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Le fonti storiche non numismatiche ci hanno restituito, e solo per caso, esclusivamente il nome di due monetarî: M. Fonteius, difeso dopo il 69 da Cicerone, e C. Claudius Pulcher, di cui si è conservato l'elogio funebre. Tuttavia non si conservano monete firmate da M. Fonteius; Cr. gli riserva una serie "vuota", la n. 347; Mattingly invece gli attribuisce la serie 353, ritenendo che la tradizione manoscritta di Cicerone abbia equivocato il praenomen; Pedroni infine utilizza questo argomento a sostegno della sua tesi secondo cui il nome sui denarî non è del monetario, bensì del privato che ha fornito l'argento. Per l'intepretazione della raffigurazione (Vejove? Apollo Vejovis?) e del monogramma (Apollo? Argento Publico? Roma?) presenti al D/, si veda Cr. 298/1. Al R/ abbiamo una capra (Amaltea?) cavalcata da un genietto alato o amorino (Cupido?), sovrastato da due berretti frigi o pilei; nel campo sottostante un tirso. La raffigurazione di Amaltea, una capra, si sposa con quella di Vejove, mentre la figura che la cavalca è di incerta interpretazione; potrebbe trattarsi anche solo di un' immagine di repertorio (l'amorino è un motivo molto comune negli affreschi pompeiani). Suscita invece dubbî l'identificazione con Cupido, non risultando miti che lo colleghino a figure caprine. Il tirso è attributo di Dioniso e, per estensione, dei satiri che compongono il suo corteo; i berretti frigi sono solitamente simbolo dei Dioscuri. Secondo il Cr., potrebbe trattarsi di un riferimento a Tusculum (affiancata ai Dioscuri, ad esempio, nella moneta Cr. 515/1), luogo di origine della famiglia del monetiere. In alternativa, il collegamento potrebbe essere cercato nel rapporto che intercorre tra Fauno (talvolta confuso e accomunato a sileni e satiri), divinità italica agreste della fertilità e i Lari, due gemelli (come i Dioscuri), anch'essi divinità italiche molto antiche, dedite alla protezione del territorio e delle persone che lo abitano. Nel mondo romano più antico esisteva una differenziazione della terra cosiddetta "vicina" in due grandi regioni contigue, una di cui gli uomini avevano il pieno controllo, l'altra in cui invece si sentivano estranei. La prima era soggetta all'azione dei Lari, sulla seconda invece agivano dei e demoni, tra cui Fauno, che presiedeva sulle foreste immediatamente al di fuori del centro abitato. I legami tra Fauno e i Lari sono molti: Fauno è, come i Lari, un nume tutelare del territorio, sorveglia il limite tra città e campagna, tra boscaglia e campi coltivati. Fauno con i Lari condivide anche l'iconografia che, spesso, confonde le sue raffigurazioni con quelle di Silvano

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L'attribuzione a Vejove è resa incerta anche dal fatto che l'unica statua di attribuzione certa, rivenuta nella cella del tempio sul Campidoglio, è acefala e priva delle mani con gli attributi. Vejove era una divinità autoctona essenzialmente infernale, identificata come la potenza distruttrice della natura, che presiedeva alle paludi e agli eventi vulcanici ed assordava col fulmine. Una radicata tradizione (accolta dal Grimal) ritiene che, in epoca tarda, sia stato assimilato ad Apollo, di cui sarebbe la manifestazione più oscura, con l'attributo di Apollo Vejovis. Secondo Kerényi, tuttavia, gli scrittori antichi parlavano sempre di Vejove in antitesi a Giove, e più precisamente la parte più oscura di Giove, che trova un parallelo con Zeus Katachthonios ("Sotterraneo"). Malgrado numerosi punti di contatto con Apollo, i Romani lo ritennero sempre Ve-Jovis (ove il prefisso può essere interpretato come diminutivo, seguendo Ovidio, "Piccolo Giove", o come negazione del valore semantico, seguendo Gellio, "Giove che non aiuta"), una versione in negativo della divinità, che bisogna placare. Rappresentazione della parte ctonia del grande dio a compendio della sua natura celeste, Vejove è un dio romano, probabilmente assimilato da una divinità italica giovanile, forse etrusca. Aveva come attributi un pilum e una capra, il primo come riferimento a Pilumnus e rappresentazione delle saette, la seconda come simbolo della fertilità e collegata al culto di Fauno e Fauna (solitamente Vejove veniva placato mediante un rito apotropaico di espiazione, consistente nel sacrificio proprio di una capra). Fu protettore del bosco sacro (l'Asylum) tra il Capitolium e l'Arx, dove la leggenda vuole che Romolo abbia ospitato e protetto tutti coloro che chiedevano "asilo" nella Roma neonata. Nella stessa area sorse il tempio dedicato a Vejove, tra quelli di Giunone Moneta e di Giove Capitolino, fondato nel 196 da L. Furio Purpureo come scioglimento di un voto fatto durante la battaglia di Cremona del 200 contro i Boi. La statua di culto è descritta da Aulo Gellio come quella di un dio giovane, laureato, "simulacrum dei Vedjovis, quod est in aede... sagittas tenet" con accanto una capra, probabile offerta sacrificale per il culto della divinità. L'alloro e le frecce richiamano le raffigurazioni di Apollo, di cui però Vejove sarebbe un predecessore, essendo questa divinità molto più antica in terra italica. Tra frecce e saette il passo è breve, a conferma del riconoscimento di Vejove come rappresentazione del lato infero del grande dio. Altro elemento a supporto di una parziale sovrapposizione tra le due divinità è la presenza della capra, legata a Giove come Amaltea (cui il dio stacca un corno per creare la cornucopia, che rimane però in terra italica attributo esclusivo delle dee, da Cerere a Opi, da Pomona a Fortuna). Ulteriore collegamento tra Vejove e il mondo vegetale e naturale è il tempio che sorse sull'isola Tiberina nel 194 affiancato a quello di Fauno. A lato fu poi edificato, su ordine dei decemviri sacris faciundis, anche il tempio del "greco" Esculapio (culto importato da Epidauro), allo scopo di "spuntare" le frecce del dio, debellando la peste che affliggeva l'Urbe. Entrambi dei italici, Fauno legato al soprasuolo come dio benevolo protettore delle greggi e dei pastori e Vejove collegato al sottosuolo, all'oltretomba, ai fulmini e alle acque. La festività della divinità venerata all'isola tiberina cadeva il 1° gennaio; il Vejove del Campidoglio invece veniva venerato alle none di marzo (mese dedicato a Marte). Secondo il Sabbatucci la doppia festa di Vejove riproduce il doppio capodanno che delimitava il periodo d'incubazione del nuovo anno o la sua fase preparatoria, posta tra il solstizio invernale e l'equinozio primaverile; giorni oscuri ove è decisamente logico onorare e placare una divinità potenzialmente così malevola. Il calendario venosino cita il nome di Vedjove in associazione anche agli Agonalia del 21 maggio, ma non si è certi che si tratti dello stesso dio; in caso affermativo il riferimento sarebbe al ciclo vitale delle stagioni, colla morte e resurrezione del dio in primavera. Durante la Seconda Guerra Punica, con Annibale alle porte di Roma, le divinità tradizionali parevano aver abbandonato i romani: i pontefici e la religione tradizionale non erano riusciti a ristabilire la pax deorum. E' in un simile contesto che trova spazio un Apollo guerriero, divinità chiamata in causa al fine di rimediare alla latitanza funzionale degli dei tradizionali, Marte in particolare. In questa fase è ad Apollo che si chiede la distruzione dell'esercito cartaginese. Durante la Terza Guerra Punica invece, per lo stesso scopo, Scipione Africano Minore, come riportato da Macrobio, invoca Vejove. Roma assediata, che perde fiducia verso i suoi culti tradizionali, si rifà ad Apollo; Roma che assedia, in un impeto di forza, invoca la divinità più antica. Durante l'assedio di Cartagine, Vejove viene invocato per assolvere la sua funzione tradizionale, ovvero quella ctonia ed in grado di arrecare un danno potenzialmente fatale: non è semplice guerra, quella appartiene a Marte, è la fine di un ciclo, è la cancellazione dei Cartaginesi. Secondo Varrone (De Lingua Latina, libro V, X) fu il re sabino Tito Tazio a introdurre a Roma il culto di Vejove; al riguardo, George Dumézil inquadra questa divinità "di importazione" nella terza funzione (secondo la tripartizione sovranità magica e giuridica / forza guerriera / fecondità), quella decisamente più complessa da tracciare. Più che di fecondità sarebbe meglio parlare di prosperità e di produzione-riproduzione, quindi di cicli, vitali, umani e naturali. Secondo Dumézil tale vastità trova riscontro sia nell'operato del flamine quirinale che in quello dei dodici flamini minori, il cui sacerdozio è riconducibile a divinità presiedenti a minuziosi e capillari aspetti, sempre riconducibili alla terza funzione. Al riguardo, i principali parallelismi tra il tessuto religioso, quello storico e quello sacerdotale sono: sovranità giuridica: Giove - Romolo - Flamen Dialis; sovranità magica: Giove - Numa Pompilio - Flamen Dialis; forza guerriera: Marte - Tullo Ostilio - Flamen Martialis; fecondità: Quirino - Anco Marcio - Flamen Quirinalis. Gli dei della terza funzione "si spartiscono le componenti, i corollari, gli annessi, dell'ambito della prosperità e della fecondità, e Quirino è solo un elemento di tale grande famiglia". Ops, Flora, Saturnus, Terminus, Vortumnus, Volcanus ed i Lari sono figure divine il cui culto è legato all'agricoltura ed al terreno, Diana e Lucina favoriscono le nascite, Sol e Luna hanno la funzione di regolare stagioni e mesi, Vejove, Larunda e Summano hanno un rapporto col mondo infero e sotterraneo: inizio, sviluppo e conclusione dei cicli vitali.

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Discussione sulla serie 347 "vuota" - http://www.lamoneta.it/topic/99800-monete-di-m-fonteius-serie-vuota/

Discussione sulle sigle che rinviano all'argento publico: http://www.lamoneta.it/topic/100063-denario-con-ratto-delle-sabine/

Discussione su questo denario e sulla figura di Vejove: http://www.lamoneta.it/topic/67323-fonteia/

Modificato da L. Licinio Lucullo

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