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IGNORED

Monete dalla....letteratura


Liutprand

Risposte migliori

Credo che spesso abbiamo discusso di alcune monete citate in opere letterarie, come ad esempio le monete dei Promessi Sposi. Tuttavia le citazioni sono più numerose di quanto si pensi, per cui vorrei ripercorrerne alcune, sperando che gli esperti delle relative sezioni ci "illumineranno".

Comincio con un capolavoro della letteratura russa:

Fëdor Dostoevskij

IL GIOCATORE

cap, II

Cominciai con il tirare fuori cinque federici d'oro cioè cinquanta "gulden" e li puntai sul pari.

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Bella iniziativa, non posso iniziare altro che con le monete americane :D

Mark Twain - Le avventure di Huckleberry Finn

Ci siamo beccati seimila dollari a testa, dollari d'oro. Era uno spettacolo, vederli ammucchiati l'uno sull'altro. Beh, quel giudice Thatcher li ha presi e ce li ha messi in banca a interesse, e ci fruttavano un dollaro a testa al giorno per tutto l'anno, roba che uno non sapeva che farsene.

petronius :)

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Er mette da parte

Je le do ttutte vinte! È ffijjo solo,

cerco d’accontentallo come posso.

Disce: “Mamma, me fate er dindarolo?”.

E io ’ggni festa j’arigalo un grosso.

Me sce spropio, lo so, mma mme conzolo

ch’è ttanta robba che jje metto addosso.

E llui ggià ffa la mira a un farajolo

cor castracane e ’r pistaggnino rosso.

Li regazzi, se sa, da piccinini

s’ha da avvezzalli de tené da conto

e ffajje pijjà amore a li quadrini.

Ccusí, cquanno sò ppoi ommini grandi,

nun sciupeno, e a ccosto anche d’un affronto

nun te danno un bajocco si li scanni.

G. G. Belli, 1835

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Come non citare Il Pinocchio di Collodi:

La Lumaca lo informa che la sua padrona giace in un letto d'ospedale, povera e malata: Pinocchio le offre generosamente tutti i suoi quaranta soldi di rame e promette alla Lumaca di lavorare ancor più duramente per aiutare la Fata.

Pinocchio, però, non riesce a raggiungere il padre: subito fuori dalla casa della Fata, infatti, incontra il Gatto e la Volpe, che lo convincono nuovamente a sotterrare i quattro zecchini rimasti nel Campo dei miracoli

Modificato da favaldar
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Senz'altro una delle monete più famose della letteratura, che merita anche di essere vista :)

Hermann Melville - Moby Dick (nella traduzione di Cesare Pavese)

Tutti voi di vedetta mi avete prima d'ora sentito dare ordini per una balena bianca.
Guardate! vedete quest' oncia d'oro spagnola? - e levò al sole una grossa moneta splendente.

E' una pezza da sedici dollari marinai....Signor Starbuck dammi quella mazza.
Mentre l'ufficiale prendeva il martello, Achab senza dire nulla si sfregava con cautela la pezza d'oro sulle falde della giacca, come per aumentarne lo splendore....ricevendo la mazza da Starbuck, s'avanzò verso l'albero maestro con lo strumento alzato in una mano, mettendo con l'altra l'oro ben in vista.
A gran voce esclamò: - Chiunque di voi mi segnali una balena della testa bianca...riceverà quest' oncia d'oro marinai.

Questo nei primi capitoli del libro. Poi, alla fine

Il doblone del Pequod...sull'orlo rotondo portava le lettere REPUBLICA DEL ECUADOR: QUITO
...Circondata da queste lettere, si vedeva l'immagine di tre vette delle Ande, e sulla prima una fiamma, una torre sull'altra, sulla terza un gallo che cantava; mentre, arcuato sul tutto appariva un frammento dello Zodiaco a scomparti, dove i segni erano tutti rappresentati nei soliti modi cabalistici, e il sole, chiave di volta, entrava nell'equinozio, in Libra.

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petronius oo)

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Supporter

TRE STROZZINI: UN MACELLARO

Fra li tanti strozzini,

che presteno quatrini

ar novanta per cento, c'è un amico

(er nome nu' lo dico)

che fa un doppio mestiere:

macellaro e banchiere.

Se faccia mejo questo o mejo quello

io nu' lo so davero e lui nemmanco:

der resto nun ce preme de sapello;

è banchiere ar macello

e macellaro ar banco.

Tutti l'affari sui li fa a bottega,

e da questo se spiega

come una vorta me scontò un effetto

mentre tajava un chilo de filetto.

Incominciò cór di': — So' tempi brutti

che va male per tutti:

ciò avuto già tre o quattro fregature

da persone per bene,

da persone sicure.

So' dolori! Credeteme! So' pene!...

V'abbasti a di' che ne la cassa-forte

ce stanno più cambiali che bajocchi.

Eppoi che firme! firme co' li fiocchi!

Principi... duchi... Pare un ballo a Corte!

Vengheno a piagne l'animaccia loro:

chi mille, chi dumila... E a la scadenza:

— Scusa, nun posso: aspetta... abbi pazzienza... —

E sempre 'sto lavoro!

Ma già l'ho detto a l'avvocato mio:

o fòra li quattrini o fate l'atti,

perché si nun rispetteno li patti

je fo er precetto quant'è vero Dio!

E voi? volévio? cinquecento tonne?

Va be', faremo cento per un mese...

So' troppe?... Eh, lo capisco, ma d'artronne

avete da pensà che ciò le spese... —

E così me contò cinquanta carte

da dieci lire l'una,

e ce lassò su ognuna

un'impronta de sangue da una parte...

Trilussa (Carlo Alberto Salustri)

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"Non che fosse grasso: era soltanto immenso e fortissimo; la sua testa sfiorava (nelle case abitate dai comuni mortali) il rosone inferiore dei lampadari; le sue dita sapevano accartocciare come carta velina le monete da un ducato;[...]"

da "Il Gattopardo" di G. Tomasi di Lapedusa.


"Arrischiai la prima posta in pochi scudi sul tavoliere di sinistra nella prima sala, così, a casaccio, sul venticinque; e stetti anch’io a guardare la perfida pallottola, ma sorridendo, per una specie di vellicazione interna, curiosa, al ventre." da "Il fu Mattia Pascal di L. Pirandello.


"L’ho comprata per duecentomila franchi, signora», disse Montecristo, «ma è ancora a buon mercato, perché oggi mi permette di giustificarmi ai vostri occhi." da "Il Conte di Montecristo" di A. Dumas.


"Vi introdussi la mano, e ne estrassi dieci monete d’oro, e altre dieci, quindi ancora dieci, e poi di nuovo altre dieci. " da "Storia straordinaria di Peter Schlemihl di A. von Chamisso.


"Vi erano quattrocentocinquantamila dollari in monete delle quali stimammo il valore il più approssimativamente possibile con le tavole del tempo. Non si trovò un grammo di argento. Era tutto oro antico e di grande varietà: denaro francese, spagnolo e tedesco, qualche ghinea inglese e qualche gettone di cui non avevamo mai veduto esempio. " da "Lo scarabeo d'oro" di E. A. Poe.


"Quanto a Nicola, egli visse scapolo sul podere ereditario finché non si stancò di essere scapolo, e non prese in moglie la figliuola d’un proprietario confinante, con la dote di un migliaio di sterline." da Nicholas Nickleby di C. Dickens.


"Si accordò con loro per un denaro al giorno e li mandò nella sua vigna." dal Vangelo secondo Matteo 20,2


"17Dunque, di’ a noi il tuo parere: è lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?». 18Ma Gesù, conoscendo la loro malizia, rispose: «Ipocriti, perché volete mettermi alla prova? 19Mostratemi la moneta del tributo». Ed essi gli presentarono

un denaro. 20Egli domandò loro: «Questa immagine e l’iscrizione, di chi sono?». 21Gli risposero: «Di Cesare». Allora disse loro: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio». 22A queste parole rimasero

meravigliati, lo lasciarono e se ne andarono." dal Vangelo secondo Matteo 22, 17-22


"'ha mannati a sbatte, li paoli? E queli marenghi cor galantomo brutto? Queli marenghini gialli gialli tonni tonni de quanno nun c'era ancora sto Pupazzo a Palazzo Chiggi, a strillà dar balcone come uno stracciarolo ?" da "Quer pasticciaccio brutto de via Merulana di C.E. Gadda.


"quid istic verba facimus? Huic homini opus quadraginta minis celeriter calidis calidis danistae quas resolvat et cito" da Bacchides di Plauto.

Modificato da Littore
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Giovanni Boccaccio

Il Decamerone, terza novella della sesta giornata:

Essendo vescovo di Firenze messer Antonio D'Orso, valoroso e savio prelato, venne in Firenze un gentil uomo catalano, chiamato messer Dego della Ratta, maniscalco per lo re Ruberto. Il quale, essendo del corpo bellissimo e vie più che grande vagheggiatore, avvenne che fra l'altre donne fiorentine una ne gli piacque, la quale era assai bella donna ed era nepote d'un fratello di detto vescovo. E avendo sentito che il marito di lei, quantunque di buona famiglia fosse, era avarissimo e cattivo, con lui compose di dovergli dare cinquecento fiorin d'oro, ed egli una notte con la moglie il lasciasse giacere: per che, fatti dorare popolini d'ariento, che allora si spendevano, giaciuto con la moglie, come contro al piacer di lei fosse, gliele diede. Il che poi sappiendosi per tutto, rimasero al cattivo uomo il danno e le beffe; e il vescovo, come savio, s'infisse di queste cose niente sentire.

Per un articolo su questo brano:

Alessio Montàgano, Massimo Sozzi

Il "popolino", fiorino grosso d'argento ricordato da Boccaccio

«Cronaca Numismatica», n. 180, dicembre 2005, pp. 34-37

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Giovanni Verga

La roba (in Novelle Rusticane):

Ogni volta che Mazzarò vendeva il vino, ci voleva più di un giorno per contare il denaro, tutto di 12 tarì d'argento, perché lui non ne voleva di carta sudicia per la sua roba, e andava a comprare la carta sudicia soltanto quando aveva da pagare il re, o gli altri.

Non è l'unica citazione numismatica possibile da Verga.

Buona caccia... ;)

Modificato da tornese71
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Giovan Battista Basile

Lo cunto de li cunti

Rimando direttamente a questo bellissimo articolo apparso su Panorama Numismatico nel 2011, visto che è disponibile online:

http://www.panorama-numismatico.com/wp-content/uploads/monete-napoletane-1600.pdf

Modificato da tornese71
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D'Annunzio fu un buon conoscitore di monetazione greca.

Se n'è parlato, con citazioni, qui:

http://www.lamoneta.it/topic/102649-ciotolaro-illustre-gabriele-dannunzio/

Inoltre ha scritto una novella intitolata "I Marenghe" che fu pubblicata prima in San Pantaleone 1886) e poi in Le novelle della Pescara (1902).

E' la narrazione del desiderio di una taverniera poco attraente (l'Africana) per un avventore (Passacantando) che non ne vuole sapere. Per convincerlo, ruba al marito malato i marenghi d'oro che offre all'uomo dei suoi desideri. Esilarante la scena finale del marito cornuto e derubato che dalla cima della scala grida per le sue (ex) monete d'oro.

Ecco la novella:

Passacantando entrò, sbattendo forte le vetrate malferme. Scosse rudemente dalle spalle le gocce di pioggia; poi si guardò in torno, togliendosi dalla bocca la pipa e lasciando andare contro il banco padronale un lungo getto di saliva, con un atto di noncuranza sprezzante.

Nella taverna il fumo del tabacco faceva come una gran nebbia turchiniccia, di mezzo a cui s′intravedevano le facce varie dei bevitori e delle male femmine. C′era Pachiò, il marinaro invalido, a cui una untuosa benda verde copriva l′occhio destro infermo d′una infermità ributtante. C′era Binchi-Banche, il servitore dei finanzieri, un omiciattolo dal viso giallognolo e rugoso come un limone senza succo, curvo nella schiena, con le magre gambe sprofondate nelli stivali fino ai ginocchi. C′era Magnasangue, il mezzano dei soldati, l′amico delli attori comici, dei giocolieri, dei saltimbanchi, delle sonnambule, dei domatori d′orsi, di tutta la gentaglia famelica e girovaga che si ferma nel paese per carpire alli oziosi nn quattrino. E c′erano le belle del Fiorentino; tre o quattro femmine affloscite nel vizio, con le guance tinte di un color di mattone, li occhi bestiali, la bocca flaccida e quasi paonazza come un fico troppo maturo.

Passacantando attraversò la taverna e andò a sedersi su una panca, tra la Pica e Peppuccia, contro il muro segnato di figure e di scritture invereconde. Egli era un giovinastro lungo e smilzo, tutto dinoccolato, con una faccia pallidissima da cui sporgeva il naso grosso, rapace, piegato molto da una parte. Le orecchie gli si spandevano ai due lati come cartocci sinuosi, l′uno più grande dell′altro; le labbra, sporgenti, vermiglie, e d′una certa mollezza di forma, avevano sempre alli angoli alcune piccole bolle di saliva bianchicce. Un berretto che l′untuosità rendeva consistente e malleabile come la cera, gli copriva i capelli bene curati, di cui una ciocca foggiata ad uncino scendeva fin su la radice del naso ed un′altra arrotondavasi su la tempia. Una specie di oscenità e di lascivia naturale emanava da ogni attitudine, da ogni gesto, da ogni modulazion di voce, da ogni sguardo di costui.

Ohe, gridò egli, l′Africana, una fujetta! percotendo il tavolo con la pipa d′argilla che al colpo s′infranse.

L′Africana, la padrona della taverna, si mosse dal banco verso il tavolo, barcollando per la sua corpulenza grave; e posò dinanzi a Passacantando il vaso di vetro colmo di vino. Ella guardava l′uomo con uno sguardo pieno di supplicazione amorosa.

Passacantando d′un tratto, dinanzi a lei, cinse co ′l braccio il collo di Peppuccia costringendola a bere, e quindi attaccò la bocca a quella bocca che ancora teneva il sorso del vino e fece atto di suggere. Peppuccia rideva, schermendosi ; e per le risa il vino mal tracannato spruzzava la faccia del provocatore.

L′africana divenne livida. Si ritrasse dietro il banco. Di mezzo al fumo denso del tabacco le giungevano li schiamazzi e le mozze parole di Peppuccia e della Pica.

Ma la vetrata si aprì. E comparve su la soglia il Fiorentino, tutto avvolto in un pastrano, come uno sbirro.

Ehi, ragazze ! fece con la voce rauca. È ora.

Peppuccia, la Pica, le altre si levarono di tra li uomini che le perseguitavano con le mani e con le parole; se ne uscirono, dietro il loro padrone, mentre pioveva e tutto il Bagno era un lago melmoso, Pachiò, Magnasangue, li altri anche se ne uscirono, a uno a uno. Binchi-Banche rimase disteso sotto un tavolo, immerso nel torpore dell′ebrietà. Il fumo nella taverna a poco a poco vaniva verso l′alto. Una tortora spennacchiata andava qua e là beccando le briciole del pane.

Allora, come Passacantando fece per alzarsi, l′Africana gli mosse in contro, lentamente, con la persona deforme atteggiata a una lusinghevole mollezza d′amore. Il gran seno le ondeggiava da una parte all′altra; ed una smorfia grottesca le rincrespava la faccia plenilunare. Su la faccia ella aveva due o tre piccoli ciuffi di peli crescenti dai nei; una lanugine densa le copriva il labbro superiore e le guance; i capelli corti, crespi e duri le formavano su ′l capo una specie di casco; le sopracciglia le si riunivano alla radice del naso camuso folte; cosicché ella pareva non so qual mostruoso ermafrodito affetto di elefanzia o di idrope.

Quando fu presso all′uomo, ella gli prese la mano per trattenerlo.

Oh. Giuvà !

Che volete ?

I che t′hajie fatte ?

Voi ? Niende.

E allora pecchè me dai pene e turmende ?

Io? Me facce meravijia.... Bona sere! Nen tenghe tembe da perde, mo.

E l′uomo, con un moto brutale, fece per andarsene. Ma l′Africana gli si gettò alla persona, stringendogli le braccia, e mettendogli il volto contro il volto, ed opprimendolo con tutta la mole delle carni, per un impeto di passione e di gelosia così terribilmente incomposto che Passacantando ne rimase atterrito.

′Che vuo′? Che vuo′? Dimmele ! Che vuo′? Che te serve ? Tutte te denghe ; ma statte′nghe me, statte′nghe me. Nen me fa murì di passijone.... nen me fa ì ′n pazzia.... Che te serve ? Viene ! Pijiate tutte quelle che truove...." Ed ella lo trasse verso il banco; aprì il cassetto; gli offerse tutto, con un gesto solo.

Nel cassetto, lucido di untume, erano sparse " alcune monete di rame tra cui luccicavano tre o quattro piccole monete d′argento. Potevano essere, insieme, cinque lire.

Passacantando, senza dir nulla, raccolse le monete e si mise a contarle su ′l banco, lentamente, tenendo la bocca atteggiata al dispregio. L′Africana guardava ora le monete, ora la faccia dell′uomo, ansando come una bestia stracca. Si udiva il tintinno del rame, il russare aspro di Binchi-Banche, il saltellare della tortora, in mezzo al continuo rumore della pioggia e del fiume giù per il Bagno e per la Bandiera. Nen m′abbaste, disse finalmente Passacantando. Ce vo′l′autre. Cacce l′autre, se no i′me ne vajie.

Egli s′era schiacciato il berretto su la nuca. Il ciuffo rotondo gli copriva la fronte, e sotto il ciuffo li occhi bianchicci, pieni d′impudenza e d′avarizia, guardavano l′Africana intentamente, involgendo quella femmina in una specie di fascinazione malefica.

I nen tenghe chiù niende. Tu mi siè spujate. Quelle che truove, pijiatele.... balbettava l′Africana, supplichevole, carezzevole, mentre la pappagorgia e le labbra le tremavano, e le lagrime le sgorgavano dalli occhietti porcini.

′Mbé, fece Passacantando, a voce bassa, chinandosi verso di lei. ′mbé, e t′acride che i′nen sacce che maritete tene li marenghe d′ore?

Oh, Giuvanne.... E coma facce pover′ammè?

Tu, mo, sùbbito, vall′a pijà. I′t′aspett′a qua. Maritete dorme. Quest′è lu momende. Va ; se no nen m′arvide chiù, pe′ Sant′Andonie !

Oh, Giuvanne.... I′ tenghe pahure.

Che pahure e nen pahure ! strillò Passacantando.

Mo ce venghe pure i′. ′Jame !

L′Africana si mise a tremare. Indicò Binchi-Banche che stava ancora disteso sotto la tavola, nel sonno pesante.

Chiudème prime la porte, ella consigliò, con sommessione. Passacantando destò con un calcio Binchi-Banche, che per lo spavento improvviso cominciò a urlare e a dimenarsi entro i suoi stivali finché non fu quasi trascinato fuori, nella mota e nelle pozzanghere. La porta si chiuse. La lanterna rossa, che stava appiccata ad una delle imposte, illuminò la taverna d′un rossore sudicio; li archi massicci si disegnarono in ombra profonda; la scala nell′angolo divenne misteriosa; tutta l′architettura prese un′apparenza di scenario romantico ove dovesse rappresentarsi un qualche dramma feroce.

Iame ! ripetè Passacantando all′Africana che ancora tremava.

Ambedue salirono adagio per la scala di mattoni che sorgeva nell′angolo più oscuro, la femmina innanzi, l′uomo indietro. In cima alla scala era una stanza bassa, impalcata di travature. Sopra una parete era incrostata una madonna di maiolica azzurrognola; e davanti le ardeva in un bicchiere pieno d′acqua e d′olio un lume, per voto. Le altre pareti copriva, come una lebbra multicolore, una quantità d′imagini di carta in brandelli. L′odore della miseria, l′odore del calore umano nei cenci, empiva la stanza.

I due ladri si avanzavano verso il letto cautamente.

Stava su ′l letto maritale il vecchio, immerso nel sonno, respirante con una specie di sibilo fioco a traverso le gengive senza denti, a traverso il naso umido e dilatato dal tabacco. La testa calva posava di sbieco sopra un guanciale di cotone rigato; su la bocca cava, simile a un taglio fatto su una zucca infracidita, si rizzavano i baffi ispidi e ingialliti dal tabacco; e uno delli orecchi visibile rassomigliava all′orecchio rovesciato di un cane, essendo pieno di peli, coperto di bolle, lucido di cerume. Un braccio usciva fuori delle coperte, nudo, scarno, con grossi rilievi di vene simili alle gonfiezze delle varici, la mano adunca teneva un lembo del lenzuolo, per abitudine di prendere.

Ora, questo vecchio ebete possedeva da tempo due marenghi avuti in lascito non si sa da qual parente usuraio; e li conservava con gelosa cura dentro una tabacchiera di corno in mezzo al tabacco, come alcuni fanno di certi insetti muschiati. Erano due marenghi gialli e lucenti; ed il vecchio vedendoli ad ogni momento e ad ogni momento palpandoli nel prendere tra l′indice e il pollice l′aroma, sentiva in sè crescere la passione dell′avarizia e la voluttà del possesso.

L′Africana si accostò pianamente, trattenendo il respiro, mentre Passacantando la incitava con i gesti al furto. Si udì per le scale un rumore. Ambedue ristettero. La tortora spennacchiata e zoppa entrò saltellando nella stanza; trovò il nido in una ciabatta, a piè del letto maritale. Ma come ancora, nell′accomodarsi, faceva strepito, l′uomo con un moto rapido la serrò nel pugno, con una stretta la soffocò.

Ci sta ? chiese all′Africana.

" Sì, ci sta, sott′a lu cuscine.... rispose quella mentre insinuava sotto il guanciale la mano.

Il vecchio, nel sonno, si mosse, mettendo un gemito involontario, ed apparve tra le sue palpebre un po′ del bianco delli occhi. Poi ricadde nell′ottusità del sopore senile.

L′Africana, per l′immensa paura, divenne audace; spinse la mano d′un tratto, afferrò la tabacchiera; e, con un moto di fuga, si rivolse verso le scale; discese seguita da Passacantando.

O Die! O Die! Vide che so fatte pe′ te!... balbettava, abbandonandosi addosso all′uomo.

Ed ambedue si misero insieme, con le mani malferme, ad aprire la tabacchiera, a cercare fra il tabacco, le monete d′oro. L′acuto aroma saliva loro per le narici; ed ambedue, come sentivano l′eccitazione a starnutire, furono invasi d′improvviso da un impeto d′ilarità. E, soffocando il rumore delli sternuti barcollavano e si sospingevano. Al gioco, la lussuria nella pinguedine dell′Africana insorgeva. Ella amava d′essere amorosamente morsicata e bezzicata e sballottata e qua e là percossa da Passacantando; fremeva tutta e tutta si ribrezzava nella sua bestiale orridezza. Ma, a un punto, prima si udì un brontolio indistinto e poi gridi rauchi proruppero su nella stanza. E il vecchio comparve in cima alla scala, livido alla luce rossastra della lanterna, magro scheletrito, con le gambe nude, con una camicia a brandelli. Guardava in giù la coppia ladra; ed agitando le braccia gridava come un′anima dannata :

Li marenghe ! Li marenghe ! Li marenghe !

Modificato da tornese71
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Nel bellissimo romanzo Signora Ava, di Francesco Jovine, ambientato in Molise tra il 1859 e il 1860, vengono citati 10 volte i carlini, 24 volte i ducati, 3 volte i tornesi, 1 volta le piastre.

E' impossibile qui riportare tutti i relativi passaggi.

Mi limito solo a qualcuno.

Qui vengono ricordati carlini e ducati, con possibilità di ricavarne il rapporto (10 carlini per un ducato, 60 carlini = 6 ducati):

Per il due di novembre Don Matteo aveva avuto una giornata di gran lavoro; aveva detto sulle pietre tombali della chiesa una sessantina di «Libere» a un carlino l'una. Aveva messi insieme sei ducati: aveva incominciato prima dell'alba e alle nove di sera ancora cantava.

Qui abbiamo i ancora i ducati e il tornese, con indicazioni sul potere d'acquisto:

Don Matteo non era mai stato tanto ricco: cinquanta ducati in una volta poteva averli solo per merito di Don Girolamo fabiano, curato-arciprete di Palata che per un anno intero l'aveva tenuto senza un tornese portandolo a spasso con promesse e rinvii.

«Cinquanta ducati, - pensava Don Matteo, - sono una bella somma: con cinquanta ducati si comprano cinque maiali, oppure si fanno una sottana e una zimarra nuova e si comprano tre maiali solamente. Ma cosa me ne farei dei maiali? Meglio venti pecore, forse anche venticinque. Matteo può dare le venticinque pecore a mezzadria e avere tanto formaggio, latte, e agnelli a Pasqua».

Questa invece è l'unica citazione delle piastre (parte di una lettera con richiesta di riscatto):

La persona deve essere senza armi e portare cinquemila piastre di buono argento e trovarsi a ventun ora in punto alla Morgia Rossa.

Cinquemila piastre non erano proprio una cifretta trascurabile, ma evidentemente il destinatario del ricatto poteva permettersi l'esborso, visto quanto si legge subito dopo:

Amabilissimo Don Rocco, sappiamo che siete ricco, che misurate i ducati a tomoli, questa è pizzicata di tabacco per voi, per noi poveri soldati ci è necessaria come il pane e il vino.

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Qui ce ne sono un po' già selezionate.

Questa la mia preferita

QUER PASTICCIACCIO BRUTTO DE VIA MERULANA – CARLO EMILIO GADDA

E queli marenghi cor galantomo brutto? Queli marenghini gialli gialli tonni tonni de

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20 Lire – Vittorio Emanuele II 1874

quanno nun c’era ancora sto Pupazzo a palazzo Chiggi, a strillà dar balcone come uno stracciarolo? Ce n’aveva quarantaquattro, Lilianuccia, quarantaquattro contati: che faceveno cin cin dentro a un sacchetto de seta rosa, de li confetti der matrimonio de nonna.

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Ecco il mio piccolo contributo:



La tua città ( ... )

produce e spande il maledetto fiore

c’ha disviate le pecore e li agni

( Paradiso, IX 127 - 131 )


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Modificato da tartachiara
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Queste non potevo non metterle :lol:

Petronio Arbitro - Satyricon

Qui, un padrone vanta i pregi del suo schiavo:

All'occorrenza sa fare di tutto: il calzolaio, il cuoco, il pasticciere: insomma riesce in tutto...Che poi sia strabico, questo per me non ha importanza. Anche Venere guarda a quel modo...L'ho pagato trecento denari.

e qui, uno degli ospiti alla cena di Trimalcione, quelli della sua amante:

Forse conoscevate anche voi Melissa, la tarantina, un pezzo di figliola, stupenda...Qualunque cosa le chiedessi ella non me lo negava mai e non guadagnava un asse senza che io ne avessi la metà. Le lasciavo tutto in custodia e non ebbi mai a pentirmene.

petronius oo)

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A proposito di Firenze e di falsari di fiorini messi al rogo:

Ivi è Romena, là dov’io falsai
la lega suggellata del Batista;
per ch’io il corpo sù arso lasciai

Dante, Inferno, XXX, vs 72-75

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Supporter

Un episodio della vita di Alessandro Magno da ‘Il romanzo di Alessandro’ di Valerio Massimo Manfredi, che possiamo intitolare: ‘Lo statere di Alessandro’

Una sera Olympias mandò a chiamare Alessandro e appena lo vide, lo strinse in un abbraccio frenetico.

- Che cosa c'è, mamma? -le chiese il giovane staccandola da sé e fissandola.

Olympias aveva occhi grandi e cupi come i laghi delle sue montagne native e il suo sguardo rifletteva in quei momenti il contrasto violento delle passioni che le agitavano l'animo.

Abbassò il capo mordendosi il labbro inferiore.

- Tuo padre ha un’amante.

- Mio padre è un uomo focoso e una donna sola non gli è mai bastata. Inoltre è il nostro re.

Ma questa volta era diverso. Filippo si era innamorato di una ragazza che aveva l’età di sua figlia Cleopatra.

Inoltre la ragazza era incinta e lui voleva sposarla.

- Chi è? - domandò Alessandro scuro in volto.

- Euridice, la figlia del generale Attalo. Capisci adesso perché sono preoccupata? Euridice è macedone, figlia della migliore nobiltà, non è una straniera come me.

- Questo non significa nulla. Tu sei stirpe di re, discendente di Pirro, figlio di Achille, e di Andromaca, sposa di Ettore.

- Favole, figlio mio. Supponiamo che la ragazza partorisca un maschio...

Alessandro ammutolì agitato da un turbamento improvviso. - Spiegati chiaramente.

- E supponiamo che Filippo mi ripudi e che dichiari Euridice regina: suo figlio diventerebbe l'erede legittimo e tu il bastardo, il figlio della straniera ripudiata.

- Perché dovrebbe farlo? Mio padre mi ha sempre voluto bene e mi ha educato per diventare re.

- Tu non capisci. Una ragazza bella e ardente può sconvolgere completamente la mente di un uomo maturo, e un bambino appena nato attirerà tutte le sue attenzioni perché lo farà sentire giovane, riportando indietro il tempo che scorre inesorabile.

Alessandro non seppe che cosa rispondere. Quelle parole lo avevano profondamente turbato. L’idea che suo padre lo relegasse d’un tratto fuori dai suoi pensieri e dai suoi progetti non l’aveva mai toccato e mai se lo sarebbe aspettato proprio nel momento in cui aveva meritato la sua riconoscenza contribuendo alla grande vittoria di Cheronea e assolvendo la delicata missione diplomatica ad Atene. Si sedette su una sedia e appoggiò la fronte sulla mano sinistra, come per raccogliere i suoi pensieri. - Che cosa dovrei fare, secondo te?

- Niente. Adesso non si può fare niente. Ma ho voluto parlartene per metterti in guardia, perché da ora in poi potrebbe succedere qualunque cosa.

Filippo rientrò pochi giorni dopo, convocò il figlio immediatamente nelle sue stanze e lo abbracciò impetuosamente appena lo vide. - Per gli dei, hai un magnifico aspetto. Come te la sei passata ad Atene? - Ma senti che il ragazzo gli restituiva un abbraccio impacciato.

Alessandro chiese conto a suo padre di ciò che gli aveva detto Olympias.

Filippo si raggelò d'un tratto e cominciò a misurare la camera a grandi passi. - Tua madre. Tua madre! esclamò. – E’ astiosa, divorata dalla gelosia e dal malanimo. E vuole metterti contro di me. E’ così, non è vero?

- Hai un’altra donna - affermò Alessandro, gelido.

- E con questo? Non sarà né la prima né l’ultima. E’ un fiore, è bella come il sole, come Afrodite!

Filippo cercava di trattenere la sua ira. Non voleva lasciare che Olympias insinuasse dei dubbi nel cuore di suo figlio.

Lo trascinò dabbasso lungo una scala e poi in fondo a un corridoio, nella zona delle officine. Spalancò una porta spingendolo dentro quasi a forza.

- Guarda!

Alessandro si trovò in mezzo a una camera rischiarata da una grande finestra laterale. Appoggiato a un tavolo c’era un tondo in argilla che lo ritraeva di profilo e lo rappresentava con i capelli cinti da una corona d’alloro, come il dio Apollo.

- Ti piace? - chiese una voce da un angolo scuro.

- Lisippo! - esclamò Alessandro volgendosi di scatto e abbracciando il maestro.

- Ti piace? - ripeté Filippo dietro di lui.

- Ma che cos’è?

- E’ il modello di uno statere d'oro del regno di Macedonia che verrà coniato da domani per ricordare la tua vittoria a Cheronea e la tua dignità di erede al trono. Circolerà in tutto il mondo in diecimila esemplari - rispose il sovrano.

Alessandro abbassò il capo, confuso.

Il gesto di Filippo e la presenza di Lisippo a corte servirono a diradare per un poco le nubi che avevano oscurato il rapporto fra padre e figlio, ma Alessandro si rese ben presto conto di persona di quanto fosse importante il legame che univa suo padre alla giovane Euridice. Tuttavia, i pressanti impegni della politica distrassero sia il re sia il principe dalle faccende private di corte. Ma il problema si ripresenterà più avanti…

apollonia

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Come non citare Il Pinocchio di Collodi:

La Lumaca lo informa che la sua padrona giace in un letto d'ospedale, povera e malata: Pinocchio le offre generosamente tutti i suoi quaranta soldi di rame e promette alla Lumaca di lavorare ancor più duramente per aiutare la Fata.

Pinocchio, però, non riesce a raggiungere il padre: subito fuori dalla casa della Fata, infatti, incontra il Gatto e la Volpe, che lo convincono nuovamente a sotterrare i quattro zecchini rimasti nel Campo dei miracoli

Pinocchio che sotterra le monete nel Campo dei Miracoli sotto lo sguardo attento e interessato del Gatto e la Volpe.

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apollonia

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Per i cultori della cartamoneta:

Rustichello Da Pisa - Marco Polo

Il Milione, cap. 95

Testimonianza sull'uso di cartamoneta nei domini del Gran Khan (testo preso da QUI):

Egli è vero che in questa città di Canbalu è la tavola del Grande Sire; e è ordinato in tal maniera che l’uomo puote ben dire che ’l Grande Sire àe l’archimia perfettamente; e mosteròvilo incontanente.

Or sappiate ch’egli fa fare una cotal moneta com’io vi dirò. Egli fa prendere scorza d’un àlbore ch’à nome gelso – è l’àlbore le cui foglie mangiano li vermi che fanno la seta -, e cogliono la buccia sottile che è tra la buccia grossa e ’l legno dentro, e di quella buccia fa fare carte come di bambagia; e sono tutte nere. Quando queste carte sono fatte cosí, egli ne fa de le piccole, che vagliono una medaglia di tornesegli picculi, e l’altra vale uno tornesello, e l’altra vale un grosso d’argento da Vinegia, e l’altra un mezzo, e l’altra 2 grossi, e l’altra 5, e l’altra 10, e l’altra un bisante d’oro, e l’altra 2, e l’altra 3; e cosí va infino 10 bisanti. E tutte queste carte sono sugellate del sugello del Grande Sire, e ànne fatte fare tante che tutto ’l tesoro (del mondo) n’appagherebbe. E quando queste carte sono fatte, egli ne fa fare tutti li pagamenti e spendere per tutte le province e regni e terre ov’egli à segnoria; e nesuno gli osa refiutare, a pena della vita.

E sí vi dico che tutte le genti e regioni che sono sotto sua segnoria si pagano di questa moneta d’ogne mercatantia di perle, d’oro, d’ariento, di pietre preziose e generalemente d’ogni altra cosa. E sí vi dico che la carta che si mette (per) diece bisanti, no ne pesa uno; e sí vi dico che piú volte li mercatanti la cambiano questa moneta a perle e ad oro e a altre cose care. E molte volte è regato al Grande Sire, per li mercatanti che vale 400.000 bisanti e ’l Grande Sire fa tutto pagare di quelle carte, e li mercatanti le pigliano volentieri, perché le spe(n)dono per tutto il paese.

E molte volte fa bandire lo Gra(nde) Kane che ogni uomo ch’àe oro o ariento o perle o priete preziose o alcuna altra cara cosa, incontanente l’abbi a porta[r]e a la tavala del Grande Sire, e egli le fa pagare di queste carte; e tanta gliene viene di questa mercatantia che è uno miracolo.

E quando ad alcuno si rompe e guastasi alcuna di queste carte e egli vae a la tavola del Grande Sire, incontanente gliele cambia e (ègli) data bella e nuova, ma sí gliene lascia 3 per 100. Ancora sappiate che se alcuno vuole fare vasellamento d’ariento o cinture, e egli vae a la tavola del Grande Sire, dell’ariento del Grande Sire gliene dà tanto quanto vuole per queste carte, secondo che si spendono. E questo è la ragione perché ’l Grande Sire dé avere piú oro e piú ariento che niuno signore del mondo; e sí vi dico che tra tutti li signori del mondo non ànno tanta ricchezza com’à ’l Grande Kane solo.

In qualche modo il cerchio si è chiuso quando in Italia fu stampata la banconota da 1.000 lire con il ritratto di Marco Polo

Aggiungo anche un interessante link a una pagina del sito di Moruzzi:

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Cecco Angiolieri "Tre cose solamente"

Tre cose solamente mi so ’n grado,
le quali posso non ben men fornire:
ciò è la donna, la taverna e ’l dado;
queste mi fanno ’l cuor lieto sentire.

Ma sì me le conven usar di rado,
ché la mie borsa mi mett’al mentire;
e quando mi sovvien, tutto mi sbrado,
ch’i’ perdo per moneta ’l mie disire.

E dico: – Dato li sia d’una lancia! –
Ciò a mi’ padre, che mi tien sì magro,
che tornare’ senza logro di Francia.

Trarl’un denai’ di man serìa più agro,
la man di pasqua che si dà la mancia,
che far pigliar la gru ad un bozzagro.

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Divina Commedia Inferno – Canto Trentesimo

58 «O voi che sanz’alcuna pena siete,

e non so io perché, nel mondo gramo»,

diss’elli a noi, «guardate e attendete

a la miseria del maestro Adamo;

Il maestro Adamo fu istigato dai conti Guidi a falsificare il fiorino di Firenze.

88 Io son per lor tra sì fatta famiglia;

e’ m’indussero a battere li fiorini

ch’avevan tre carati di mondiglia».

Caduto nelle mani della Signoria fiorentina, venne arso vivo come falsario.

Nella decima bolgia dell’Inferno incontriamo il “falsatore di moneta” maestro Adamo. Il dannato ha il ventre gonfio ed enorme per l’idropisia (malattia che porta a un eccessivo gonfiore per la presenza di liquido a carattere trasudativo in una o più cavità sierose) e il collo e il volto magri e asciutti; cosa che porta il Poeta all’osservazione che, se fosse stato privo delle gambe, sarebbe sembrato un liuto (come dire, un mandolino).

Maestro Adamo, arso vivo per ordine della Signoria fiorentina, fu istigato dai conti Guidi a falsificare il Fiorino di Firenze: “e’ m’indussero a battere di fiorini ch’avevan tre carati di mondiglia”. Il fiorino era fatto di oro puro, cioè di 24 carati, e il falsario ne sostituiva tre con metallo di lega frodando tre carati per fiorino.

Da notare la vis poetica di Dante che in questi versi chiama “lega suggellata” l’allegazione di metalli che per conio improntato diventano moneta.

apollonia

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«Rosa fresca aulentisima ch’apari inver’ la state,
le donne ti disiano, pulzell’ e maritate:
tràgemi d’este focora, se t’este a bolontate;
per te non ajo abento notte e dia,
penzando pur di voi, madonna mia».

«Se di meve trabàgliti, follia lo ti fa fare.
Lo mar potresti arompere, a venti asemenare,
l’abere d’esto secolo tuto quanto asembrare:
avere me non pòteri a esto monno;
avanti li cavelli m’aritonno».

«Se li cavelli artóniti, avanti foss’io morto,
ca’n isi [sí] mi pèrdera lo solaço e ’l diporto.
Quando ci passo e véjoti, rosa fresca de l’orto,
bono conforto dónimi tutore:
poniamo che s’ajúnga il nostro amore».

«Che ’l nostro amore ajúngasi, non boglio m’atalenti:
se ci ti trova pàremo cogli altri miei parenti,
guarda non t’argolgano questi forti correnti.
Como ti seppe bona la venuta,
consiglio che ti guardi a la partuta».

«Se i tuoi parenti trovami, e che mi pozzon fare?
Una difensa mètonci di dumili’ agostari: (1)
non mi tocara pàdreto per quanto avere ha ’n Bari.
Viva lo 'mperadore, graz' a Deo!
Intendi, bella, quel che ti dico eo?»

«Tu me no lasci vivere né sera né maitino.
Donna mi so’ di pèrperi, (2) d’auro massamotino. (3)
Se tanto aver donàssemi quanto ha lo Saladino,
e per ajunta quant’ha lo soldano,
tocare me non pòteri a la mano».

«Molte sono le femine c’hanno dura la testa,
e l’omo con parabole l’adímina e amonesta:
tanto intorno procazzala fin che·ll’ha in sua podesta.
Femina d’omo non si può tenere:
guàrdati, bella, pur de ripentere».

«K’eo ne pentésseme? davanti foss’io aucisa
ca nulla bona femina per me fosse ripresa!
Ersera passàstici, corenno a la distesa.
Aquístati riposa, canzonieri:
le tue parole a me non piacion gueri».

«Quante sono le schiantora che m’ha’ mise a lo core,
e solo purpenzànnome la dia quanno vo fore!
Femina d’esto secolo tanto non amai ancore
quant’amo teve, rosa invidïata:
ben credo che mi fosti distinata».

«Se distinata fósseti, caderia de l’altezze,
ché male messe fòrano in teve mie bellezze.
Se tuto adiveníssemi, tagliàrami le trezze,
e consore m’arenno a una magione,
avanti che m’artochi ’n la persone».

«Se tu consore arènneti, donna col viso cleri,
a lo mostero vènoci e rènnomi confleri:
per tanta prova vencerti fàralo volontieri.
Conteco stao la sera e lo maitino:
Besogn’è ch’io ti tenga al meo dimino».

«Boimè tapina misera, com’ao reo distinato!
Geso Cristo l’altissimo del tuto m’è airato:
concepístimi a abàttare in omo blestiemato.
Cerca la terra ch’este grane assai,
chiú bella donna di me troverai».

«Cercat’ajo Calabra, Toscana e Lombardia,
Puglia, Costantinopoli, Genoa, Pisa e Soria,
Lamagna e Babilonïa [e] tuta Barberia:
donna non trovai tanto cortese,
per che sovrana di meve te prese».

«Poi tanto trabagliàsti, facioti meo pregheri
che tu vadi adomànimi a mia mare e a mon peri.
Se dare mi ti degnano, menami a lo mosteri,
e sposami davanti da la jente;
e poi farò le tuo comannamente».

«Di ciò che dici, vítama, neiente non ti bale,
ca de le tuo parabole fatto n’ho ponti e scale.
Penne penzasti metere, sonti cadute l’ale;
e dato t’ajo la bolta sotana.
Dunque, se poi, tèniti villana».

«En paura non metermi di nullo manganiello:
istòmi ’n esta grorïa d’esto forte castiello;
prezzo le tuo parabole meno che d’un zitello.
Se tu no levi e va’tine di quaci,
se tu ci fosse morto, ben mi chiaci».

«Dunque voresti, vítama, ca per te fosse strutto?
Se morto essere déboci od intagliato tuto,
di quaci non mi mòsera se non ai’ de lo frutto
lo quale stäo ne lo tuo jardino:
disïolo la sera e lo matino».

«Di quel frutto non àbero conti né cabalieri;
molto lo disïano marchesi e justizieri,
avere no’nde pòttero: gíro’nde molto feri.
Intendi bene ciò che bol dire?
Men’este di mill’onze lo tuo abere».

«Molti so’ li garofani, ma non che salma ’nd’ài:
bella, non dispregiàremi s’avanti non m’assai.
Se vento è in proda e gírasi e giungeti a le prai,
arimembrare t’ao ste parole,
ca de tra ’sta animella assai mi dole».

«Macara se doléseti che cadesse angosciato:
la gente ci coresoro da traverso e da·llato;
tut’a meve dicessono: ’Acori esto malnato’!
Non ti degnara porgere la mano
per quanto avere ha ’l papa e lo sodano».

«Deo lo volesse, vitama, te fosse morto in casa!
L’arma n’anderia cònsola, ca dí e notte pantasa.
La jente ti chiamàrono: ’Oi perjura malvasa,
c’ha’ morto l’omo in càsata, traíta!’
Sanz’oni colpo lèvimi la vita».

«Se tu no levi e va’tine co la maladizione,
li frati miei ti trovano dentro chissa magione.
be·llo mi sofero pèrdinci la persone,
ca meve se’ venuto a sormonare;
parente néd amico non t’ha aitare».

«A meve non aítano amici né parenti:
istrani’ mi so’, càrama, enfra esta bona jente.
Or fa un anno, vítama, che ’ntrata mi se’ ['n] mente.
Di canno ti vististi lo maiuto,
bella, da quello jorno so’ feruto».

«Di tanno ’namoràstiti, Iuda lo traíto,
como se fosse porpore, iscarlato o sciamito?
S’a le Va[n]gele júrimi che mi sï’ a marito,
avere me non pòter’a esto monno:
avanti in mare ítomi al perfonno».

«Se tu nel mare gítiti, donna cortese e fina,
dereto mi ti mísera per tuta la marina,
poi c’anegàseti, trobàrati a la rena
solo per questa cosa adimpretare:
conteco m’ajo agiungere a pecare».

«Segnomi in Patre e ’n Filïo ed i[n] santo Mateo:
so ca non se’ tu retico, figlio di giudeo,
e cotale parabole non udi’ dire anch’eo.
Morta si la femina a lo ’ntutto,
pèrdeci lo saboro e lo disdotto».

«Bene lo saccio, càrama: altro non pozzo fare.
Se quisso non arcòmplimi, làssone lo cantare.
Fallo, mia donna, plàzzati, ché bene lo puoi fare.
Ancora tu no m’ami, molto t’amo,
sí m’hai preso come lo pesce a l’amo».

«Sazzo che m’ami, àmoti di core paladino.
Lèvati suso e vatene, tornaci a lo matino.
Se ciò che dico fàcemi, di bon cor t’amo e fino.
Quisso t’imprometto sanza faglia:
te’ la mia fede che m’hai in tua baglia».

«Per zo che dici, càrama, neiente non mi movo.
Intanti preni e scànnami: tolli esto cortel novo.
Esto fatto far pòtesi intanti scalfi un uovo.
Arcompli mi’ talento, 'mica bella,
ché l’arma co lo core mi si ’nfella».

«Ben sazzo, l’arma dòleti, com’omo ch’ave arsura.
Esto fatto non pòtesi per null’altra misura:
se non ha’ le Vangele, che mo ti dico ’Jura’,
avere me non puoi in tua podesta;
intanti preni e tagliami la testa».

«Le Vangele, càrama? ch’io le porto in seno:
a lo mostero présile (non ci era lo patrino).
Sovr’esto libro júroti mai non ti vegno meno.
Arcompli mi’ talento in caritate,
ché l’arma me ne sta in sutilitate».

«Meo sire, poi juràstimi, eo tuta quanta incenno.
Sono a la tua presenza, da voi non mi difenno.
S’eo minespreso àjoti, merzé, a voi m’arenno.
A lo letto ne gimo a la bon’ora,
ché chissa cosa n’è data in ventura».

Cielo d'Alcamo, Sicilia, XIII secolo.

(1) augustali : monete d'oro di Federico II di Svevia battute nelle zecche di Brindisi e Messina

(2) hyperpyra : monete d'oro dell'impero bizantino, dall'epoca dei Comneni in poi, conosciute in Occidente anche con il nome di bisanti (nome spesso riferito genericamente alle monete d'oro orientali, comprese quelle islamiche)

(3) probabilmente riferito alle monete d'oro (dinar) coniate in Spagna dalla dinastia degli Almohadi, che proveniva dalla tribù berbera dei Masmuda; o, più in generale, alla purezza dell'oro con cui erano fabbricate : 20 carati 1/2, la stessa dell'hyperpyron e dell'augustale (oro di pagliola)

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Io non posso che contribuire miseramente con le citazioni dal mondo dell'Opera lirica...
"Un zecchin! Null'altro ho qua..." - L'elisir d'amore, G. Donizetti
"Deh, scimunito! Se denari non hai fatti soldato e venti scudi avrai!" - L'elisir d'amore, G. Donizetti
"Lascio ai frati minori e all'Opera di Santa Reparata cinque lire!" - Gianni Schicchi, G. Puccini
"I fiorini in contanti li lascio in parti eguali fra i parenti" - Gianni Schicchi, G. Puccini
"Zita, di vostra borsa date venti fiorni ai testimoni e cento al buon notaio!" - Gianni Schicchi, G. Puccini
"A te due popolini! Comprati i confortini!" - Gianni Schicchi, G. Puccini
"ZITA

a Gianni
Ecco la cappellina!
a bassa voce
Se mi lasci la mula,
questa casa, i mulini
di Signa,
ti do trenta fiorini!

GIANNI
Sta bene!

Zita si allontana fregandosi le mani

SIMONE
avvicinandosi con fare distratto a Schicchi; a bassa voce
Se lasci a me la casa
la mula ed i mulini,
ti do cento fiorini!

GIANNI
Sta bene!

BETTO
furtivo, a Schicchi
Gianni, se tu mi lasci
questa casa, la mula ed i mulini
di Signa, ti fo gonfio di quattrini!

Nella parla a parte con Gherardo

GIANNI
Sta bene!

La Ciesca parla a parte con Marco

NELLA
lasciando Gherardo, che ora la sta a osservare, mentre essa parla a Gianni
Ecco la pezzolina!
Se lasci a noi la mula,
i mulini di Signa e questa casa,
a furia di fiorini ti s'intasa!

GIANNI
Sta bene!

Nella va da Gherardo, gli parla all'orecchio e tutti e due si fregano le mani

LA CIESCA
Ed ecco la camicia!
Se ci lasci la mula,
i mulinì di Signa e questa casa,
per te mille fiorini!" - Gianni Schicchi, G. Puccini

"Son Luigi e giusti e bei!" - Il signor Bruschino, G. Rossini
"Ha fatto un debito di quattrocento franchi!" - Il signor Bruschino, G. Rossini
"- Vieni qui, facciamo pace! Prendi!
- Cosa?
- Quattro doppie!" - Don Giovanni, W. A. Mozart
"- Cento Luigi a destra!
- E tal a manca, cento!" - La traviata, G. Verdi
"- Or v'abbisogna?
- Mille Luigi!" - La traviata, G. Verdi
" - Quale somma v'ha in quello stipo?
- Venti Luigi!
- Dieci ne reca ai poveri tu stessa!" - La traviata, G. Verdi
" Per ogni pezzo do trenta soldi!" - La forza del destino, G. Verdi
"Se solo avessi cento pezzi d'oro!" - Il cavaliere avaro, Rachmaninov
"Venti scudi hai tu detto? Eccone dieci, e dopo l'opra il resto!" - Rigoletto, G. Verdi
"Ebbene, son pronto, quell'uscio dischiudi! Più ch'altro gli scudi mi preme salvar!" - Rigoletto, G. Verdi
"Sei polli: sei scellini!
Trenta giare di Xeres: due lire!
Tre tacchini: ...
Fruga nella mia borsa!!!
- Un mark! Un mark! Un penny!
- Fruga!!
- Ho frugato!
- Fruga!!!
- Qui non c'è più uno spicciolo!
- Sei la mia distruzione!! Spendo ogni sette giorni dieci ghinee! Beone!!" - Falstaff, G. Verdi
"Qui c'eran due scellini del regno d'Edoardo e sei mezze corone: non ne riman più segno!" - Falstaff, G. Verdi
"Alla modista cento scudi... Obbligato!!
Al carrozzier... seicento! Poca roba!
Novecentocinquanta al gioielliere!!!" - Don Pasquale, G. Donizetti
"- Giochiam?
- Giochiamo!
- Cento zecchini?
- E mille, se volete!!" - Così fan tutte, W. A. Mozart

Modificato da ziopaperone89
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E poi mi vengono in mente su due piedi citazioni da Via col Vento:
"I nordisti vogliono ancora trecento dollari per pagare le tasse di Tara!"
"Dieci... Venti... Cinquanta! E non sono banconote: è oro!"

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