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Elenco dei contenuti che hanno ricevuto i maggiori apprezzamenti il 01/14/15 in tutte le aree
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Un saluto e Buon Anno a tutti prima che finisca in cassetta di sicurezza domattina, condivido con Voi il regalo che mi sono fatto quest'anno, un carlino da 5 doppie d'oro di Carlo Emanuele III, millesimo raro, del 1757 (quindi non il solito '55 che si vede solitamente). Di questa monetazione sono stati coniati, per le cinque date conosciute, 2.376 esemplari, gran parte dei quali non sono giunti a noi perché rifusi o comunque tesaurizzati già all'emissione. La ritengo moneta di una certa importanza e prestigio anche a livello internazionale, ed è giunta fino a me, acquistata ed entrata in collezione in un modo anche abbastanza inatteso proprio sotto Natale, che non sto a dirvi per non annoiarvi. Un massimale che reputo di grande rilievo sia per tipologia che per data che per conservazione a mio avviso, ultimamente apparso alla ribalta di varie aste internazionali con direi discreto successo di pubblico e con aggiudicazioni finali decisamente interessanti. Le foto non sono il massimo ma si sa, non sono che un dilettante; chi desidera peraltro può reperirla meglio effigiata su un noto listino a prezzi netti. Comunque la riga al R nella realtà è quasi inesistente, il bordo presenta un difettuccio di conio a ore 8 del D ed i rilievi sono generalmente ottimi sia al R che al D, con le gemme della corona ed i capelli conservati meglio di entrambi gli esemplari esitati lo scorso autunno a Ginevra e a Parigi, che ho studiato molto attentamente per rilevarne le affinità. La giudico personalmente almeno in linea con la valutazione di chi l'ha posta in vendita, ossia SPL+, ma potrei azzardare anche un SPL+/q.FDC ed è a mio avviso tra i migliori esemplari conosciuti, se non il migliore, dato che da mie ricerche non mi sono noti passaggi d'asta di millesimi 1757 in qFDC o FDC. Sono quindi felice di condividere col Forum questa nuova acquisizione natalizia, anche s ein ritardo, di cui sono noti pochissimi esemplari. Ancora auguri! min_ver6 punti
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Confesso che ho tagliato di molto la presentazione delle monete, ma non avendo scanner e dovendo fare tutto artigianalmente, questa volta il lavoro mi era troppo.... In ogni caso la regina di questa tornata è senz'altro questa, visto che mi mancava !!! Taglio: 2 Euro CC Nazione: Portogallo Anno: 2007 Tiratura: 1.275.000 Conservazione: BB Località: Trieste4 punti
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Era un mese che la seguivo, il portafogli di chi ha vinto era più largo del mio, ora bando alle ciance e vediamo chi si sarebbe strappato come me i capelli per averla, per me è un R4, voi che ne pensate? :D3 punti
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;) se @@nikita_ :director: :director: chiama , rispondo :good: Regno Unito 1 penny 1862 ci rivediamo tra soli 54 anni3 punti
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Ho trovato , ieri l'altro , la ricerca di Marta Barbato " Le monete incuse a leggenda Pal-Mol : una verifica della documentazione disponibile " , che mi ha anche portato a rileggere le notazioni in argomento di Gorini , Giacosa ed Helle Horsnaes . Di Pal(inuro) e Mol(pa) , ipotizzati siti di produzione di questi rarissimi stateri , abbiamo poche evidenze archeologiche e tenui tracce nelle fonti . I 5 stateri pervenuti , compaiono , nella prima metà del 1800 , pressoché direttamente sul mercato numismatico napoletano , uno solo di questi con notizia di fortuito , isolato ritrovamento , in opere di zappatura nell'agro salernitano . Dalla cronaca numismatica di quel periodo , il Sestini ci informa della circolazione , in Napoli , di un conio falso per quei tipi di monete . Gli studi , articolati , non sempre univoci , di questi stateri , hanno portato alla valutazione di probabile falsità per 3 dei 5 ( Budapest , Firenze , Londra ) . Di questi , vale un cenno il Londra : pubblicato nella sua " Historia Numorum " dallo Head , poi , forse , sommessamente smentito , parrebbe essersi allontanato in quel grigio fumo così intimo a quella città . Infine , i restanti 2 stateri , considerati di probabile autenticità . Il primo , unico in onor di terra , ora in Berlino ; l'altro , conservatoci dalla nobile collezione De Luynes , ora in Parigi . Il travagliato studio di queste monete , ci è rammentato da Helle Horsnaes , " Doubts have been cast also on the Paris specimen " Quali sviluppi , dopo quasi 200 anni ? A Berlino non mancano esemplari rarissimi od unici , potremmo trarne l'auspicio che il figlio di dice essere stato del padre Erich Boehringer per altra ( tetradrammo 1 di Siracusa ) moneta là ed allora unica : un giorno apparirà un altro statere di Pal-Mol ( il 3° ? , il 6° ? ) , ed unitamente alla dracma " apparsa sul mercato numismatico di Zurigo " ( Giacosa ) , 20 anni fa , ci potrà , forse , parlare più compiutamente di una antica , quasi ignota Polis , e della fatica dei suoi bravi zecchieri .2 punti
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Buon pomeriggio. Oggi vi presento un presunto picciolo del Reame Siciliano al quanto inconsueto ed anomalo. Chiedo vostri pareri su quanta estraneità. Si presenta ambo i lati aquila volta a sinistra con ali spiegate. Da quello che riesco a scorgere dalla legenda: D:/[PH.......1608 •] R:/[........VS...III...] Diametro 9/10; Peso gr.0, 47. Metallo Ae. Cercato nei cataloghi qui a disposizione....cercato nello Spahr, ma nessuna traccia. Idee? :D Trattasi di una rarità? :huh: Se magari avete da aggiungere a quanto notate(che magari io non noto)o leggete (che magari io non vedo)nell aiuto per decifrarne la classificazione. Ringrazio anticipatamente. ;) Allego foto:2 punti
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In testa nel sondaggio tra i marenghi di Vittorio Emanuele III, personalmente trovo questo nominale decisamente bello. Modulo piccolo ed elegante, il ritratto di un Re giovane e un rivoluzionario rovescio, dopo cento anni di triti e ritriti stemmi sabaudi! Renato2 punti
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Buona serata Grazie Fabrizio per aver postato il testo che non conoscevo. Personalmente concordo con la definizione, ormai assodata in letteratura, che una moneta è una contraffazione quando uno Stato emette una copia di una moneta altrui, prestigiosa e ben accreditata, alterandone le legende, così che non si possa risalire allo stesso; queste monete, spesso calanti di peso o di fino, erano fatte per ovvi scopi speculativi. Le falsificazioni sono invece copie pedisseque degli originali, fatte da truffatori, ma calanti di peso o di fino, ovvero in metallo "povero" solamente dorato o argentato, così da frodare sul valore. Le imitazioni, invece, sono emesse da Stati e pur avendo una iconografia uguale (o molto simile) alle monete altrui, come nel caso delle contraffazioni, hanno legende o caratteri specifici che ne contraddistiguono l'officina monetaria. I grossi di Rascia appartengono a quest'ultimo caso. Erano monete conosciute e spesso accettate (anche da Venezia, che aveva costituito una magistratura apposita per il loro controllo). Nel campo delle ipotesi, allora, perché non accettare che anche questi grossi di Rascia possano essere stati contraffatti o imitati da qualche Stato ed anche falsificati da qualche truffatore? Certamente, su una moneta falsa, nessuno ci metteva una firma .... :nea: Non posso dire altro, non essendo edotto di questa monetazione, bisogna avere conoscenze specifiche; si ... il Dobrinic' ce lo dobbiamo procurare :pleasantry: saluti luciano2 punti
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Grazie @@Ramossen, perchè hai anticipato una delle richieste che avrei fatto una volta compilata la tabella, ovvero di motivare le vostre impressioni per capire tra tutti cosa e come osservare questi fenomeni. Per quanto mi riguarda per il provisino C, se faccio delle prove grafiche tra i denti del pettine che hai cerchiato, il diverso spessore in certi punti e anche l'inclinazione data all'ultimo dente non mi sembrano derivare da un medesimo punzone, ma magari mi sbaglio. Vi posto l'immagine sulla quale ho fatto la prova: quella in arancione è la forma dell'ultimo dente a destra mentre quella in verde è la forma di uno dei denti centrali (il più leggibile). Che ne dite? Per quanto riguarda la mano ferma nell'uso del bulino o di vari strumenti per l'incisione non se se hai mai visto un vero orafo a lavoro ma andare dritti per tratti così brevi per loro è uno scherzo. Invece: secondo voi l'incisione a bulino potrebbe avere influito sulla forma della punta dei denti del pettine? Fatemi sapere cosa ne pensate. Nel frattempo, visto che altri "provesinisti ad oltranza" tacciono (@@anto R ci hai abbandonato?), provo a far pronunciare sia gli amici che si sono allenati sui denari di Lucca che i Liguri che si divertono come noi a guardare le monete piccole delle loro zecche: @@scacchi, @@dabbene, @@vv64, @@lollone, @@fra crasellame, @@dizzeta, @@adamaney, @@matteo95, voi che ne pensate? > http://www.lamoneta.it/topic/105478-provisino-romano/?p=1517486 ? Se poi veneziani e savoiardi che ora sono tornati nella sezione, ne avessero voglia anche loro... ;)! Più pareri abbiamo e più penso che questo gioco possa essere utile a tutti per provare a capire la tecnica impiegata. In attesa dei vostri interventi buona serata MB2 punti
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La lucentezza e' probabilmente dovuta ad un intervento di pulizia, ma ad una prima impressione non vedo segni di dubbia autenticita'2 punti
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Mi sembra che fino a questo momento siamo tutti più o meno d'accordo sulle tecniche utilizzate per incidere i denti del pettine di queste monete, gli unici due esemplari su cui c'è grande discordanza di opinioni sono gli esemplari (B) e ©. Provo a motivare le mie asserzioni: Esemplare (B) la forma e lo spessore dei denti non mi sembrano così omogenei Esemplare © qui invece mi sembra esattamente il contrario in più credo che possa essere difficile tracciare a bulino delle linee parallele così vicine senza mai "sconfinare" se così fosse l'incisore doveva avere una mano fermissima2 punti
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______________ 1862 Impero Russo Alessandro II° (1818-1881) 1 Kopeco - Rame2 punti
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______________ 1862 Belgio Leopoldo I° (1790-1865) 10 Centimes - Rame/nickel2 punti
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Le incrostazioni e le tracce di ossidazione, sia sul dritto che sul verso, così come l'evanescenza dei gigli nel contorno del verso fanno pensare che questa moneta provenga da un ritrovamento. Penso quindi che, anche nel caso vi fosse stato una leggera argentatura superficiale, questa sarebbe stata completamente alzata dalle ossidazioni e rimossa con la pulizia post ritrovamento. La qualità di alcuni caratteri (vedi le S fatte quasi "a mano libera") fanno pensare alla tipica fattura artigianale; il foro molto invadente indica poi che la moneta venne "beccata" ed annullata. Il tutto per dire che a me sembra possa trattarsi d'un falso d'epoca....ma non riesco a capire su quale base venga attribuita a Aix la Chapelle.... ciao Mario2 punti
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Riprendiamo la nostra carrellata di stemmi e vi propongo una monetina dal grande fascino storico: un groschen dl Albrecht v. Wallenstein, coniato nel 1630 nella zecca di Sagan e che mostra al rovescio tre stemmi, quelli del Meclemburgo, (il toro) del ducato slesiano di Friedland (aquila e leone) e dell'altro ducato slesiano di Sagan. (aquila slesiana). Intorno si vede il collare del Toson d'Oro.2 punti
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Bene, dopo opportuni approfondimenti e ricerche, sono a dirvi quanto segue, credo con un certo margine di sicurezza e completezza. Per quanto riguarda il rovescio, questo è il corretto orientamento: dove risulta chiaramente compatibile quel po' che rimane del rovescio della moneta con il tipo similare messo a confronto. Si tratta quindi di una Sceatta Anglosassone del tipo censito da Metcalf (Metcalf, D.M., "Thrymsas and Sceattas in the Ashmolean Museum Oxford: Volumes 1-3", Oxford, 1994): "Series J sub-type 85" come l'esemplare di seguito postato (ex A. Tkalec AG Auction, 29/02/2008) Riguardo questa serie, Andrew Robert John Hutcheson, nel volume "The Origins of East Anglian Towns: Coin Loss in the Landscape, AD 470-939" (thesis, University of East Anglia, 2009), scrive: Infine, una carrellata di immagini di esemplari appartenenti a questa serie, è visibile nel sito internet del The Fitzwilliam Museum al link http://www.fitzmuseum.cam.ac.uk/coins/emc/emc_search.phpdove nel catalogo online della collezione risultano presenti 51 monete attribuibili a questa tipologia Per quanto concerne gli esemplari custoditi al museo, questa è la mappa dei findspot: Come al solito, spero di non avervi annoiato, ma, al contrario, di avervi fatto un po' appassionare a una tipologia di monete non molto "battuta" da noi collezionisti italici e, sebbene (per questo tipo!) relativamente comune, comunque abbastanza ristretta anche all'estero (salvo, probabilmente, in Inghilterra). :)2 punti
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@@redjack1969 io non voglio insistere , ma questa moneta non è quella messa in foto . Sono due monete diverse e lo scudo sulla prora lo dimostra . puoi tenerla o rimandargliela indietro , ma è bene , o almeno farei così , farglielo notare , a buon intenditor....2 punti
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Buongiorno George, questa mattina ho ricevuto una lettera da Roma da dove il tribuno: Ateio mi informa che nonostante avesse fatto di tutto per fermarlo, Crasso aveva fatto vela da Brindisi per Dyrrachium (Durazzo); la lettera è datata e con molta probabilità il nostro sarà già in territorio mesopotamico, o giù di lì; che si fa George? Ritieni si debba informare il nostro ospite Orode? Perché mai Caesar, Orode è già a conoscenza non solo della partenza di Crasso; ma viene costantemente informato dei suoi movimenti…seguiamo anche noi l’evolversi di questi spostamenti. Crasso, ovvero. Marco Licino Crasso era, a Roma, uno degli uomini più eminenti del suo tempo; ma non fu mai nè un grande uomo, né tantomeno un valoroso combattente. Proveniva da famiglia nobile ed il padre era stato uomo stimato ed apprezzato, la sua fama è legata all’abilità nel trattare gli affari, attività alla quale si era dedicato sin da giovane con tanto vigore ed energia da riceverne successo e ricchezza. All’epoca il commercio era favorevole e consentiva di poter accumulare notevoli fortune oltretutto il periodo della guerra civile era oramai superato lasciando tuttavia dietro di sé uno strascico di continue confische e vendite forzate di beni che offrivano anche ai capitalisti con non eccessive disponibilità, l’opportunità di diventar ricchi in tempi brevi attraverso investimenti oculati. Crasso non era certo uomo da muoversi a compassione verso nessuno né curava amicizie né tantomeno operava con delicatezza, pur di raggiungere l’apice della ricchezza non guardava in faccia a nessuno e nel breve volgere di pochi anni si ritrovò padrone di mezza Roma. Possedeva inoltre ricche e produttive miniere, poderi fertili e ben coltivati; ma soprattutto era padrone di un enorme numero di schiavi; egli stesso aveva calcolato, poco prima di imbarcarsi nella spedizione che lo avrebbe portato in Oriente, il valore delle sue proprietà che valutò in ca. 6.000 Talenti. Nella Roma di quel tempo come del resto in tutti popoli ed in tutti i tempi, la ricchezza era uno dei fattori che portava alla distinzione politica. Per ottenere le più alte cariche dello Stato, obbiettivo di contesa tra le più illustri personalità di Roma, era indispensabile impegnare tanto denaro e Crasso ne aveva molto, tanto da far nascere in lui quel desiderio che in gioventù non lo aveva turbato più di tanto, di imporsi ai suoi concittadini sì che la sua presenza nell’agone politico divenne sempre più frequente e lo portò a mettersi in competizione e superare gli altri favoriti del momento. Divenne promotore, patrocinante in tribunale, accollandosi cause che altri declinavano mostrandosi particolarmente zelante e coscenzioso; in quel periodo la sua casa era aperta a tutti, prestava danaro agli amici senza interesse e dava ampia, se non liberale ospitalità. In questo modo raggiunse presto nel “Foro” il più alto livello di notorietà ed anche senza essere particolarmente brillante il talento che dimostrava era più che considerevole ed il popolo riconosceva in lui eccezionali doti di sagacia e sicurezza tanto da proporlo alla guida politica del paese, sebbene in una posizione di sottordine, assieme a Pompeo e Cesare con i quali costituì nel 55 A.Ch. il cosiddetto “Primo triunvirato” seguì il “Consolato” e quando, come destino volle che la Provincia della Siria gli fosse assegnata, non pensò ad altro per aumentare ulteriormente il suo potere. L’ambizione di Crasso e la sua gelosia nei confronti di Pompeo e Cesare derivava dal fatto che la fama militare li rendeva a lui superiori; la Siria gli dava l’occasione per dimostrare a Roma intera che era eguale ai due generali se non addirittura il migliore. Nella fervida mente di Crasso andava prendendo sempre più corpo il progetto di portare sotto il dominio di Roma l’intero Oriente e già si vedeva assiso sul trono dell’impero che aveva visto il trionfo del Grande Macedone: Alessandro. L’opportunità gli venne offerta da Gambinio e come molti uomini di tempra ottusa e lenta Crasso lasciò che il desiderio di gloria lo pervadesse interamente e piuttosto che ponderare bene i risvolti dell’impresa che si accingeva a compiere, si lasciò andare a voli pindarici che lo portarono alla fine verso la rovina. Avrebbe dovuto attendere, prima di raggiungere la Provincia Orientale, di conoscerne il territorio, di aver esaminato bene le caratteristiche dei popoli che intendeva sottomettere per poi formulare una qualsiasi azione da intraprendere, invece Crasso iniziò subito a vantare con gli amici i suoi disegni e le sue intenzioni. Parlò della guerra che Lucullo aveva intrapreso contro Tigrane e di quella che aveva visto Pompeo contrapporsi a Mitridate Re del Ponto, come un gioco da ragazzi e dichiarò che non si sarebbe accontentato, come loro, di parziali conquiste; il suo obbiettivo non era costituito dalla conquista della Siria né tantomeno della Partia; ma andare oltre, portare le legioni romane contro la Bactria, l’India e raggiungere l’Oceano Orientale. I dignitari della repubblica dimostrarono prudenza e scetticismo che tuttavia a nulla valsero giacchè amici e sostenitori, tra cui lo stesso Cesare che dalla Gallia gli scrisse spronandolo a non avere timori di sorta e tenere alta la fiaccola della sua ambizione, rafforzarono in Crasso il convincimento che la strada che stava per seguire era quella giusta. Affrettò la preparazione del suo contingente e benchè il tribuno Ateio, si fosse battuto in ogni modo per dissuaderlo, mandandogli anche una solenne maledizione e cercando contro la volontà degli altri tribuni, di fermarlo prima che partisse da Roma, Crasso lasciò la città qualche settimana prima che terminasse il suo mandato di Console e disdegnando malefici presagi e maledizioni fece vela da Brindisi, con una grande flotta. Da Brindisi all’Eufrate il viaggio non subì particolari avversità, vero è che nella traversata dell’Adriatico qualche nave andò perduta; ma se si considera che eravamo a metà Novembre, la cosa non sorprende, tuttavia dopo lo sbarco a Dyrrachium , l’odierna Durazzo, l’attraversamento della Macedonia e della Tracia, il passaggio attraverso l’Ellesponto e l’Asia Minore, sino in Siria non presentarono soverchie difficoltà tanto che Crasso potè tranquillamente sistemarsi in Antiochia dove incontrò un vecchio alleato di Roma: Deiotauro, Re della Galazia che aveva appena fondato una nuova città. “Certo Deiodato, iniziare a costruire una nuova città alla tua età !” “Caro Crasso anche te non ti sei deciso molto presto a dar guerra ai Parti” garbati sfottò di ultrasessantenni. Mentre Crasso stava preparando la sua spedizione Orode ebbe tutto il tempo di prepararsi a ricevere l’indesiderato ospite, non solo fece affluire uomini atti alle armi da tutte le parti del suo vasto impero, li armò convenientemente e li fece addestrare ed esercitare; ma ebbe anche l’opportunità di guadagnare alla sua causa certi capi militari che ai confini dell’impero avevano sin qui goduto di una certa semi indipendenza e che avrebbero potuto avere la tentazione di allearsi agli invasori. Il più importante di questi era Abgaro, principe dell’Osrhoene, ovvero di quel tratto che si trova ad est dell’Eufrate vicino alla città di Edessa, e che in passato era stato alleato di Pompeo Magno e che poteva quindi essere visto come ben disposto verso i Romani. Orode lo persuase ad allearsi segretamente con i Parti benchè ancora fosse legato a Roma. Altro importante personaggio era Alchandonio, uno sceicco arabo di quelle parti che aveva anch’egli fatto, a suo tempo, sottomissione a Roma; lo convinse che tra i due contendenti quello più potente era la Partia e lo legò alla sua causa. Orode stesso, tanto per anticipare le mosse di Crasso conquistò le città di Seleucia e Babilonia ed in queste pose a difesa, due nutrite guarnigioni nell’attesa delle mosse tattiche del Proconsole romano e di conoscere quali vie avrebbe scelto per inoltrarsi nel territorio. Inizialmente Crasso non sembrava avere eccessiva fretta tanto che la vecchia, ben nota avidità di denaro ebbero il sopravvento sugli sviluppi dell’impresa principale e si concesse:l’accettazione della riconoscenza, in doni ed Oro, da parte della Mesopotamia, dopo aver sconfitto sul Belik il satrapo della Partia: Ichnae; la volontaria sottomissione di un buon numero di città greche, ov’egli pose guarnigioni e riconsiderando i suoi piani nel primo anno e mezzo di campagna si abbandonò ad una nutrita serie di vergognose quanto lucrative operazioni paramilitari. A Hierapolis o Bambyce c’era un famoso tempio dedicato alla Dea siriana Atergatis o Derketo; fece irruzione nel santuario, pesò accuratamente tutte le offerte in metallo prezioso: Oro ed Argento e se le portò via… inesorabilmente. Essendo poi venuto a conoscenza che nel santuario di Jehovah a Gerusalemme erano rimasti ancora dei tesori, nonostante la precedente azione sacrilega di Pompeo Magno, programmò una visita alla città con il solo scopo di saccheggiare ciò che era rimasto del tesoro sacro ed impadronirsi degli ornamenti e fregi in Oro. In altre città schiavizzò uomini e mercanti restituendo la libertà solo a quelli che erano in grado di riscattarsi con auree prebende. Un paese greco della Mesopotamia che aveva tentato di resistergli, venne espugnato, conquistato, saccheggiato, distrutto e gli abitanti, sopravvissuti al massacro, resi schiavi. Passò in questo modo Crasso, l’autunno e l’inverno del 54 A.Ch e nella primavera del 53 A.Ch. l’avaro Proconsole iniziò a prendere in considerazione l’idea di procedere nel suo tanto decantato obbiettivo di invasione della Partia. Cesare per parte sua, dalla Gallia, gli aveva inviato il suo primogenito: un giovane galante e buon ufficiale desideroso di distinguersi sul campo ed il suo questore: C. Cassio Longino che non era voluto rientrare a Roma e desiderava alzare la sua spada, non contro dei miserabili, inermi Greci; ma contro un nemico più valoroso. Anche Artavasdes, il Re Armeno figlio più giovane di Tigrane avrebbe voluto che la grande armata Romana impartisse ai Parti un ridimensionamento permanente. All’inizio della primavera si recò al campo di Crasso e gli offrì tutte le risorse che il paese poteva mettere in campo: 16.000 cavalieri, di cui 12.000 con armatura pesante e 30.000 fanti ed allo stesso tempo lo invitò a passare dal suo territorio dove avrebbe potuto facilmente rifornirsi di acqua e viveri; un territorio amico, oltretutto costellato di alture che avrebbero potuto frenare l’irruenza della cavalleria dei Parti. Il cammino attraverso l’Armenia lo avrebbe condotto alle sorgenti del Tigri da dove, con una facile carovaniera che attraversava una fertile pianura avrebbe potuto, seguendo il corso del fiume, raggiungere Seleucia (Ctesifonte): seconda capitale della Partia. Seleucia non aspettava altro ed avrebbe accolto i Romani come liberatori, inoltre molte altre città Greche, disseminate sul percorso, avrebbero potuto essere di aiuto all’esercito romano. La proposta Armena era allettante, completa nella sua formulazione e molti consiglieri del Proconsole erano favorevoli e lo invitarono ad accettarla. Crasso, l’anno precedente aveva istituito guarnigioni in molte città dell’Osrhoene che non sentiva adesso di togliere per non lasciarle alla mercè del nemico, declinò quindi l’offerta di Artavasdes che offeso dal rifiuto, lasciò il campo Romano per tornare in tutta fretta al suo paese. Da parte loro i Parti, nel periodo invernale non avevano fatto movimenti degni di nota se non inviare una ambasceria al Proconsole più con lo scopo di farlo desistere dall’attacco che di esasperarlo. Il Re dei Parti aveva pensato a Crasso, non conoscendolo ancora, come a Lucullo o Pompeo; ma dopo che un intero anno era passato senza che fosse avvenuto niente di importante, salvo qualche incursione nelle province esterne o l’occupazione di pochi insignificanti villaggi, cominciò a pensare che la forza dell’esercito romano fosse nella realtà in funzione dell’abilità del suo comandante: formidabile od al contrario di una fragilità senza eguali. Venne poi a sapere che Crasso aveva oltrepassato la soglia della sessantina ed aveva sentito dire che non era mai stato un comandante di milizie e neppure un soldato ed a quel punto cominciò a nutrire qualche dubbio sulle reali intenzioni di conquista del Proconsole ritenendo opportuno attendere che Crasso, sazio delle ricchezze ottenute con i saccheggi, ritirasse le sue truppe dalle guarnigioni dell’Eufrate. Fu con questi pensieri che all’inizio della primavera, Orode mandò una ambasceria al campo romano con la precisa determinazione di spingere all’azione anche il più indolente e povero di spirito dei comandanti o di ritirarsi: “…Se Roma era veramente intenzionata a portare guerra ai Parti, avrebbe fatto una fine indecorosa; ma se com’egli aveva buona ragione di credere, Crasso contro il volere del suo stesso paese, aveva attaccato la Partia e depredato il territorio per il suo tornaconto, Arsace si sarebbe mostrato moderato e pietoso data l’età avanzata dell’interlocutore ed avrebbe lasciato che l’esercito di Roma potesse defluire da dove era venuto senza troppo danno” Crasso, punto nel vivo dell’orgoglio, si espresse nei confronti dell’ambasceria in termini che non ammettevano repliche ”Avrebbe dato la sua risposta direttamente al Re Parto, quando fosse entrato nella sua capitale” … era la rottura e Wagiser, il capo degli ambasciatori che si era preparato ad una risposta di questo tipo, anch’egli colto nel vivo, replicò battendo il pugno di una mano sulle dita dell’altra “ Ti cresceranno i capelli o Crasso prima che tu passa vedere Seleucia” C’era stata, prima che l’inverno avesse fine, una scaramuccia in Mesopotamia, verso le guarnigioni romane degli alleati e le forze Partiche anche se non rioccuparono i territori dove erano state sistemate le guarnigioni, portarono scompiglio, paura e non poche sofferenze sia ai soldati che alla popolazione. I più paurosi tra i difensori, abbandonarono le guarnigioni per rifugiarsi nel Campo Romano esagerando l’azione militare compiuta dai Parti: Il nemico, dissero, è così rapido nei suoi movimenti che non è possibile raggiungerlo quando si ritira né fuggire quando attacca; le frecce che scoccano sono così veloci che non si possono seguire con la vista e penetrano ogni sorta di armatura difensiva; i loro cavalieri possiedono armi che forano ogni protezione e sono coperti con corazze impenetrabili alle nostre armi. Questi resoconti suscitarono non poco allarme e sembravano confermare i non favorevoli auspici fatti dagli Auguri; ma il Proconsole era oramai entrato nell’ottica che un qualche rischio bisognava pure correrlo e che non si poteva far fare a Roma una figura ridicola, ritirandosi senza aver prima combattuto almeno una battaglia campale. Seguì un secondo attacco dei Parti, ma il Proconsole rimase fermo sulle sue decisioni. La proposta Armena era stata oramai respinta, giudicata come un percorso troppo lungo da seguire che avrebbe fatto perdere tempo prezioso, c’era poi la necessità di tenere unita la truppa, considerando che circa 8.000 uomini erano stati lasciati, l’estate prima, in Mesopotamia Crasso ritenne opportuno fare di quel luogo la base della sue operazioni a scapito dell’Armenia. Da qui si dipartivano diversi itinerari percorribili; il primo ben noto sia ai Greci che ai Romani, era la via dell’Eufrate già percorsa da Ciro con ca. 10.000 uomini nella sua spedizione contro il fratello; lungo questo itinerario c’era abbondanza di acqua, foraggio per i cavalli e possibilità di vettovagliamento, inoltre costeggiando la riva destra del fiume non c’era il pericolo di poter essere aggirati. Una alternativa era costituita dal percorso che aveva compiuto Alessandro Magno quando si era rivolto contro Dario 3° Codomanno; questa strada correva ai piedi del Monte Masio ( Karajah Dagh) e passando per Edessa e Nisibis giungeva sino a Ninive. Anche qui acqua e vettovagliamenti erano facilmente reperibili e tenendosi vicina ai margini delle colline la fanteria romana avrebbe potuto evitare le micidiali cariche della cavalleria dei Parti. Numerosi altri percorsi si snodavano lungo la pianura della Mesopotamia, tutti più brevi dei primi due; ma nessuno più vantaggioso. All’inizio Crasso era propenso ad intraprendere la “Strada di 10.000” guadò l’Eufrate a Zeugma (Biro Birehjik) più o meno a 37° di latitudine ed alla testa di sei legioni, 4.000 cavalieri ed altrettanti tra frombolieri ed arcieri iniziò la sua marcia lungo l’argine del fiume. Nessun nemico sembrava apparentemente in vista e le sue avanguardie non segnalavano, anche a distanza, presenza di soldati Parti e man mano che si spingevano in avanti le sole tracce che rilevarono, visibili sul terreno, erano le impronte di molti cavalli in rapida ritirata. Le notizie vennero considerate di buon auspicio ed i soldati marciavano di buon umore. All’improvviso al campo romano fece la sua comparsa lo Sceicco Osrhoeniano: Abgaro; chiese un colloquio con il Proconsole e con lui si intrattenne a lungo professandogli la più calda amicizia e consigliandolo di mutare il suo indirizzo tattico: I Parti, gli disse, non hanno attualmente nessuna intenzione di fronteggiarlo, lo faranno, se lo faranno, solo più tardi quando al Re giungeranno tutte le forze che ha richiamato dal suo vasto impero; ma allo stato attuale sono demoralizzati e pensano solo a lasciare la Mesopotamia e trasferirsi, con i loro tesori, nelle lontane regioni della Scizia e dell’Hicarnia; il Re già era andato via e la maggior parte dell’esercito si stava ritirando restava, attardata in Mesopotamia, solo una retroguardia al comando di due generali: Surena e Sillace che poteva essere facilmente raggiunta. Se Crasso invece di procedere cautamente come stava facendo, si fosse affrettato su un percorso più breve, avrebbe potuto tagliare la strada alla retroguardia della grande armata che procedeva con lentezza, appesantita com’era dai bagagli che gli avrebbero oltretutto fruttato un ricco bottino. L’astuto Osrhoeniano riuscì ad accaparrarsi la fiducia del Proconsole e nonostante che Cassio ed altri ufficiali di rango lo consigliassero a muoversi con prudenza Crasso dette ordine di seguire le indicazioni del “Beduino” e cambiò la direzione della marcia, si allontanò dall’Eufrate e si inoltrò verso Est, sull’altopiano secco e ghiaioso della Mesopotamia superiore e noi lo lasciamo qui mentre andiamo a seguire la reale situazione dell’esercito Parto e del suo Monarca, pronto a fronteggiare e contrastare l’attacco dei Romani. Già abbiamo detto come Orode si fosse assicurato la fedeltà dei vassalli esterni alla Partia: il principe dell’Osrhoene e lo sceicco della Scenite Araba; in particolare aveva comprato i servigi del primo per mettere fuori strada i suoi assalitori e considerando poi i vari sviluppi che avrebbe potuto avere la campagna giunse alla conclusione che fosse necessario dividere l’esercito in due tronconi. Una parte delle forze, al suo diretto comando, furono destinate all’invasione dell’Armenia obbiettivo di primaria importanza per impedire alle forze Armene di unirsi all’esercito di Roma, mentre l’altro troncone dell’esercito venne affidato ad un generale di comprovato talento e fedeltà con il compito di confrontarsi e contrastare l’armata di Crasso. Probabilmente Artavasdes si riteneva al sicuro tra le montagne del suo paese e non si aspettava l’aggressione di Orode tanto che aveva inviato parte delle sue truppe in Mesopotamia in aiuto a Crasso. Il generale Surena che era stato posto a capo delle milizie che dovevano contrastare l’esercito di Roma godeva dell’incondizionata fiducia del suo sovrano ed era generale “Di razza” migliore ancora dello stesso Orode; il nome con il quale è passato alla storia con ogni probabilità non è quello gli affibbiarono i genitori alla nascita e che non conosciamo; “Surena” come “Brenno” significano forse solo e semplicemente “Generale” ed è con questo nome che amava farsi chiamare. Godeva della più ampia considerazione ed era rispettato da tutti per nascita, ricchezza e reputazione: era la seconda personalità del regno. Eccelleva tra i suoi concittadini per abilità e coraggio ed aveva il vantaggio fisico di essere imponente e possedere belle forme. Quando scendeva in campo era accompagnato da un seguito di 1.000 cammelli destinati a portare il suo personale bagaglio e le sue concubine venivano trasportate con 200 carri; lo proteggevano 1.000 cavalieri ed un gran numero di armigeri costituivano la sua “Guardia del Corpo” Alla incoronazione del monarca dei Parti fu lui che, per diritto ereditario, gli pose sul capo il diadema di Re e fu sempre lui che, andò a riprendere Orode dall’esilio per portarlo trionfalmente in Partia; quando Seleucia si sollevò al suo Re fu ancora lui , che aprì una breccia nelle mura, vi passò per primo e sparse terrore tra i difensori tanto da riconquistare la città al suo legittimo sovrano. Quando fu promosso “Comandante” non aveva ancora trent’anni ed alle doti di forza, sagacia, coraggio ed abnegazione si accompagnava una consumata prudenza. L’esercito che Orode aveva affidato al suo bravo, fedele e valoroso luogotenente era costituito, quasi per intero da cavalieri. Per quanto la cavalleria fosse importante nell’esercito Parto essa non rappresentava di solito più di 1/4 od 1/5 rispetto ai fanti; ma nella contingenza l’arma vincente contro i Romani avrebbe potuto essere proprio la cavalleria abituata a scorazzare su spazi aperti, caratteristici degli altopiani Mesopotamici, mentre di poco aiuto sarebbero stati i cavalli se impiegati sulle scoscese montagne dell’Armenia, lasciò dunque la cavalleria a Surena e trattenne per sé la fanteria. Le truppe equestri Partiche, come quelle Persiane erano di due tipi, sempre in goliardico contrasto gli uni con gli altri. La maggioranza dei cavalieri era armata alla leggera giacchè il suo punto di forza era rappresentato dall’agilità. Corsieri giovani e veloci, con nessun ornamento ad eccezione della testiera, guidati con una sola briglia, erano montati da cavalieri vestiti solo di pantaloni e coperti da una leggera tunica, armati di arco e frecce. L’addestramento iniziava sin da fanciulli e continuava nella giovinezza, tanto da diventare un tutt’uno con il loro destriero, mentre l’utilizzo dell’arco era efficace in ogni azione; sia che il cavallo fosse fermo o lanciato al galoppo, nell’attacco o nel disimpegno dal nemico. La provvista di frecce era praticamente inesauribile, la faretra era sempre piena, consumata la dotazione dovevano solo compiere una breve distanza per andarsi a rifornire nuovamente presso i magazzini mobili posti a dorso di cammello, che li seguivano nell’azione. Caratteristica del loro attacco era il continuo movimento attorno al nemico; si avvicinavano agli squadroni ed alle colonne nemiche e se ne ritraevano senza mai affrontarle direttamente; ma lavorandoli ai fianchi con nutriti, intervallati lanci di frecce, scagliate da arcieri precisi e dotati di archi potenti. Mugoli di cavalleggeri aggredivano il nemico ora attaccando, ora ritirandosi e gli infliggevano gravi danni senza peraltro subire sostanziali perdite. Ma questo non era tutto, né il peggio giacchè oltre alle truppe leggere l’armata Partica poteva sempre disporre di un contingente di cavalleria pesante, armata di tutto punto; le cavalcature erano forti ed appositamente selezionate per questo tipo di servizio ed erano quasi totalmente coperte con maglie ad anellini di Ferro; la testa, il collo, il torace e fin anche i fianchi erano protetti con armature confezionate con pezzi di Bronzo o di Ferro cuciti sulle maglie. Anche il cavaliere era protetto con corazza e cosciali dello stesso materiale ed saveva sul capo la protezione di un elmo in Ferro brunito. Come arma di offesa avevano una lunga e forte lancia o picca ed in battaglia avanzavano come una linea compatta ed impenetrabile che premeva sul nemico…praticamente un muro di Ferro contro le cariche che venivano portate contro di loro. Una cavalleria di questo tipo era stata impiegata dagli ultimi Re Persiani ed in questo periodo anche dagli Armeni; ma le picche dei Parti sembra che fossero molto più dure e resistenti rispetto a quelle utilizzate da quest’ultimi popoli. Mommsen afferma che il confronto tra questa truppa e quella messa in campo dai Romani era nettamente a svantaggio degli occidentali che erano inferiori sia nel numero che nella qualità. La fanteria Romana eccellente, se utilizzata in spazi ristretti, sia nella breve distanza con il giavellotto che nel combattimento corpo a corpo con la daga, non era in grado di far fronte ad un esercito di cavalleggeri estremamente mobile che non si impegnava in uno scontro campale e quando lo faceva, con la cavalleria pesante era un avversario troppo superiore sia nella difesa con i lancieri praticamente ricoperti di Ferro che nell’offesa con le lunghe e consistenti picche. Strategicamente le forze Romane erano soccombenti perché la cavalleria era padrona del campo, il combattimento corpo a corpo praticamente impossibile, il lancio dei dardi a distanza faceva il resto inoltre la posizione di compattezza, su cui si basava l’intero sistema di combattere delle legioni Romane, nel caso di attacco a distanza, anzichè diminuire il danno lo enfatizzava in quanto i ranghi chiusi delle milizie diminuivano la possibilità di dispersione dei dardi e delle frecce Partiche. Se ci si fosse trovati nelle condizioni di attaccare un villaggio, difeso da mura l’impiego della sola cavalleria con ogni probabilità non sarebbe stato risolutivo senza l’aiuto della fanteria; ma nella piatta regione Mesopomamica, dove un esercito era come una nave in mezzo al mare che vagava per giorni e giorni di marcia senza incontrare un punto di difesa naturale, un muro, una fortezza, il sistema di guerreggiare dei Parti diventava irresistibile per la semplice ragione che permetteva di sviluppare, con il movimento, tutta la sua potenza. Altro fattore di primaria importanza era da ricercarsi nell’adattamento dei nativi alle condizioni proibitive del terreno; per i Romani trascinarsi a piedi, pesantemente gravati dell’equipaggiamento sotto una intollerabile calura con i morsi della fame e della sete, su un percorso che non offriva né cibo né acqua era un calvario; meno pesante era la situazione per i Parti che abituati sin da piccoli a traversare sulla groppa del cammello deserti di sabbia avevano imparato a superare le avversità del terreno e destreggiarsi di fronte ad ogni necessità. Non c’era la pioggia a mitigare i raggi del sole erano anzi le frecce dei Parti l’unica pioggia dalla quale non era possibile ripararsi in alcun modo; è difficile immaginare una situazione di maggiore disagio e più svantaggiosa per l’esercito Romano. Il contingente che Orode aveva affidato a Surena era costituito sia da cavalleria leggera che da quella pesante, in quale misura tra le due non è dato sapere né è possibile una stima ufficiale sul loro numero… dovevano essere tanti perché espressioni come: “Una vasta moltitudine” o “ Un immenso distaccamento” ci fanno intendere che doveva essere un esercito considerevole, in ogni caso tale da indurre Surena, invece di limitarsi a difendere la capitale, ad avanzare oltre la catena del Sin Jar ed il fiume Khabour per attestarsi tra Khabour ed il Belik. La presenza di Abgaro era, per il comandante Parto, di estrema importanza; il principe dell’Osrhoene aveva oramai conquistato la piena fiducia di Crasso al punto tale da essere posto a capo di un reparto di cavalleria in servizio di perlustrazione e lasciato così, su sua stessa richiesta, libero di scorrere il paese davanti alle legioni che avanzavano ed era in questo modo che riusciva a comunicare, abbastanza facilmente con Surena e lo teneva costantemente informato sulle intenzioni del Proconsole Romano e sui movimenti delle sue milizie e nel contempo suggeriva a Crasso l’itinerario da seguire che naturalmente era quello più favorevole per i Parti. Plutarco, la nostra guida per i dettagli della spedizione, ci dice che fece passare le truppe romane per un deserto arido ed impervio, caratterizzato da una pianura priva di alberi, arbusti od anche di soli ciuffi d’erba il cui suolo era costituito quasi completamente di sabbia che il vento modellava in una successione di dune simili alle onde di un interminabile mare. I soldati venivano meno, per la stanchezza, la fame e la mancanza d’acqua mentre l’ipocrita Osrhoeniano prometteva loro che tra breve si sarebbero imbattuti, tra l’Arabia e l’Assiria, in un paese ricco di fresche acque ed ombrosi boschi ove avrebbero trovato refrigerio tra bagni ed osterie, un paese simile a quello che avevano lasciato in Campania; ma eran sogni. Sulla base delle nostre conoscenze geografiche sappiamo che il paese tra l’Eufrate e Belik è un alternarsi di colline e pianure con poca acqua e scarsi alberi; ma che avrebbe tuttavia permesso che la marcia dell’esercito Romano potesse procedere, con difficoltà; ma non insuperabili, tuttavia Abgaro per meglio acconsentire ai desiderata di Surena, indusse Crasso a ritenere più idoneo uno spazio aperto piuttosto che muoversi sulla sponda del fiume o costeggiare il pendio di una montagna inoltre lo indusse ad una marcia più rapida nell’insopportabile calore del giorno. Certamente Abgaro compì una azione di cui Surena dovette essergliene poi grato; ma da qui a sostenere, come alcuni apologisti di Roma, che attrasse i Romani in pieno deserto dove la spossatezza e la mancanza di acqua e cibo compirono la strage che poi l’esercito Parto concluse non è suffragata dagli scrittori del tempo. Con ogni probabilità tre o quattro giorni dopo aver lasciato l’Eufrate Crasso si ritrovò vicino al nemico. Dopo una marcia veloce in piena calura si trovava adesso vicino alle sponde del Belik e qui fu raggiunto dai suoi esploratori che lo avvertirono di essersi imbattuti nell’armata Partica che stava avanzando baldanzosa in forze. Abgaro aveva lasciato da poco Crasso con il pretesto di dover compiere non ben definiti servizi; ma nella realtà era corso a raggiungere i suoi amici Parti. Gli ufficiali di Crasso consigliarono di accamparsi sulla riva del fiume e rimandare al giorno successivo un eventuale scontro con il nemico. Crasso non ritenne opportuna la sosta spinto anche dal figlio Publio, giovane, galante ufficiale formatosi alla scuola di Giulio Cesare che era ansioso di cimentarsi. Fu dato l’ordine di rinfrescarsi un poco ma senza sostare, di spingersi in avanti mentre Surena da parte sua aveva preso posizione su un terreno boscoso, in collina dietro la quale aveva celato le sue truppe, inoltre aveva fatto coprire le armi dei suoi soldati con pelli e teli in modo che non si vedesse il luccichio delle armi. Non appena i Romani furono vicini i Parti balzarono fuori dai loro nascondigli; il fragore dei cembali risuonò per tutto il campo: la battaglia aveva avuto inizio. L’esercito Romano si era disposto lungo l’intera linea, in quadrati con al centro gli armati leggeri ed il supporto della cavalleria sui fianchi, mentre la cavalleria pesante dei Parti lanciava la sua carica. Fu questo il primo attacco dopodichè entrò in campo la cavalleria leggera che tenendosi a debita distanza scaricava in continuo sui legionari nugoli di frecce, scagliate con straordinaria potenza. I Romani cercarono di difendersi con ripetute “sortite” ma non furono in grado di competere con il nemico sia perché fornito di armi migliori, sia per il maggior numero di quest’ultimo tanto che fu presto gioco forza rientrare alle spalle dei legionari che si trovavano così ancora più esposti alle micidiale frecce della cavalleria Partica che perforavano: scudi, corazze e schinieri provocando profonde e dolorose ferite. Quando i legionari accennavano ad attaccare, la cavalleria leggera si ritirava a distanza di sicurezza senza tuttavia smettere di scagliare incessantemente frecce, sia durante la fase di ritirata sia quando successivamente riprendevano l’attacco. Per un po’ i Romani nutrirono la speranza che i Parti terminassero la loro riserva di dardi; ma quando si resero conto che ogni arciere veniva costantemente rifornito dalle retrovie di nuove frecce, persero ogni speranza. Fu allora che Crasso decise di cambiare tattica e come ultima ratio comandò al figlio Publio di cercare di aggirare i Parti e caricarli alle spalle. Il bravo giovane fu ben lieto di ubbidire, non aspettava altro per mettersi in bella evidenza e raccolta attorno a sé la cavalleria Celtica che Cesare dalla Gallia gli aveva affidato ed altri 300 cavalieri, 500 arcieri ed altrettanti frombilieri oltre a circa 4.000 legionari, avanzò decisamente verso il nemico ed i Parti, simulando spavento nel timore di essere sopraffatti, si ritrassero in tutta fretta. Publio, con l’impetuosità dei giovani, li inseguì sino a che presto fu fuori dalla vista dei suoi pressando contro un nemico che riteneva preda del panico; ma non appena i Parti furono sufficientemente lontani dall’armata Romana si fermarono e fronteggiarono le truppe di Publio con la cavalleria pesante che riuscì a spezzare le linee dei Romani le quali così separate divennero facile preda delle veloci ondate della cavalleria leggera; Publio si difese disperatamente e con onore. I suoi Galli afferravano le lance dei cavalieri con le mani e li trascinavano al suolo o si insinuavano sotto i cavalli dei loro avversari e li pugnalavano al ventre facendo rotolare cavallo e cavaliere. I legionari riuscirono ad occupare una leggera collina e con gli scudi cercarono di fare muro, non ci fu verso, gli arceri Parti li accerchiarono e fu una strage. Dei circa 6.000 uomini, solo 500 furono fatti prigionieri e solo pochi furono quelli che riuscirono a sottrarsi con la fuga. Il giovane Crasso avrebbe avuto la possibilità di tentare di passare attraverso le linee nemiche per trovare rifugio ad Iehnae, un villaggio Greco non molto distante; ma preferì seguire il destino dei suoi uomini e piuttosto che cadere vivo in mano al nemico costrinse il suo attendente ad ucciderlo ed il suo esempio fu seguito dai suoi principali ufficiali. I vincitori, staccarono la testa di Publio dal corpo e con questa infilata su di una lancia tornarono ad attaccare il grosso dell’esercito Romano che sollevato dalla pressione del nemico per effetto della sortita di Publio, ne attendeva fiducioso il trionfale ritorno. Dopo una prolungata attesa si insinuò un qualche sospetto che sfociò in allarme quando i messaggeri avvertirono Crasso, il quale nel frattempo aveva dato ordine di avanzare, che il nemico stava tornando all’attacco e che avevano visto la testa dello sfortunato Publio infilata su di una lancia. Mentre la cavalleria leggera, con rinnovato vigore tornava ad assalire le legioni Romane i cavalieri corazzati inseguivano i legionari in ritirata infilzandoli con le loro lance e trafiggendone anche due per volta. I Romani non erano oramai più in grado di difendersi né tantomeno di contrattaccare subivano nella speranza che gli archi si rompessero, che le lance si spuntassero, che le frecce cominciassero a mancare, che i muscoli ed i tendini iniziassero a rilassarsi e quando scese la sera da entrambe le parti fu accolto quasi con un sospiro di sollievo il buio che pose fine ad ogni ostilità. Era costume dei Parti e prim’ancora dei Persiani sospendere le attività belliche durante la notte, si ritiravano a ragionevole distanza dal nemico, per evitare brutte sorprese; ma prima di allontanarsi gridarono ai Romani che avrebbero concesso al Generale la notte per piangere suo figlio e che l’indomani, tornavano alle luci dell’alba per farli prigionieri e che sarebbe stato meglio per loro arrendersi alla benevolenza di Arsace. Il breve intervallo di tregua consentì ai Romani di ritirarsi a Carrae lasciando dietro di sé la maggior parte dei 4.000 soldati feriti nello scontro. Un piccolo manipolo di cavalleggeri, al comando di Egnazio, raggiunse Carrae più o meno verso la mezzanotte ed impose al comandante del distretto di porsi, con i suoi uomini, a disposizione del proconsole. I Parti, nonostante il lamento dei feriti abbandonati confermasse loro la ritirata dei Romani, seguendo il loro costume, si astennero dall’inseguire i legionari sino alle prime luci dell’alba quando si lasciarono andare a comportamenti esecrabili come l’uccisione dei soldati feriti ed il massacro dei soldati sbandati che trovavano lungo la linea di marcia mentre andavano all’inseguimento dell’armata romana in ritirata. Il grosso delle truppe riuscì a ritirarsi a Carrae dove, sotto la protezione delle mura si sentivano un po’ più al sicuro. Era da attendersi una sosta prolungata nella città anche perché l’assedio della cavalleria ad una piazzaforte è ridicolo non essendo possibile il blocco totale e completo della struttura, oltretutto i Parti erano notoriamente inefficienti contro le fortificazioni. C’era inoltre la speranza che Altavasdes avesse avuto più successo del suo alleato, contro Orode e che avendo respinto il Re dei Parti fosse in grado di portare aiuto ai Romani anche se i soldati, oramai scorati, francamente non credevano a questa opportunità. La possibilità di fermarsi a Carrae venne ben presto scartata, prima perché nulla era stato fatto per prepararsi a sostenere l’assedio, poi perché la popolazione Greca poco si fidava del contingente Romano dato oramai perdente. D’altro canto l’Armenia non era distante ed approfittando della consuetudine dei Parti di astenersi dal combattere nelle ore notturne sembrava fattibile raggiungere le colline dell’Armenia con una marcia notturna, tuttavia i vari ufficiali furono lasciati liberi di decidere, ciascuno per proprio conto la soluzione che ritenevano migliore. Cassio, con 5.000 cavalieri, prese la strada che conduce all’Eufrate; Ottavio anch’egli con un contingente di ca. 5.000 uomini raggiunse a piedi le colline e si assestò in relativa sicurezza, in un sito chiamato Sinnaca; Crasso avrebbe voluto raggiungere Ottavio; ma ad appena un miglio dal suo luogotenente fu intercettato dalla avanguardia dell’esercito Parto che lo costrinse a trovare rifugio, con i poco più di 2.000 legionari ed i pochi cavalieri rimastigli, su una collinetta, collegata a Sinnaca da una increspatura di terra. Sarebbe stato sicuramente catturato ed ucciso se Ottavio non fosse corso in suo aiuto; le poco più che 7.000 unità avevano dalla loro il vantaggio della posizione e con l’esperienza dei giorni precedenti avevano imparato a loro spese a conoscere i punti deboli del guerreggiare dei Parti. Surena desiderava ardentemente di prendere prigioniero il comandante Romano; in Oriente si dà molta importanza a questo fatto inoltre Crasso in più di una occasione si era reso particolarmente odioso al suo antagonista , questi riteneva infatti che avesse provocato la guerra con il solo scopo di “fare bottino” aveva inoltre rigettato con disprezzo ed alterigia ogni tentativo di accordo insultando la “Maestà” dei Parti dicendo che avrebbe trattato con loro solo quando da vincitore, fosse giunto nella loro capitale. Se Crasso fosse sfuggito alla cattura avrebbe potuto presentarsi nuovamente, magari con più rinvigorite forze, se fosse invece caduto nelle mani di Surena lo avrebbero atteso giorni tristi. La sera si stava avvicinando ed ai Parti parve che la preda tanto ambita potesse loro sfuggire approfittando della notte e Crasso potesse raggiungere le montagne dell’Armenia, in questo caso ogni tentativo di inseguimento si sarebbe allora rivelato inutile. Fu giocoforza giocare la carta dell’astuzia per ottenere ciò che non era stato possibile con la forza; ritirò quindi l’esercito e lasciò che i Romani si ritirassero senza essere molestati, nel contempo lasciò che alcuni prigionieri riuscissero a scappare per tornare a congiungersi con i loro compagni d’arme avendo prima fatto in modo che avessero potuto ascoltare la conversazione “Riservata” di alcuni suoi comandanti il cui tema era la clemenza dei Parti nei confronti dei prigionieri e la volontà di Orode di venire a patti con il Generale Romano. Lasciò quindi il tempo che queste notizie si diffondessero nel campo romano quindi si avvicinò; trasse la corda e con la mano destra allungò l’arco in segno di amicizia “Lasciate che il Generale Romano, con un egual numero di soldati, venga a conferire con me, in campo aperto, i termini della pace tra i nostri eserciti” L’anziano proconsole era tutt’altro che incline ad accettare questa apertura; ma la truppa demoralizzata lo costrinse e Crasso, accompagnato da Ottavio e pochi altri s’incamminò verso Surena. Surena ricevette l’ospite ed i suoi accompagnatori apparentemente con onori ed espresse loro i termini dell’intesa, solo che volle che fossero messi per iscritto dato che disse, con allusione alla cattiva fede di Pompeo. “ Voi Romani dimenticate spesso gli impegni che prendete ” Crasso ed i suoi furono invitati a salire sui cavalli forniti dai Parti per recarsi in un luogo dove poter formalizzare per scritto quanto concordato; ma il Proconsole seduto sul suo cavallo intuito l’inganno, si voltò in fretta con l’evidente intenzione di ritornare al campo romano ed i suoi ufficiali Romani lo circondarono a protezione e difesa; ne scaturì un tafferuglio, Ottavio afferrò la spada ed uccise un soldato Parto ed uno degli stallieri che voleva portare via Crasso; ma un arciere da dietro scoccò una freccia mortale che lo fece rotolare a terra senza vita, nella confusione Crasso fu ucciso non si sa se da uno dei suoi stessi uomini o per mano dei Parti: non è stato mai accertato. L’esercito saputo quanto era accaduto al loro comandante, con poche eccezioni, si arrese e coloro che con il favore delle tenebre avevano cercato la fuga furono preda dei beduini che al servizio dei Parti avevano ricevuto l’ingrato compito di cacciare ed uccidere i transfughi e gli sbandati. Del grande esercito che aveva traversato l’Eufrate forte di 40.000 uomini non ne ritornarono più di 4.000; una metà era caduta sul campo, altri 10.000 furono fatti prigionieri e confinati dai Parti all’estremità orientale del loro impero, nella fertile oasi della Margiana (Merv) costretti, dopo aver prestato servizio militare ai Parti, ad operare in schiavitù, alcuni si sposarono con le donne del posto; ma rimasero sempre soggetti sottomessi ai Parti. Finì così questa grande spedizione operata dagli avidi ed ambiziosi Romani, nel tentativo non di sottomettere la Partia; ma di depredare e terrorizzare il suo popolo degradandolo ad ossequioso dipendente, per il piacere dei “Padroni del Mondo” La spedizione finì così male, non tanto per mancanza di valore da parte dei soldati coinvolti nell’impresa né per la superiorità tattica dei Parti nei confronti dell’esercito Romano; ma in parte per l’incompetenza dei comandanti e l’assoluta ignoranza sul modo di guerreggiare di questo popolo e conseguentemente dal non sapere in qual modo fronteggiarli. Attaccare un nemico la cui principale arma è la cavalleria, con un esercito di fanti supportato da un insignificante numero di cavalieri si rivelò al tempo stesso imprudente e pericoloso, operare un attacco di questo tipo su un terreno aperto e pianeggiante dove la cavalleria poteva muoversi liberamente a suo arbitrio era come giocare con il fuoco, lasciare poi, dopo la prima sconfitta la protezione sicura delle mura che si era riusciti a raggiungere a caro prezzo, fu mera follia. Crasso era riuscito ad ottenere l’appoggio di alcune tribù del deserto che avrebbero potuto aiutarlo se non l’avesse fatto l’Armenia ed aveva il vantaggio di poter scegliere l’itinerario che riteneva più consono; costeggiare il Monte Masio ed il Tigri o seguire la linea dell’Eufrate ed allora il risultato dello scontro avrebbe potuto essere diverso, ancora avrebbe potuto seguire la via di Seleucia o Ctesifonte, come fecero poi Traiano, Avidio Cassio e Settimio Severo e saccheggiare le città della zona. Senza dubbio avrebbe incontrato difficoltà nel ritirarsi; ma non certo peggiori di quelle che incontrò Traiano la cui spedizione contro i Parti è passata poi alla storia come una personale vittoria del suo comandante e ne aumentò a dismisura il carisma ed il prestigio. La vanagloria di un comandante inesperto, alle prime prove di comando, che non conosceva né i luoghi dove operava, né le caratteristiche belliche del nemico che andava a combattere, trascurando il supporto di alleati ed ogni forma precauzionale suggerita dai suoi stessi ufficiali, lasciandosi guidare solo ed esclusivamente da un “falso “ amico che lo portò a marciare sulla strada più faticosa e favorevole al nemico non poteva finire che in tragedia. L’esercito Romano aveva dato il massimo di ciò che avrebbe potuto e non è da mettere in dubbio la sua affidabilità ed il coraggio, né le armi partiche compirono miracoli, dimostrarono solamente, come già era accaduto contro i Siro – Macedoni che anche in mancanza di un esercito regolare erano tuttavia capaci di operare con efficacia contro masse di militi compatte e bene ordinate, ben più di loro disciplinate nei movimenti. Dall’uso dell’arco acquisirono la fama che ottennero successivamente gli Inglesi a Grecy ed Azincourt, costrinsero al rispetto gli arroganti Romani e fecero loro capire che nel mondo allora conosciuto non erano una sola nazione “Principe”; ma che ce n’era almeno un'altra che non aveva timori reverenziali e che poteva fronteggiarli alla pari. Da allora gli scrittori Greci e Romani parlarono dei Parti come seconda potenza al mondo capace di rivaleggiare con Roma, un impero che regnava dall’Eufrate sino alle sponde dell’Oceano Atlantico. Mentre il generale di Orode riportava in Mesopotamia, contro i Romani, un successo completo e senza pari, lo stesso Re aveva ottenuto, in Armenia risultati non meno importanti, sebbene di tipo diverso. Anziche impegnare Artavasdes in una guerra sanguinosa era addivenuto con lui ad un accordo, sfociato poi in una stretta alleanza suggellata dall’unione del figlio Pacoro con la sorella del Re Armeno. Erano appunto in corso i festeggiamenti per celebrare il lieto evento quando giunse la notizia del trionfo di Surena e della disfatta di Crasso. In accordo alla barbara usanza, da sempre utilizzata nell’Est, la notizia fu accompagnata dalla testa e dalle mani mozzate del Proconsole e per dovere di cronaca dobbiamo dire che al momento dell’arrivo dei messaggeri i due sovrani con il loro entourage erano intenti nei festeggiamenti. In quel periodo erano frequenti, in Oriente, le compagnie di attori ambulanti Greci che potevano contare sulla ospitalità delle molte città elleniche e spesso trovavano accoglienza anche tra gli Armeni ed Artavasdes, come organizzatore della festa, aveva appunto assoldato una di queste compagnie per il proprio diletto giacchè sia lui che Orode, conoscevano la lingua e la letteratura Greca, nella quale essi stessi avevano composto lavori storici e tragedie. Lo spettacolo era già iniziato e quando giunsero i messaggeri si stava rappresentando la famosa scena delle “Baccanti” di Euripide dove Agavè ed i Baccanali vanno verso il palco con i resti mutilati di Penteo; fu allora gettata loro la testa di Crasso e l’attore che impersonificava Agavè immediatamente raccolse il macabro trofeo e postalo sul suo “Tirso” al posto di quello che si era portato per la rappresentazione, davanti agli spettatori deliziati, dette inizio al canto del noto ritornello. “ Dalla montagna a Palazzo, un nuovo tralcio tagliato, vedi, dono benedetto noi portiamo” L’orribile spettacolo riuscì molto gradito all’auditorio orientale e siamo sicuri che fu seguito da sonori interminabili applausi e gli attori ne trassero un vantaggio insperato. Seguì una cerimonia di barbarità squisitamente orientale, i Parti ritenendo che Crasso fosse venuto nelle loro terre solo ed esclusivamente per depredarli, in senso di derisione versarono nella sua bocca: Oro fuso. Surena ricevuti i complimenti delle sue truppe vittoriose mise in scena una ridicola cerimonia a Seleucia. Inviò un rapporto dicendo che Crasso non era stato ucciso; ma catturato e scelto tra i prigionieri romani quello che più somigliava fisicamente al Proconsole, lo fece vestire con abiti femminili e lo pose a cavallo dicendo a tutti che era l’Imperatore Crasso che veniva condotto in trionfo nella città Greca. Precedeva il corteo un gruppo, montato su cammelli di trombettieri e littori sulle cui verghe erano stati applicati dei “Borsellini” mentre le asce tra le verghe erano coronate con le teste insanguinate dei Romani caduti; seguivano uno stuolo di ragazze, musiche di Seleucia, che cantavano canzoni di derisione all’effeminatezza e codardia del Proconsole. Dopo questa parata di cattivo gusto Surena riunì il senato di Seleucia e sdegnato mostrò loro le lettere dei seleuci che aveva trovato nelle tende del campo romano. I Seleuci non rimasero particolarmente impressionati dalla lezione morale loro impartita da Surena quando si trovarono al cospetto della parata di concubine che avevano accompagnato Surena nella spedizione e dalla moltitudine di danzatori, cantori, musici e prostitute che liberamente si erano accompagnati all’esercito Parto. Ci si sarebbe potuto attendere che il terribile disastro cui erano andate incontro le legioni romane ed il trionfo delle armi partiche fosse stato foriero di straordinarie e travolgenti conseguenze; nessuno si sarebbe sorpreso se il potere di Roma in Asia fosse stato sradicato dalle fondamenta nè se l’indole aggressiva degli Asiatici avesse portato i Parti verso la conquista dell’Occidente come 450 anni prima avevano tentato di fare i Persiani. Nulla di tutto questo, la Mesopotamia naturalmente fu conquistata sino al suo limite estremo: l’Eufrate; l’Armenia fu tolta all’alleanza dei Romani e passò definitivamente in completa dipendenza dei Parti, l’Est Asiatico ebbe come un sussulto. Gli ebrei, da sempre recalcitranti al giogo straniero e di recente offesi dall’improvvisa spoliazione del loro tempio operata da Crasso, presero le armi; ma nessun altra sommossa si registrò tra i popoli dell’Oriente Si poteva supporre che: Siriani, Fenici, Cilici, Cappadoci, Phrigi ed altre popolazioni asiatiche avrebbero potuto cogliere l’opportunità per sollevarsi e cacciare i Romani dal loro territorio, che la Partia si facesse paladina di tali rivendicazioni ed assumesse l’iniziativa per liberarsi, una volta per tutte da confinanti tanto scomodi anche perché Roma non solo era oramai paralizzata in Oriente; ma anche in Occidente era sull’orlo della guerra civile: mancava l’uomo. Se fossero stati ancora vivi Mitridate del Ponto o Tigrane d’Armenia od anche solo se fosse stato Re dei Parti Surena e non Orode l’occasione favorevole sarebbe stata sicuramente colta e Roma forse non si sarebbe mai più ripresa dalla sconfitta patita; ma sembra che Orode non fosse né ambizioso come principe, né abile come comandante, nè tantomeno che possedesse il senso politico necessario a comprendere il corso degli eventi per poter sfruttare il momento favorevole dei tempi. Lasciò a Roma l’opportunità di ritirarsi senza nel contempo creare le condizioni perché mai più potesse metter piede in Oriente. Se c’era, in quel periodo, un uomo capace di trarre vantaggio dalla situazione che si era creata per costringere Roma a pagare il prezzo della sua avventatezza ed aggressività questi era Surena che purtroppo aveva perduto i favori del suo sovrano. Ci sono nell’Est; ma anche un po’ in tutte le parti del mondo ed in ogni tempo, servizi che non si dovrebbe mai rendere completamente al proprio sovrano; Surena aveva ecceduto in questo, aveva dato tutto ciò che era possibile dare e la gelosia di Orode non tardò a farsi attendere, risvegliata dal successo e dalla reputazione che si era fatta il suo generale, non ci volle molto tempo a trovare una accusa che lo portasse alla pena capitale . Con la sua morte la Partia perse il Comandante che avrebbe potuto rivalersi sui Romani per il danno causato con la loro invasione; Sillace, il comandante in seconda non era all’altezza del compito e questo fu alla base della fiacchezza dimostrata da popolo Parto negli anni 53 – 52 A.Ch. Poche settimane dopo la battaglia di Carrae solo poche, isolate bande armate di Parti si avventurarono oltre l’Eufrate per operare azioni di saccheggio e devastazione; ma furono subito fronteggiate da Cassio che li costrinse a ripassare oltre il fiume. Roma avrebbe potuto trarre vantaggio da questo stato di cose, magari solo per rafforzare le frontiere; ma chi era alla guida della Repubblica aveva ben altri problemi da risolvere in patria, nell’imminenza di una guerra civile interna le truppe servivano in Italia e non certo all’estero. Visto il disinteresse di Roma, Orode si decise finalmente a dar corpo ad una grande armata da porre alla guida del Principe Pacoro, affiancato da un ufficiale di più matura età e comprovata esperienza, di nome Osace. Quando i Parti comparvero sulle rive dell’Eufrate, per Cassio che pure aveva fatto del suo meglio per riorganizzare ciò che era rimasto, dopo Carrae, dell’esercito di Crasso e che aveva rinforzato con due legioni, non ci fu niente da fare. La scelta di non rischiare lo scontro in campo aperto era più che giustificata ed i Parti attraversarono l’Eufrate senza incontrare resistenza alcuna e dilagarono nel territorio dei Siriani. Le città fortificate riuscirono a salvarsi; ma i paesi che non erano protetti da mura vennero occupati ed un brivido tra allarme e paura percorse tutte le province Romane dell’Asia che erano difese da pochi militi Romani la maggior parte dei quali erano impegnati in Italia ad impedire la guerra civile mentre le milizie locali erano più inclini a salutare i Parti come fratelli liberatori. Cicero, il proconsole della Cilicia, ci dice che eccetto Diodoto in Galazia ed Ariobarzanes in Cappadocia, Roma non aveva amici sul continente Asiatico e la Cappadocia oltre che debolmente difesa era anche terribilmente aperta agli attacchi sul fronte Armeno. Orode ed Artavasdes agivano di concerto e mentre il primo spingeva le sue truppe in Siria le forze Armene si riversavano sulla Cappadocia e la Cilicia mettendo in serio pericolo i possedimenti Romani nella regione. La confusione in Asia era grande e Cicero, con il grosso dell’esercito, si rivolse alla Cappadocia per portare aiuto a Deiotaro ed ai Galatiani inviando a Roma pressanti ed urgenti richieste di consistenti aiuti militari. Cassio stesso dovette rifugiarsi in Antiochia lasciando che la cavalleria dei Parti andasse oltre i confini della Siria e da li si portasse in Cilicia. I Parti tuttavia non erano a conoscenza delle gravi difficoltà in cui versava il contingente Romano né erano consapevoli dei loro vantaggi; il sistema informativo evidentemente era carente. Invece di diffondersi, sollevare i nativi e lasciare che con il loro appoggio si impadronissero delle città limitandosi a finire in campo aperto il nemico, si impegnarono nell’assedio delle città, attività cui erano totalmente inadatti e finirono per confluire, quasi totalmente, nelle anguste valli dell’Oronte. Cassio riuscì a rompere l’assedio di Antiochia e sorprese l’esercito dei Parti con una imboscata sulle rive dell’Oronte decimando pesantemente le loro truppe ed arrivando anche ad uccidere il generale Osace. Fu giocoforza abbandonare la capitale Siriana ed alla fine di Settembre, con l’arrivo della stagione fredda, le truppe Partiche si ritirarono nei loro quartieri invernali della Cyrrestica o nella parte della Siria immediatamente ad Est di Amanus e qui rimasero sotto la guida del Principe Pacoro nell’attesa della primavera per riprendere le ostilità interrotte. Come si usa dire:” Spesso il diavolo ci mette la coda”… e così nelle vesti di Bibolo, il nuovo proconsole della Siria, infelice sia come generale che come uomo di stato, fece soffiare il venticello della calunnia suggerendo all’orecchio di Ornodapantene, un nobile Parto, che il giovane Pacoro era molto interessato al trono del padre e che si era sull’orlo della ribellione tanto da consigliarlo, nel suo stesso interesse, di proclamare Re il Principe e portare l’esercito attualmente operante in Siria contro lo stesso Orode. Orode aveva da sempre associato il figlio Pacoro al governo dello stato tanto che il suo nome compare spesso nella monetazione del padre; ma evidentemente, per quanto ben dissimulato, questo non era sufficiente al Principe E’ ben vero che sono state trovate monete Partiche in cui compare la sola testa del Principe e la dizione del contorno pone queste emissioni sotto il regno di Orode; evidentemente vennero messe in circolazione quando la ribellione si rese tangibile anche se fu bloccata sul nascere. Orode sicuro della fedeltà del figlio, lo richiamò a Corte sì che il piano non essendo ancora preparato nei particolari, non trovò sfogo e Pacoro altro non potè se non obbedire ai desideri paterni. Nel Giugno del 50 A.Ch. all’inizio dell’estate, sembra che gli squadroni dei Parti avessero lasciato la Siria attraversando nuovamente l’Eufrate; il pericolo per Roma era terminato; ma l’onta di Carrae non era stata ancora cancellata, l’onore e la reputazione di Roma in Oriente avevano subito un tracollo senza precedenti Dopo poco più di quattro anni la prima guerra Partica si era conclusa a favore degli Orientali, sia dal punto di vista dell’immagine che come conquista territoriale con l’entrata dell’Armenia sotto il controllo dei Parti.2 punti
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Buongiorno, ecco il mio ultimo acquisto. Che ne pensate? Siamo sul BB+? Vi piace la patina? Saluti e buon we Silver1 punto
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Cosa ne pensate? Sono tra le monete in oro meno apprezzate di Vittorio Emanuele III, considerate un po' le "Cenerentole" eppure, ritratto a parte, non dei migliori secondo me, i rovesci sono decisamente piacevoli! Renato1 punto
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Buonasera a tutti...volevo chiedervi gentilmente un parere su questo aquilotto...grazie mille!!!1 punto
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Anche a me sembra il testone di uno dei Flavi, Vespasiano o Tito, dal colore rossiccio e dal peso penso ad un molto consunto asse in rame. L'orientamento del verso dovrebbe essere questo, credo...1 punto
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Sono d'accordo: oltre al problema delle legende sottolineerei l'aspetto un po' grossolano della figura di Cristo e, soprattutto, la sigla "XC" - "XI" al posto della "IC" - "XC". Ecco, forse quest'ultimo dettaglio allontanerebbe l'emissione dall'autorità ufficiale, almeno quella serba.1 punto
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Questa "stravagante" discussione mi ha spinto a contare le monete che ho in collezione: 283 monete tutte diverse coniate durante le Sedi Vacanti Pontificie (10 zecche, dal 1268 al 2013).1 punto
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Ho riletto con calma la discussione e temo di essermi espresso male. Quando ho detto che secondo me l'ipotesi "imitazione di imitazione" è da escludere mi riferivo ai grossi mostrati adesso, non a quello oggetto della discussione. Per quest'ultimo credo che tale strada sia percorribile a causa, soprattutto, delle legende principali non decifrabili che non permettono un'identificazione con nessuno dei grossi di area balcanica noti (quelli della Bulgaria e della Bosnia, ad esempio, hanno iscrizioni completamente diverse). Gli altri segni e lettere (compreso il CUX), come detto nell'articolo indicato da fabry61, per quanto insoliti possono apparire su monete coniate dall'autorità ufficiale.1 punto
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vai tranquillo joker67. Allora, non venne mai battuta moneta con l' effigie di Benito Mussolini , mai potevano recare l' impronta del Duce, dal momento che non era Capo dello Stato. Queste sono le classiche patacche, fatte in diversi metalli e in diversi tagli, ci sono le 100 lire, le 20 lire e i 5 lire. Quando vedi Benito Mussolini sulle monete, vai tranquillo............sono Pat. H1 punto
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Sono contento che abbia accettato il mio invito, non ci speravo, ma ecco qui tra noi quello che io definirei un uomo che ha fatto di tutto, un uomo che rappresenta a pieno titolo il XIII secolo, ma dai preamboli passo subito all'intervista .... Come si definirebbe lei Benedetto Zaccaria ? Grazie dell'invito intanto, sono qui con grande piacere a parlare di me, ma anche della storia del XIII secolo, come mi definirei ? un ammiraglio, un mercante, un diplomatico, un politico, un po' tutto questo insieme, un uomo poliedrico, coraggioso, anche temerario, che ha saputo rischiare, ma che sapeva anche dialogare se c'era bisogno. Lei viene ricordato come il vincitore morale della Meloria, si considera questo ? Più che vincitore morale, mi considero il vincitore, la Meloria fu un capolavoro di tattica, strategia, anche di rischio calcolato, certamente una battaglia sanguinosa, certo oggi col senno di poi ho un unico rimpianto quello che siano morti tanti valorosi marinai e combattenti, fu una battaglia durissima e sanguinosa. Certamente io pensavo sempre come un tattico e l'obiettivo da raggiungere non era di poco conto, si trattava di avere la supremazia navale nel Mediterraneo e dopo questa vittoria Pisa scomparse dalla scena, il colpo fu durissimo per loro.... Quindi abile condottiero, strategia, tattica, coraggio e poi ....? E poi fui anche politico, consigliere del Comune di Genova, ma anche abile diplomatico, una missione proprio diplomatica mi aprì le porte dei mercati del Levante. Fu Michele Paleologo a concedere a me e a mio fratello Manuele Focea con le sue ricchissime miniere di allume. Esportai in tutto l'Occidente, sempre combattendo coi pirati, alla fine riuscii a imporre un monopolio arrivando dovunque in Mar Nero, a Trebisonda, Armenia, Caffa ( che ebbe mio genero come Console ) e anche in Russia. Monopolio, controllo, ma anche tanta qualità del prodotto seguito in ogni componente, l'estrazione, la raffinazione, il trasporto, la vendita, era difficile con noi fare di meglio, oggi un manager vorrebbe arrivare a tutto questo....qualcuno mi ha anche chiamato " il mercante perfetto ", questo non lo so lo dicono altri.... certamente mi agevolarono le conoscenze, i rapporti, le diplomazie, la vicinanza con i potenti Doria, con i Cattaneo della Volta, e tanti altri gruppi importanti dell'epoca. Quindi una vita perigliosa ed affascinante la sua ? Vista col senno di poi direi si, forse anche troppo, mi piaceva rischiare e rischiai, ma non andai mai oltre, io ero per il rischio calcolato, e questo lo dovrebbero tenere a mente tutti anche ora. Certamente il mare fu il mio habitat, come comandante, come mercante, le merci si muovevano in gran parte via mare, il mare è stato il teatro delle mie fortune. Un segreto da svelare a chi ci sta leggendo ? Ritengo di essere stato fortunato, ma certamente capii anche quello che contava..... A cosa si riferisce quando dice questo ? A un intreccio che c'era tra commercio, affari, politica, consorterie, parentele di alto rango, chiamiamola politica economica.... E in questo lei fu un maestro ? Direi di si, almeno quanto lo fui sui campi di battaglia.... La ringrazio veramente tanto, la sua è stata una testimonianza storica incredibile, quella di un uomo che fu nel XIII secolo effettivamente un po' tutto....grazie anche a voi che ci avete seguito....1 punto
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@@417sonia@@Follis Anonimo Carissimi io penso che comunque il grosso sia di area Serba e che dobbiamo procurarci il Dobrinic il quale scrive: " Così sono conosciuti i matapan di Dragutin con l'iscrizione DVX, RVX e con 'iscrizione CAR" ed ancora "Sotto il ban P.Subic, suo fratello Mladen I e suo figlio Mladen II sono stati realizzati in Bosnia dei matapani molto rari con le loro iscrizioni da sovrano DVX PAVLU BAN MLADEN, nel periodo 1302-1304, rispettivamente DVX PAVLV BAN MLAD SECVNDVS nel periodo 1305-1312". "http://ca.www.mcu.es/museos/docs/MC/ActasNumis/moneta_con_iscrizione.pdf">Monetacon l'iscrizione VROSIVS DVX S STEFANVS</a> L'idea pertanto che il grosso in questione sia un'imitativa dell'imitativa Serba non è così peregrina, tanto è vero che tra gli stessi Urosios è conosciuto un grosso con l'iscrizione DVX al posto di REX. Tenendo conto del fatto che, come abbiamo scritto poco sopra, molti grossi hanno alla base dell'asta le sigle dello zecchiere si può pensare veramente che qualcuno abbia imitato questo grosso. E' vero sì che di solito gli imitativi sono più "grezzi" ed allora dovremmo pensare che il grosso di Genova sia un falso coevo ma non si vede la ragione per cui un falso debba riportare la firma? Ciao a tutti1 punto
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Come non darti ragione... Moneta che mette pace con gli occhi. Trattala con cura....lo merita. Saluti1 punto
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Sono due sesini di Filippo IV (1621-1665) Re di Spagna e Duca di Milano D/IIII REX HISPANIARVM / PHI coronate R/MEDIOLANI D / stemma Diam ind. 15 mm - peso gr 1,06-1,67 MIR 3751 punto
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@@Rex Neap sapevo che i pizzitini parteciparono all'atto , c'è però da dire , che più per l'ignoranza che per l'astio vero . Credo e penso sia giusto , discolpare questa popolazione , da sempre tenuta in uno stato di oscurantismo e sopratutto di pochezza ( di mente e di mezzi ) che , si ripercosse in fenomeni quali appunto , la partecipazione all'atto d'arresto . La vicenda di Lauria o dei seguaci borbonici , all'indomani della caduta di Napoli ( parlo del febbraio 1806 ) , ben prima quindi della successione murattiana , ne è un esempio . La fedeltà più cieca li spinse a compromettere numerose città , Maratea ad esempio e molte di queste solo per volontà della stessa popolazione si salvò dal sacco ( anche se non sempre ) . Sembra strano , ma la stessa popolazione dovette difendersi , non tanto dall'esercito francese ma , dai fanatici e fedelissimi della monarchia che , erano disposti al sacrificio più assurdo pur di mantenere o comunque resistere ad una circostanza più forte di loro .1 punto
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@@gallo83 non ci sono colpetti sul bordo, ma ha avuto qualche problema in fase di incisione della legenda sul taglio oltre ai soliti graffi di conio. La lucentezza dei campi è questa Non male vero?1 punto
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Ciao! La monetazione di Vittorio Emanuele III è molto varia ed affascinante, tuttavia ti consiglierei, prima di acquistare qualunque moneta, di procurarti un catalogo, in quanto è già di per sè un buon metodo per iniziare a studiare il periodo. Io ho il Gigante e mi ci trovo bene, tuttavia se vuoi approfondire maggiormente la storia dovrai poi indirizzarti su alti libri.. Poni pure le tue domande in questa discussione, troverai tutte le risposte che cerchi.. :good: Se vuoi un consiglio, io è poco più di un anno che ho riscoperto questa passione e quindi ricordo bene le cavolate fatte a causa dell'euforia iniziale, medita bene gli acquisti e in caso (per quelli on line sopratutto), chiedi quì sul forum un parere, avrai così maggiori certezze, almeno finchè non sarai in grado di valutare da solo.. :good:1 punto
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Mi scuso con Voi vorrei chiarire il concetto. Le imitazioni sono coniazioni similari ma non uguali. Differiscono nelle legende ed alcune volte nell'iconografia(vedesi i ducati ed i grossi). La moneta da te postata la ritengo un vero e proprio falso con le stesse leggende. Se ci fossero tracce di argentatura direi che sia coeva, ma sono dubbioso.Sa molo di moderno. Ciao Fabry1 punto
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-Regno di Macedonia, Filippo I( 359-336 AC)I Maltere in bronzo, riferimento NG.Cop. 594, zecca di Pella, Testa di Apollo rivolta a destra/ giovane a cavallo con sotto mongramma 4 per N.1 punto
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Cari amici, Allego una parte del convincente ed importante articolo che, molto gentilmente, mi e' stato inviato da Gionata Barbieri e che chiarisce l'attribuzione della moneta di Capua (collezione reale) a Ruggero II. E' da notare che interpreta le lettere Rx come R(e)X ed al rovescio R__P come Sanctus Petrus. L'articolo e' datato 2010. Complimenti a Gionata. Amedeo P.S.: Il file completo e’ troppo pesante per poterlo allegare ed e' protetto da diritti come ha specificato Enzo. Parte di Una_conferma_di_attribuzione_a_Ruggero_II_di_un_follaro_capuano-GIONATA_BARBIERI.pdf1 punto
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E' un peccato che l'impegno profuso da alcuni di noi non sia ripagato da adeguato coinvolgimento e partecipazione . Non pretendo che si scriva necessariamente ma solamente una ventina di letture negli ultimi due giorni fanno cadere le "braccia". Ho l'impressione che questa monetazione rimarrà avvolta nelle tenebre ancora per molto tempo. E nel frattempo si continuano ad utilizzare classificazioni e ordinamento cronologico come da CNI. Misteri della vita....... Consueto "piantarello" ultimato :D Per quanto riguarda la tematica punzone sì punzone no (@@monbalda ma che belle monete hai postato !) onestamente non sono mai stato convinto pienamente da nessuna ipotesi. Come già scritto da @@Fufluns ritengo forse l'utilizzo di una tecnica mista più che ragionevole ma come già anticipato non sono la persona idonea ("occhiuta") per una lettura approfondita del fenomeno. Comunque mi butto :lol: Esemplare A incisione a bulino B punzone (con stratagemma per la lunghezza, vedi @@Ramossen ad esempio) C misto? D punzone E punzone G incisione a bulino F punzone In attesa di altri contributi, Monica, poi tocca a te indicare la via. Non la passi liscia....... :D Saluti a tutti1 punto
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In realtà queste monetine non sono al top, sono delle buone conservazioni, costano poco, hanno un gran fascino. Questi piccoli capolavori, sviliti dai commercianti che le considerano quasi un peso, dovrebbero essere un po' rivalutate dai piccoli collezionisti, oltre che dai grandi, perché, seppur modeste, sono decisamente belle. Spesso sento dire dai collezionisti che si dedicano solo all'argento di Vittorio Emanuele III e tralasciano il rame, secondo me sbagliano.... Il due centesimi, ha una mancanza di metallo sulla cifra 2. Renato1 punto
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Per completezza, aggiorno la moneta con i dati mancanti: AE; 2,7 gr.; 18 mm Ex Commerciante francese; ex antica collezione privata. E, ultima chicca, la foto corredata da cartellino precedente collezione.1 punto
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Il venditore autorizzato di DelCampe ha inserito la vendita del set di Andorra....... e ci guadagna di spedizione se prendi più set.1 punto
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Littore fa bene a fare questo appunto. Se si crede a Babbo Natale perche' non credere anche al rame rosso intatto per un secolo.....1 punto
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Questa è una bellissima presentazione e discussione avrei preferito fosse spostata nel sito "Altre monete antiche", che sarebbe il suo spazio naturale. Non capisco pure perchè non ci siano immagini a completamento. Mi permetto perciò di inserire le poche monete partiche entrate nella mia modesta collezione, augurandomi che la discussione continui nel suo ambiente specifico. Artabanos II Artabanos III Gotarzes II Mitridates I Mitridate II Mitridate II Mitridate III Nambed Napad Orodes I Orodes II Orodes II Pakor Pakor II Vardanes I Vologases III Vologases IV ... e pensare che ne mancano tanti !!! roth371 punto
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