosio, padre mio, e l’augusta Galla Placidia, che mi fu madre. Per prevenire ogni eventuale pretesa dell’imperatore Valentiniano al trono di Costantinopoli, non certo illegittima essendo egli cesare dell’augusto Teodosio, l’imperatrice Pulcheria convogliò immediatamente a nozze con il generale Marciano al quale il senato orientale conferì immediatamente l’onore d’indossare la porpora.

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Teodorico re dei Visigoti, Attila re degli Unni, Aezio generale di Roma: i protagonisti dell’ultima grande battaglia campale del mondo antico.

Il re Attila mantenne la sua parola. Mosse il su barbaro esercito verso la Gallia per porre fine al potere dei visigoti, nemici atavici degli unni. Teodorico, il loro re, ben comprese che si giocava la sopravvivenza dell’intero suo popolo, che si riunì intorno a lui quasi fosse un solo grande gigante. Contro ogni previsione, alla fine del mese di giugno della IV indizione, essendo consoli Marciano e Adelfio, nella grande battaglia che avvenne nell’agro catalaunico, Teodorico fu il vincitore e Attila ne uscì sconfitto. Giunse anche Ezio, con poche legioni raffazzonate in qualche modo, per porsi al fianco del re visigoto, il quale non respinse l’aiuto romano, anche se marginale per l’esito della battaglia. Ma grazie a quella sua presenza, il generale Ezio poté rientrare a Roma quale grande vincitore e celebrare un immeritato trionfo.

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Il patricius Ezio: un dittico consolare d’avorio.

Forte della sua accresciuta posizione, dopo che l’iniziativa dell’augusta Onoria l’aveva fatta vacillare, ora il patricius non faceva più mistero di voler la mano della figliola mia Eudocia per conto di suo figlio per così imparentarsi con la casa teodosiana. Quando un anno più tardi Attila tornò a minacciare l’impero, ora non più per restituirgli la Gallia e l’Hispania, ma per imporre con la forza quel matrimonio che Onoria gli promise, dopo aver messo a ferro e a fuoco Aquileia e aver occupato Milano una terribile pestilenza colpì il suo esercito: impossibilitato alla guerra, accettò di buon grado l’oro che copioso gli fu offerto dall’imperatore Valentiniano e fece ritorno in Pannonia, dove pochi mesi dopo si compì il fato e la sua vita giunse alla sua conclusione definitiva. Il generale Ezio non fece neppure a tempo a raccogliere un esercito per affrontare l’unno, ma nuovamente si presentò alla Corte romana quale grande vincitore e fece chiaramente capire quale ora fosse il prezzo che la Corte avrebbe dovuto pagargli”.

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La morte di Attila illustrata in un codice miniato medioevale.


  • 2 settimane dopo...
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Divina Iside, madre di tuo padre, figlia di tuo figlio, tu che vuoi che le donne si uniscano agli uomini, tu che sei la Signora della Terra, tu che hai reso il potere delle donne uguale a quello degli uomini, vieni in mio soccorso, ti prego, poiché sono sempre più combattuta. In me vi sono due anime: Creusa che fu ancella di Bonifacio, che mi fu protettore e amico e al quale sempre restai devota, e Creusa che è ancella di Genserico, che mi mostra la sua benevolenza e fiducia e al quale voglio essere leale. Infine è la nuova anima a prevalere sull’antica.

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Nummo del tempo di Giuliano I. Al dritto, busto di Iside che impugna il sistro; al rovescio, Iside che allatta il figlio Horus.

E’ strano quanto di delicato possa ascoltare e quanto lontano possa vedere un’ancella muta. In quanto ancella e in quanto donna, la si guarda senza scorgerla; in quanto muta, la si ritiene silente. Eppure non sono sicura che il re Genserico davvero mi guardasse senza scorgermi e forse neppure mi riteneva silente, bensì fedele.

Ormai era chiaro che ben sapeva che io comprendevo assai bene la lingua germanica, e anche alcuni dei suoi dialetti: eppure quando richiedeva i servigi delle mie abili mani per massaggiare le sue articolazioni irrigidite – diceva che solo le mie mani potevano dargli conforto e lenire i suoi dolori – sfogava con me le sue preoccupazioni. Mi poneva domande alle quali non avrei saputo cosa rispondere, ma era lui stesso a darsi le risposte giuste mentre le mie dita scivolavano sulla sua schiena cercando quei punti irrigiditi che dovevano essere distesi. Io solo ascoltavo, nel mio forzato ed eterno silenzio: di quando in quando annuivo e così gli davo a intendere che comprendevo quanto diceva, e anche quanto non diceva ma sentiva.

La principessa Eudocia, la sposa promessa del figlio suo, ormai era entrata nel suo sedicesimo anno e ancora la corte romana non si risolveva a fissare le pattuite nozze. A Cartagine, i più nobili tra gli alani e gli asdinghi, pur ancora fedeli all’anziano sovrano, mormoravano e dicevano che Genserico non intimoriva più Roma, che si era troppo ammorbidito, che non mostrava più la volontà di un tempo per imporre con la forza il rispetto di quei patti che i romani stavano palesemente violando. Anche se durante i banchetti i principi germanici non osavano accusare apertamente Roma di tradimento, sia pure in modo velato di quando in quando le mancate nozze di Unerico venivano menzionate: ora insinuando che forse sarebbe stato utile al regno che l’erede al trono si unisse alla figlia del re suebo, ora menzionando quella del patricius Aspar che avrebbe portato in dote la simpatia della corte di Costantinopoli. Genserico ascoltava, talvolta annuiva ma per lo più non svelava il suo pensiero, ma ora criticava i romani e la loro mancata fede.

Poi, più tardi, nell’intimità della sua camera, mi faceva chiamare e mentre era sdraiato sul suo letto e le mie mani chiuse a pugno picchiettavano con le nocche i suoi fianchi sfogava la sua rabbia: sempre ci ha traditi Roma!, mi diceva, con ingannevoli postille fu il patto che sottoscrissero assegnando al nostro popolo la parte più meridionale della Hispania. Io mantenni la mia parola: mai feci mancare il grano e l’olio e il vino al popolo romano; le navi dell’impero solcano tranquille il mare dalle Colonne d’Ercole sino a quelle del Bosforo, temendo solo la tempesta, e se questa giunge e mette a repentaglio la vita dei marinai, ecco che se all’orizzonte si divisa la vela di una nostra liburna non è per minacciare ma per recare soccorso. E Valentiniano come mi compensa? Non tenendo fede al patto, rendendomi ridicolo davanti alla mia stessa corte! Ma se questa o quello credono ch’io ormai sia vecchio e imbelle, che l’argento che affluisce copioso nelle nostre casse ora che il commercio mostra di essere assai più generoso del bottino, si sbagliano di grosso. Non sono né vecchio né imbelle e castigherò duramente il tradimento romano. Così come Alarico umiliò la superba capitale dell’impero conquistandola e spogliandola delle sue ricchezze e la stessa Galla Placidia, sorella dell’imperatore Onorio per parte di padre, fu parte del bottino, così farò anch’io: conquisterò Roma, le toglierò ogni oro e argento, fonderò il bronzo dei suoi monumenti per farne moneta e colei che fu promessa sposa del figlio mio Unerico la trascinerò a Cartagine, non più quale nobile principessa ma quale schiava e per liberarla Valentiniano dovrà pagare il più lauto di tutti i riscatti.

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Vittoria proto-vandala attribuibile al tempo di Genserico (da Ancient Jerusalem Coins).

Così ragionava ad alta voce il re Genserico e io, ormai più leale al mio nuovo signore che fedele al mio antico protettore, nulla raccontai al mio sposo di quale fosse il nuovo intendimento del sovrano, né svelai che ero presente quando egli ordinò che fosse allestito un banchetto per i più fidati tra i nobili della sua corte e a loro disse che avrebbe castigato Roma e la violazione romana del patto e ordinò che segretamente cominciassero a preparare le armi e ad addestrare gli uomini, che fosse fatta la necessaria manutenzione ad ogni imbarcazione poiché ogni legno vandalo avrebbe dovuto essere pronto per riportare a Cartagine il più grandioso di tutti i bottini e che un anno intero fosse destinato a questi preparativi di guerra. Grida di giubilo e di plauso coronarono le parole del sovrano e mostravano apertamente la soddisfazione della corte per ritrovare davanti a sé il condottiero che li condusse a conquistare la Provincia d’Africa e a fondare un regno.

Io ascoltavo mentre mescevo la birra nelle coppe ma sapevo che ora la mia fedeltà era per il re vandalo e che Roma nulla avrebbe saputo di quanto si stava preparando. Questo avvenne durante la calura estiva, poco dopo che era giunta a Cartagine notizia della morte del grande sovrano unno che tanto aveva atterrato Roma (anno Domini 453).

Modificato da antvwaIa

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Bellissima la rappresentazione di Iside che allatta Horus. Quanto vicina a certe immagini medievali della Beata Vergine...

Arka


Inviato (modificato)

L'accostamento non è casuale.

Iside madre di tuo figlio, è un'invocazione classica, così come Iside figlia di tuo figlio. Tutte le invocazioni che riporto sono riportate alla lettera da noti papiri egiziani. Il culto di Iside fu l'ultimo culto pagano a morire e sino al tempo di Teodosio vennero coniati nummi con la raffigurazione di Iside e Osiride. Le religioni misteriche sono estremamente complesse e ricche di simbolismi, quali le invocazioni di Iside, comprensibili sono agli iniziati. Ipazia era un'iniziata e frequentava assiduamente l'Iseo di Alessandria, che poi fu distrutto insieme alla sua meravigliosa biblioteca da una turba inferocita di cristiani, aizzati dai monaci del vescovo Cirillo (gli stessi che anni più tardi trucideranno orrendamente Ipazia). Quindi la prima grande distruzione della biblioteca di Alessandria, e anche la più grave, fu opera dei cristiani e non degli islamici.

Il Concilio di Nicea, formalmente voluto da Teodosio II ma di fatto da Pulcheria e Galla Placidia, fu il punto di partenza del culto mariano che assorbì tantissimi elementi propri di quello isiaco, e non solo le invocazioni. E quindi non è strano che le prime rappresentazioni mariane siano talmente simili ad alcune isiache da non poterle distinguere! Ottenere la proclamazione di maria Theotokos invece che Kristotokos fu una grande vittoria pewrsonale delle due Auguste che vedevano così rafforzata la loro posizione politica.

Il cristianesimo gnostico, poi sconfessato e infine perseguitato da quello ortodosso, ebbe molte caratteristiche proprie dei culti misterici.

Qualche tempo fa insieme a degli amici discutemmo su quale fosse l'età di Unerico quando restò a Ravenna quale garante della pace. Le fonti storiche moderne sono molto contraddittorie in merito all’età di Unerico: secondo alcune sarebbe nato verso il 410 e per altre il 430. Per certi versi sembra più credibile attribuire a Unerico una dozzina d'anni nel 442 e non una trentina in quanto:

1) fu ritenuto estraneo alla cospirazione contro Genserico e ciò quadra con un'età molto giovane;

2) l'usanza era lasciare quali garanti della pace dei principi giovanissimi e non degli uomini maturi;

3) se fosse nato verso il 410, nel 477, quando fu incoronato, avrebbe avuto già 67 anni, età che pare eccessiva, anche se è pur vero che Ilderico salì al trono avendo circa 62 anni.

Tuttavia accettare che Unerico fosse nato verso il 430, quando Genserico (nato nel 389) aveva già 41 anni sembra strano considerando molte fonti storiche indica in Genserico il primogenito. E’ anche possibile che gli altri figli di Genserico – Genzo, Teodorico e Teudorico – fossero tutti maggiori di Unerico, ma già morti nel 442 e, quindi, che sia da intendersi che Unerico era il maggiore tra i figli viventi.

Avendo fatto mie le conclusioni degi miei amici, quanto ho scritto circa la presenza di Unerico a Ravenna va rivisto in rapporto a una presunta età di una dopzzina di anni e non 25-30 come supponevo: quindi non può aver avuto un ruolo protagonista nella sua relazione con la Corte, ma solo subordinato.

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Quanti terribili eventi trascorsero a partire nei tre anni che fecero seguito alla III indizione, essendo consoli Valentiniano e Avieno (anno Domini 450)!

Sono nuovamente io che mi faccio avanti, Licinia Eudossia, sposa dell’augusto Valentiniano, per spiegarvi che se per l’impero fu terribile la minaccia dell’Unno, anche la grande e nobile dinastia teodosiana fu scossa da funesti casi.

In quell’anno l’augusta Onoria fece ritorno a Roma, né più poté procrastinare il suo ritorno, anche se colui che avrebbe potuto ancora proteggerla, l’imperatore Teodosio padre mio, morì negli ultimi giorni del mese di luglio, giusto un mese dopo che la liburna che restituiva a Ravenna la principessa, ora rinchiusa nel suo appartamento del Sacro Palazzo senza poter comunicare con nessuno, neppure con me o con la madre sua, approdò a Classe.

Ma ben altre cose aveva ora in animo l’imperatore Valentiniano. Valendosi d’essere cesare di mio padre, inviò una missiva alla Corte di Costantinopoli rivendicando il suo diritto al trono e sostenendo che fosse giunto finalmente il momento di riunire i due Imperi: a nulla valse il consiglio dell’augusta Galla Placidia affinché mitigasse la sua pretesa e anche il generale Ezio non nascose la sua perplessità, pur evitando di contrastare la volontà del suo protettore. Ma l’augusta Pulcheria giocò d’anticipo e quando la missiva giunse a Costantinopoli, già all’anziano generale Marciano era stata conferita la porpora e sedeva sul trono e per conferire un’immagine di continuità dinastica Pulcheria stessa ne divenne sposa. Per quanto ne fosse contrariato, l’imperatore Valentiniano non poté che far buon viso a cattivo gioco e mostrare di accettare il fatto compiuto.

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Teodosio I si accinge a coronare con un serto d’alloro il vincitore dei giochi. (Colonna teodosiana, Istambul)

Sfogò la sua rabbia nei confronti della sorella Onoria, che accusò di aver tradito l’impero e di aver cospirato contro la sua persona. Quanto avrebbe voluto farla decapitare! Ma l’imperatrice Galla Placidia, offrendosi di mantenere tale quel suo terribile segreto che ora condividevo anch’io, ottenne che la sua vita fosse risparmiata: questa volta, però, mia cognata, che amo come una sorella, dovette chinare la testa e sottostare alla volontà dell’augusto Valentiniano, accettando l’odiato matrimonio con l’anziano senatore Ercolano. Nel mese di ottobre si celebrò quell’infausto matrimonio: ma non fu consumato, poiché terminata la cerimonia, l’augusta Onoria chiese e ottenne di rinchiudersi a vita in un convento. Fu così che non ebbi più alcuna possibilità di rivedere il suo volto a me così caro: di quando in quando, ma assai di rado, grazie alla complicità di un’ancella ebbi notizie di mia cognata e possibilità di farle sapere di noi stesse. Neppure le fu concesso di assistere al funerale dell’augusta Galla Placidia che morì alla fine di novembre di quello stesso anno facendomi giurare che avrei salvato la vita della sua figliuola. Così ora fu il mio silenzio a garantire la vita della mia cognata, come prima lo fece il silenzio della madre sua.

Quando giunse notizia della morte del sovrano unno (anno Domini 453), Eudocia, la figlia mia primogenita, ormai era entrata nel suo sedicesimo anno di età e ormai da un paio di anni giungevano da Cartagine alla Corte ravennate richieste insistenti, dapprima cortesi ma ora velatamente minacciose, affinché fosse celebrato il pattuito matrimonio con il principe Unerico. Si rumoreggiava che il re vandalo stesse preparando una grande flotta per saccheggiare come un tempo le coste dell’Impero e l’approvvigionamento del grano e dell’olio non era più tempestivo e puntuale come poc’anzi. Giunse anche notizia che per castigare Roma per non aver dato corso al promesso matrimonio, i vandali avevano occupato le coste della Sardegna e della Corsica, facendo ricco bottino.

L’augusto Marciano scrisse ripetutamente suggerendo di rispettare la parola data, ma l’imperatore Valentiniano ben sapeva quanto fosse poco stimato presso la Corte orientale e quanto avrebbero voluto detronizzarlo. Anche il generale Ezio suggeriva che fosse preferibile onorare l’impegno assunto con Genserico, ma soprattutto insisteva affinché suo figlio Gaudenzio convogliasse a nozze con Placidia, la mia secondogenita, che era entrata nel suo tredicesimo anno d’età. Ma l’augusto marito mio ne era contrariato: temeva che se avesse avuto un nipote maschio, legittimo erede della dinastia teodosiana, non avrebbero più esitato a detronizzarlo e a farlo uccidere, simulando un incidente o qualche morbo, ed Ezio stesso sarebbe stato incoronato con il serto imperiale quale reggente in nome del nipote. E più Ezio insisteva, più l’imperatore Valentiniano diffidava e i rapporti tra i due si facevano tesi e irritati, immemori dell’amicizia e della complicità di un tempo.

A tal punto giunse l’insistenza dell’uno e l’irritazione dell’altro, che con la sua stessa mano l’augusto marito mio pose fine alla vita del generale. Successe nel mese di novembre della VII indizione, essendo consoli Ezio e Studio (anno Domini 454). Grande fu lo scandalo per questa morte che nessuno osava criticare pubblicamente ma tutti deploravano privatamente. L’imperatore Valentiniano pareva sollevato da una situazione che gli era divenuta insopportabile, quasi come se solo con la morte del generale finalmente fosse riuscito a stringere nella sua mano lo scettro imperiale, e in un certo senso era nel giusto: prima, essendo ancora fanciullo, dovette sottostare all’autorità dell’augusta Galla Placidia; poi fu gioco forza che subisse quella assai più velata ma non meno sgradita del generale Ezio, la cui forza fu sempre data dalla minaccia unna. Ma ora che quella minaccia non era più tale e che il terribile Attila che tanto aveva intimorito l’impero era morto, il generale era diventato solo ingombrante e sgradito agli occhi del mio signore e marito, tanto più che Ezio non comprese che la sua forza era venuta a meno con la scomparsa di quel nemico che ne era la cagione e che pertanto non avrebbe più dovuto insistere con quel matrimonio che ora l’augusto Valentiniano non voleva che fosse neppure pensato.

I cortigiani più accorti gli dissero che morto Attila, non era cessata una minaccia mortale per Roma, poiché ora tutto faceva credere che Genserico si preparasse alla guerra e correva voce che ormai non si contentasse più dei magri bottini che poteva ricavare dalle città costiere già più volte saccheggiate, ma che volesse conquistare la stessa Roma. Quando ancora viveva l’augusta Galla Placidia, grazie a un vecchio fedele suddito del conte Bonifacio la Corte riceveva notizie certe e dettagliate di quanto si tramava in quella di Cartagine: ma ormai da un paio di anni la nostra spia taceva e potevamo solamente cercare di decifrare le voci che pure giungevano abbondanti e che facevano davvero temere che il re Genserico si stesse preparando per marciare su Roma stessa.

L’augusto marito mio, ora che davvero aveva la possibilità di dimostrarsi imperatore di fatto e non solo di nome, non mostrò timore, ma volle restare nell’antica capitale per prepararne le difese e affrontare i vandali in una battaglia che avrebbe potuto decretare la fine del loro potere. L’imperatore si mostrava fiducioso per il risultato finale e che ne sarebbe uscito trionfatore e, ora che l’odiato e arrogante Ezio era morto, ai miei occhi Valentiniano parve crescere in statura e dignità e anch’io credetti che ne sarebbe risultato trionfatore, né volli allontanarmi da Roma che quale augusta mai mi sarei mostrata vile o avrei scelto la facile strada della figa dall’Urbe.

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Solidi in nome di Petronio Massimo. Emissione romana e ravennate.

Mentre l’imperatore si preparava ad affrontare il vandalo, vi era chi nel Senato non tentava neppure di nascondere il suo timore e, tanto vile quanto ambizioso, tramava contro l’augusto marito mio: era l’anziano Petronio Massimo. Né gli fu difficile trovare due sicari pronti ad assecondarlo. Il giorno successivo al genetliaco di Roma, l’imperatore Valentiniano venne ucciso: era il 22 aprile dell’VIII indizione, essendo consoli Valentiniano e Antemio (anno Domini 455).


Inviato (modificato)

Fu atroce il modo in cui uccisero l’augusto marito mio. L’imperatore Valentiniano si trovava a cavalcare nel Campo di Marte con le sue guardie del corpo e alcuni seguaci di Optila e Thraustila. Quando scese da cavallo, Optila e i suoi amici lo assalirono: Optila colpì Valentiniano alla tempia e quando questo si voltò per vedere chi lo attaccasse, ricevette un secondo colpo sul viso; caduto a terra, Thraustila uccise l’imperatore e anche Eraclio. Dopo essersi impossessati del diadema dell'imperatore e del suo cavallo, si recarono da Petronio Massimo.

Non appena si seppe la notizia a Roma ci fu il caos. Molti senatori si trovavano nelle loro villae, fuori città, mentre quelli che simpatizzavano per quel ripugnante e vile assassino erano stati invitati per tempo a rientrare o a restare nella capitale. Lo chiamo ripugnante e vile, perché non ebbe l’ardire di essere lui stesso a trafiggere col ferro l’augusto Valentiniano, ma si valse di due guardie del corpo piene di risentimento nei confronti dell’imperatore per fedeltà al generale Ezio, così dissero alcuni, o forse allettate da una grossa borsa di aurei, così dissero altri e io credo che stanno nel giusto.

Il corpo di mio marito era ancora riverso sulla terra e io non avevo ancora saputo nulla di quanto avvenuto, che già il senatore Petronio Massimo era entrato a tradimento nel Sacro Palazzo con la complicità di altri guardie traditrici. Lui stesso m’informò sprezzante che l’imperatore era stato ucciso, e subito dubitai che lui fosse il mandante di quel regicidio anche se dapprima lo negò. Ma soprattutto impedì ch’io potessi comunicare con l’esterno. Infatti tentai immediatamente di inviare una missiva al generale Maggioriano, nella cui lealtà e onestà nutrivo fiducia, ma, come seppi successivamente, fu intercettata dallo stesso senatore con la complicità di alcuni miei servi.

Per impedire che il Senato intervenisse nella sua pienezza e che quegli che gi erano ostili, i più, avessero il tempo di rientrare nell’Urbe, Petronio Massimo lo convocò quello stesso pomeriggio, affinché nella giornata successiva deliberasse chi incoronare, sicuro che i suoi partigiani sarebbero stati presenti e, per quanto pochi, avrebbero imposto la loro volontà, essendo lontani i suoi avversari. E così avvenne. Il giorno dopo l’uccisione dell’imperatore Valentiniano, il senatore Petronio Massimo ricevette la porpora senza averne diritto alcuno e senza averne la dignità.

Il suo primo decreto, il più ignobile che si potesse immaginare, fu di perdonare Optila e Thraustila, scagionandoli da ogni accusa.

Altrettanto ignobilmente e spietato fu nei confronti miei e delle miei figlie, trattandoci come fossimo un bottino di guerra. Mi proibì di indossare la veste del lutto; persino m’impedì di piangere il mio sposo; ma fece di peggio, imponendo con la forza, contro la mia volontà e contro la legge di Roma, un odiato matrimonio a me stessa, trascinandomi al suo talamo, e alla figlia mia Eudocia, dandola come fosse una preda al figlio suo Palladio, che nominò Cesare. E se l’altra figliuolo mia, Placidia, poté evitare nozze infauste fu solo perché quel vile assassino aveva un solo figlio.

Ma all’orrore non c’è mai fine, che a tali misfatti ne aggiunse uno ancora più crudele: ridendo del mio dolore per l’uccisione dell’imperatore Valentiniano, egli fece vanto davanti a me stessa di essere lui l’artefice di quell’omicidio.

Mai in tutta la mia vita provai odio per una persona prima d’allora: ma, come il temporale che cade sulle montagne e comincia a riempire il letto dei torrenti, prima asciutti, e questi si riversano sui fiumi e i fiumi su quello maggiore sino a quando un’enorme onda di piena avanza e tutto travolge e le acque esondano tumultuose nella pianura, così l’odio riempì il mio cuore e tutta me stessa e giurai solennemente che avrei vendicato il mio sposo e l’oltraggio subito insieme a Eudocia. Mi venne il pensiero di seguire l’esempio della cognata mia, l’augusta Onoria, e rinchiudermi in convento pur di non giacere nel talamo di quello scellerato. Ma io sono Licinia Eudossia, figlia dell’imperatore Teodosio, nipote dell’imperatore Arcadio, bisnipote dell’imperatore Teodosio, il primo a portare quell’illustre nome: non posso rinchiudermi in un convento, anche se mi parrebbe meraviglioso il poterlo fare. Sono stata cresciuta ed educata per essere un’augusta, per avere a cuore il bene dell’impero e volli compiere con quanto il fato aveva deciso per me.

Modificato da antvwaIa

Inviato

Le voci sulla preparazione di una grossa spedizione militare vandala si facevano sempre più insistenti e precise. Era chiaro, ormai, che non si trattava di una scorreria sulla costa con scopo di un facile bottino, ma di una vera e propria armata con finalità ben più vaste. C’era persino chi diceva che Genserico volesse conquistare Roma, ma, ingenuamente, pensavano che fossero esagerazioni.

Morto Ezio, gli unici generali che godevano della credibilità dell’esercito erano Maggioriano e Ricimero, ma entrambi si trovavano lontano da Roma, certamente al corrente di quanto si mormorava e aspettando inutilmente disposizioni da parte dell’incapace senatore che si era impossessato dello scettro imperiale.

Restavamo quasi segregate nei nostri alloggi, la mia figliola Eudocia obbligata a sottostare alle attenzioni di Palladio, un giovane senza ambizione né capacità alcuna, e io ignorata da un marito che mai considerai tale, come mai lo considerai un augusto dell’impero.

In quanto alla mia secondogenita, Placidia, anche a lei fu imposto dall’usurpatore Petronio Massimo un matrimonio del tutto inatteso: lo sposo, infatti, risedeva a Costantinopoli e si trattava di Flavio Anicio Olibrio, che fu cresciuto dalla nobildonna Giuliana Anicia quasi fosse suo figlio, quando in realtà era solo una parente, non sapevo bene se zia o cugina poiché la conoscevo solo di fama (si diceva che fosse la donna più ricca di tutto l’impero!). La maldicenza mormorava che fosse frutto di una relazione adulterina di un’importante matrona romana, inviato appena nato a Costantinopoli per tacitare lo scandalo, e che suo padre, innominabile, fosse proprio Petronio Massimo, che pure apparteneva al clan anicio. Io non volli mai dare credito a queste voci – quante ne circolavano per tutta Roma! – ma la prontezza con la quale, pur in momenti così convulsi, l’iniquo usurpatore prese tale decisione mi fece credere che quelle voci non fossero poi così infondate.

Petronio Massimo non lo vedevo quasi mai, né desideravo vederlo, ché per lui provavo solo odio violento e ripugnanza. Ma interrogando la servitù riuscivo a mantenermi al tanto di quanto avveniva a corte. Così avevo saputo che passava le giornate senza saper cosa fare, indeciso su tutto, senza dare disposizioni per affrontare la minaccia vandala, dimostrando a tutto quanto fosse inetto e indegno di quel nobile ruolo da lui ignobilmente usurpato. La stessa guardia imperiale e le poche forze militari presenti a Roma erano sconcertate dalla mancanza di preparativi, di piani, di disposizioni: cosicché persero ogni fiducia in Petronio Massimo, se mai n’ebbero alcuna, e ciò non fece che peggiorare il disastro che si stava approssimando.

Qualche giorno prima delle idi di maggio, la flotta vandala si avvicinò alla costa del Lazio: coloro che vigilavano la costa informarono immediatamente il Sacro Palazzo, ma Petronio Massimo ancora una volta sconcertò tutti per la sua incapacità di emanare le necessarie disposizioni. Vorranno saccheggiare la Tuscia, vorranno conquistare l’isola corsa, l’Elba sarà il loro bottino, diceva senza alcun costrutto e senza nulla decidere, così come un topo posto per diletto in un labirinto che gira senza costrutto e senza trovare una via d’uscita.

Invece non fu la Tuscia, né la Corsica, né l’Elba, ma fu il porto nuovo di Roma stessa, alla foce del Tevere.

Un avamposto dell’armata vandala presero il porto quasi senza trovare resistenza alcuna e, ormai saldo nelle sue mani, affluirono tutti i legni nemici e l’intera armata si dispose ordinata negli edifici portuali e si preparò ad avanzare verso la capitale. Era lo stesso re Genserico a comandare il suo esercito, e il suo primogenito Unerico lo accompagnava: era proprio la loro presenza, più ancora che la dimensione del suo esercito che non era così enorme come fu poi descritta crescendo di bocca in bocca il numero dei suoi militi, a intimorire l’Urbe, né era meno terrificante vedere che anche essendo il re Genserico alle porte di Roma, il viscido senatore, regicida e usurpatore del trono, continuava a tentennare senza dare ordini, senza organizzare la difesa della città, senza neppure prendere il comando delle poche forze presenti nella città.


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